lunedì 9 ottobre 2023

101)- INES TESTONI: RICORRERE AL DESTINO SEVERINIANO PER INCREMENTARE «L’ALIENAZIONE DELLA VITA»?

Leggiamo il seguente brano della prof.ssa Ines Testoni, allieva di Emanuele Severino, che riporto dal WEB così come l’ho trovato:

<<Riprendendo le parole del suo maestro, Emanuele Severino, «l’uomo soffre per quel che crede di essere e se crede di essere mortale la sofferenza oltre che atroce e inevitabile è anche incurabile». Secondo la professoressa, avere cognizione di questo tipo di dolore, facendolo emergere dall’inconscio in cui la richiudiamo, è il primo passo per trasformare l’angoscia in consapevolezza del terrore e del dolore. Un passo che «si compie entrando nel merito dei contenuti che le grandi tradizioni del passato e della cultura contemporanea, in parallelo a quelli della scienza, ci consegnano». Il secondo passo del master, continua Testoni, consiste nel capire che cosa crediamo, che significhi morire alla luce di queste competenze e discuterne criticamente. Il terzo passo che il Master garantisce è quello di entrare nel merito delle proprie esperienze di perdita e dare loro senso, grazie a tali riflessioni. «Infine, ed è forse il passaggio più difficile da fare – completa Testoni – è capire che non abbiamo proprio niente da temere perché, come mostra in modo inconfutabile Severino, siamo già da sempre salvi in quanto l’eternità (che peraltro non sappiamo pensare e dobbiamo imparare a farlo) è ciò che più autenticamente ci compete». Il percorso, che prevede anche i temi dell’eutanasia e della morte medicalmente assistita, è idoneo a medici, infermieri, psicologi, educatori, insegnanti, assistenti sociali, ma anche artisti e giornalisti. Nel corso degli incontri saranno presentate tutte le posizioni, consentendo a tutte e a tutti di farsi un’opinione>>. (Dalla presentazione del corso di Federico Mellano nel quotidiano La Stampa del 12 settembre 2023):  https://www.lastampa.it/cronaca/2023/09/11/news/universita_padova_master_morte-13115066/).

Insomma è chiaro:

è sempre la SOLITA IRREPARABILE DISCREPANZA tra teoria filosofica e vita o esperienza quotidiana, la quale va in tutt’altra direzione.

Perché?

Com’è noto, per la teoresi severiniana, la VOLONTÀ è quell’abissale ALIENAZIONE che vuole l’IMPOSSIBILE, ossia vuole TRASFORMARE gli essenti in qualcos’altro, per conseguire/realizzare di volta in volta i propri scopi, ILLUDENDOSI, poi, di averli eventualmente ottenuti. Essa, perciò, è per Severino un’eloquente manifestazione di NICHILISMO e di VIOLENZA.

Senonché, come si evince dall’articolo, Ines Testoni (o chi per lei) vorrebbe FONDARE SULL’ESTREMA ALIENAZIONE e sulla VIOLENZA, un percorso _ un <<Master>> _ DISALIENANTE, a quanto pare, onde <<avere cognizione di questo tipo di dolore, FACENDOLO emergere dall’inconscio in cui la richiudiamo>>.

Quindi, l’ALIENAZIONE in cui consiste la volontà, VUOLE FARE <<emergere dall’inconscio>> ciò che, una volta FATTO emergere _ cioè la <<consapevolezza del terrore e del dolore>> _ si costituirebbe come risultato NON-ALIENATO OTTENUTO dallALIENAZIONE.

Ovviamente, per OTTENERE ciò, è necessario <<TRASFORMARE l’angoscia in consapevolezza>>, ovvero _ stante la convinzione severiniana secondo la quale la volontà e l’ottenuto da essa sono FEDI cioè ILLUSIONI, ERRORI _, è necessario VOLERE che l’angoscia DIVENGA quell’altro da sé cui è la <<consapevolezza del terrore e del dolore>>, dopodiché dovremo CREDERE di aver ottenuto tale consapevolezza, ben sapendo che essa non potrà che esser un’ennesima FEDE/ILLUSIONE (sempre che si VOGLIA dare retta alla teoresi severiniana). 

Inoltre, afferma la Testoni:

<<Infine, ed è forse il passaggio più difficile da fare, è capire che non abbiamo proprio niente da temere perché, come mostra in modo inconfutabile Severino, siamo già da sempre salvi in quanto l’eternità (che peraltro non sappiamo pensare e dobbiamo imparare a farlo) è ciò che più autenticamente ci compete>>.

Qui, A DISPETTO della recisa NEGAZIONE severiniana che l’eternità dell’ente sia l’ennesima forma approntata dai mortali come RIMEDIO/CONSOLAZIONE contro il terrore del nulla della morte, la professoressa ci (R)ASSICURA invece che <<non abbiamo proprio niente da temere>>, perché _ andando CONTRO Severino _ il RIMEDIO c’è e consiste nell’<<eternità>> della Gloria, la quale <<è ciò che più autenticamente ci compete>>.

Dunque,

CON Severino, finché si tratta di assorbire la sua teoresi;

CONTRO Severino, allorché si tratti di renderla fruibile o di viverla nella vita del mortale,

perché sembra non accorgersi di come il primo passaggio NEGHI totalmente il secondo, considerando la vita ERRORE/ALIENAZIONE, e di come il secondo NEGHI il primo, relegandolo nell’angolo delle astrazioni inutili, ai fini della vita vissuta, non teorizzata.

Si potrebbe ribattere che anche tale ALIENAZIONE sia un invio del destino, e che perciò noi mortali NON POSSIAMO non agire, non volere, non trasformare, etc…, CONFORMEMENTE all’alienazione inviata sempre dal destino.

Certo, tuttavia, se così, allora si dovrà constatare quanto l’ALIENAZIONE DELLA VITA ricorra al conforto/ausilio del destino, ossia di ciò che non conforta affatto la vita, ma la NEGA in toto quale positivo significare, nientemento, che del NULLA…

 

Roberto Fiaschi

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sabato 7 ottobre 2023

100)- LA TESTIMONIANZA DEL DESTINO NEGA SE STESSA IN DUE MOSSE

In relazione al post n° 97, così replica Alessandro Vaglia di Officina di filosofia teoretica:

<<CONTRO Roberto Fiaschi. L'errore che appare appare al destino, che siamo ognuno di noi in quanto negazione dell'errore o apparire trascendentale. Il resto non lo capisco. Se il contenuto dell'apparire trascendentale è considerato come separato dall'apparire allora scaturisce l'errore o individuo appunto. Tutto qui. Parliamoci chiaro io e te Roberto. Tu pensi di essere il luogo ove tutto appare e qui e ora? Il Destino è questo luogo o luogo dell'apparire trascendentale che non è luogo fra i luoghi ma ove ogni luogo appare.

Noi come individui questo non lo crediamo affatto.

Noi, come individui siamo questo errore e quindi erriamo.

Noi come io del destino, siamo la verità che lo nega.

Noi e non Emanuele Severino, e quel suo povero linguaggio, Emanuele Severino è il sopraggiungere di questo tratto del linguaggio testimoniante il destino di ognuno di noi. Che tu voglia cominciare dall'errore che è errare per pervenire alla verita, questa è la impossibile implicazione della verità stessa>>.

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Tutto molto chiaro.

Ecco le DUE MOSSE preannunciate nel titolo:

(1)<<Noi, come individui siamo questo errore e quindi erriamo>>.

(2)<<Noi come io del destino, siamo la verità che lo nega>>.

Entrambi i punti intendono esprimere un tratto della VERITÀ del destino severiniano.

Ma, così scrivendo, l’individuo-errore-Alessandro Vaglia NEGA il costituirsi del punto (2), perché se quest’ultimo indica la verità del nostro essere io del destino, allora, accettando il punto (1) NON possiamo in alcun modo affermare (2), visto che quest’ultimo è scritto/affermato da (1) cioè dall’individuo-errore-Alessandro Vaglia che NON PUÒ conoscere quanto ha scritto in (2).

Pertanto, se (1) afferma la verità dell’individuo, allora (2) è NEGATO.

Inoltre, se (1) dice la verità sull’individuo-errore, allora (1) NEGA anche SE STESSO, perché l’individuo NON PUÒ SAPERE neppure di essere errore, come invece questi mostra di sapere scrivendo (1).

Senonché Alessandro Vaglia precisa successivamente:

<<L'errore non può sapere della verità è chiaro e limpido per il suono in superficie che sommerso suona male. Ma io si ripete, non sono l'individuo quando a parlare è il linguaggio del destino. INDIVIDUO è un linguaggio, e DESTINO è un altro linguaggio, due sopraggiungenti. In quanto linguaggi sono e sono diversi, ma il loro contenuto è lo stesso o l'essere, ma mentre uno, quello che parla di individuo, parla di una verità completamente distorta l'altro, quando parla di apparire dell'essere io del destino, afferma quello che afferma in contraddizione C>>.

Purtroppo, ANCHE in questo brano è già bell’e dispiegata LA SUA COMPLETA NEGAZIONE.

Infatti, quand’anche sussistessero quei due linguaggi ( = il linguaggio dell’individuo ed il linguaggio del Destino), a PARLARNE/SCRIVERNE è però sempre il medesimo individuo-errore che li alterna (o che essi in lui vanno alternandosi) a seconda dell’oggetto da comunicare.

Essendo perciò sempre il medesimo individuo-errore ad esprimersi mediante due linguaggi, la CONSAPEVOLEZZA di entrambi da parte dell’individuo-errore NEGA il punto (1), giacché quei due linguaggi lo mettono in condizione di CONOSCERE/di esser CONSCIO sia del punto (1) che del (2), dei quali, invece, NON PUÒ avere consapevolezza alcuna, poiché egli è individuo-errore.

Non solo, ma secondo Severino, <<la malattia del linguaggio che testimonia il destino prevale sulla malattia del linguaggio che testimonia la terra isolata>> (Severino: Educare al pensiero. Editrice La Scuola; Brescia 2012).

Il che conferma che a parlare/scrivere i due linguaggi MALATI sia sempre il medesimo individuo-errore, essendovi perciò UN SOLO linguaggio, SEMPRE LO STESSO, sia che testimoni la terra isolata sia che testimoni il destino.

Pertanto l’alternanza dei due linguaggi NON si traduce nell’alternanza di DUE SOGGETTI, quali sarebbero l’io del destino e l’io individuale-errore.

Quindi NON è non-credibile l’affermazione:

<<io non sono l'individuo quando a parlare è il linguaggio del destino>>,

perché se a parlare <<il linguaggio del destino>> fosse davvero l’io del destino, questi NON potrebbe testimoniare la propria verità mediante LO STESSO LINGUAGGIO MALATO utilizzato dall’io individuale-errore per testimoniare la terra isolata.

Infine, alla mia domanda che chiedeva se, in quel momento del nostro dialogo, io stessi parlando con l’individuo-errore-Alessandro Vaglia oppure con il suo io del destino, egli mi ha risposto:

<<dipende se parli di libertà e io sono d'accordo con te, parli il linguaggio dell'individuo, se parli di essere che si trasforma e io sono d'accordo con te parli nuovamente con il linguaggio dell'individuo, ecc.. se parli di apparire dell'essere sé dell'essente o di eternità di OGNI essente allora parli il linguaggio del Destino>>.

Ma, anche in questa risposta, egli NEGA suo malgrado il punto (1), appunto perché l’individuo-errore-Alessandro Vaglia (o Severino…) mostra qui di essere ben CONSAPEVOLE del punto (2) che, invece, da (1) individuo-errore qual egli è, NON può che IGNORARE.

È dunque palese:

la tesi dell’avvicendarsi dei due linguaggi ( = dell’individuo-errore e del destino), è una tesi NEGANTE il suddetto punto (1), che è un punto FONDAMENTALE per l’economia dell’intera filosofia severiniana…

 

Roberto Fiaschi

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mercoledì 4 ottobre 2023

99)- MASSIMO RECALCATI: «CHI NON AMA SCOMPARE»


<<Il giudizio dell’ateo Freud non lascia speranze: l’uomo religioso si affida a Dio come un bambino impaurito affida la sua vita inerme alla potenza protettiva di un padre idealizzato. Ma questo affidamento non può salvare l’uomo dal suo destino mortale. È la paura nei confronti della morte ad aver sospinto gli esseri umani, sin dalla notte dei tempi, a pregare gli dei. La stessa idea filosofica dell’immortalità dell’anima non sarebbe altro, sempre secondo Freud, che un’idea difensiva nei confronti della natura inevitabilmente finita della nostra esistenza. Nel rapporto di Gesù nei confronti della morte, il giudizio di Freud è però costretto a stemperarsi. Egli, infatti, non scongiura affatto la morte, ma la incontra nella sua forma più traumatica. Nessuna rimozione, dunque, nessun misconoscimento. Gesù sa bene che non può accettare il sillogismo filosofico di Epicuro che vorrebbe separare la morte dalla vita seguendo la celebre argomentazione per la quale la morte non sarebbe un problema perché fintanto che c’è la vita non c’è la morte e quando c’è la morte non c’è la vita. Nella notte del Getsemani Gesù incontra l’impostura di Epicuro: nessuna scappatoia di fronte alla morte. Non a caso la sua postura non assomiglia per nulla a quella imperturbabile di Socrate di fronte alla sua decisione di darsi la morte. Il suo corpo trema, suda sangue, cade a terra. La prima preghiera che rivolge a Dio è una supplica: non vuole morire, vuole continuare a vivere, chiede al padre di essere risparmiato, di allontanare il calice amaro della morte dalla sua bocca. Respinge la morte perché ha amato e ama profondamente la vita. Nessuna scorciatoia, dunque, nessuna rimozione del trauma della morte

Nemmeno la sua resurrezione può attenuare questo trauma. Essa non è, diversamente da quello che pensava Freud, la negazione infantile della morte, ma, casomai, l’esito di un suo attraversamento. Non a caso tutta l’iconografia cristiana rappresenta il corpo del risorto con le ferite indelebili della sua passione. Nel racconto evangelico, il sepolcro di Gesù appare vuoto. Gli angeli che lo presiedono chiedono alle donne impaurite che si sono recate alla sua tomba: «Perché cercate il vivente tra i morti? Non è qui, ma è risorto». (Lc, 24,5-6). È questo vuoto il grande mistero della Pasqua cristiana vista con gli occhi di un laico. Lui non è più qui: un lutto necessario si impone poiché in ogni lutto “lui” o “lei” non sono più tra noi. Un’assenza travolge la nostra presenza nel mondo; un’assenza che è dolore ma che forse proprio per questo è anche una forma radicale dell’amore, come scrive Roland Barthes nel suo straordinario taccuino scritto dopo la morte di sua madre e intitolato: Dove lei non è. Ma il vuoto del sepolcro non impone solo il lutto. Esso apre anche la possibilità di qualcosa di inaudito. Gesù non si può trovare tra i morti. Egli, sebbene morto, è ancora vivo. Cosa può significare? Per un verso Gesù non è più qui, non è più a disposizione di coloro che lo hanno amato, è andato via. Anche le apparizioni post-pasquali sono fugaci, destinate a dissolversi nell’assenza. Questo significa che il risorto non è un rinato. La resurrezione non può cancellare l’esperienza della perdita. Per questa ragione nelle sue apparizioni Gesù inizialmente non viene riconosciuto, ma appare come un estraneo. Perché però lo cercate nella sua tomba? La resurrezione non rafforza affatto una immagine sovrumana di Dio. Per un altro verso la risurrezione di Gesù è una radicale disattivazione della terribile potenza della morte. Essa non può, infatti, essere l’ultima parola sulla vita. Nella sua predicazione egli ha mostrato che la paura della morte coincide con la paura della vita proponendo se stesso come la testimonianza di una vita viva, di una vita sovrabbondante di vita: «Io sono la risurrezione e la vita» (Gv,11, 25). Egli si è chiesto che cosa sia una vita viva, una vita generativa, una vita capace di vita. La mera conservazione della propria vita limita la sua trascendenza, la sua, come direbbe Paolo a proposito della Grazia, “sovrabbondanza”. Essere in vita non significa di per sé essere davvero vivi. Gesù pone il problema della differenza tra una vita morta e una vita viva. Egli è incarnazione del vivente, l’“acqua viva” che disseta in eterno, la vita come potenza generativa. Dunque, non si può cercare Gesù tra i morti. Perché i morti sono coloro che hanno rinunciato alla vita, sono i sacerdoti, i custodi della lettera, le persone avide, incapaci di amare, i morti sono coloro che hanno paura della vita. Non bisogna cercare Gesù tra i morti perché il suo nome è un nome della vita che non si lascia vincere dalla morte. 

In questo senso Gesù è la resurrezione che continua ad accadere al di là della sua morte. Il vuoto del sepolcro è il luogo di un’assenza che, diversamente da quello che vorrebbe Tommaso, non può però essere ricuperata.

La resurrezione non è la rianimazione di un corpo morto che ritorna in vita, ma è la vita che non può mai essere tutta distrutta dalla morte. Gesù lo dice chiaramente: «Chi crede in me, anche se morto, vivrà» (Gv, 11,25). Noli me tangere, non mi toccare, non trattenermi, dice il Signore risorto a Maria Maddalena. La morte è una distanza che si apre nella vita, ma non è sparizione, distruzione, putrefazione. La resurrezione non è una immagine dell’immortalità. Gesù non è un immortale come sono immortali gli dei pagani. Gesù è un uomo che ha conosciuto la morte: deve partire, deve andarsene da questo mondo. Non può più essere toccato. Ogni uomo non può, infatti, più tornare indietro dalla morte, non può più recuperare la sua vita.

Ma questo andare via, questo tornare dal padre, è anche un modo per restare: «Vado e ritornerò da voi» (Gv, 14, 28), dice ai suoi. La fede in Gesù non necessità il feticismo del toccare, ma preserva la distanza, il mistero dell’intangibile. Se per credere bisogna toccare, come esige l’incredulo Tommaso, la fede implica invece l’incontro con l’ignoto che resta tale. Mentre il discorso religioso si costituisce sulla credenza, quello di Gesù – profondamente anti-religioso e anti-idolatricosi istituisce sul salto nel vuoto della fede. È la profonda differenza tra Maddalena e Tommaso: una ha fede in ciò che non può toccare, mentre l’altro esige di toccare per poter credere. Gesù mostra che la sua morte non coincide con la fine della sua parola. Tutto il contrario: il vuoto del sepolcro assomiglia ad una luce di una stella morta che insiste a rilasciare luce anche dopo la sua fine>>.

Massimo Recalcati

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lunedì 2 ottobre 2023

98)- ILLUSORIETÀ DELL’AUTO-NEGAZIONE DELLA NEGAZIONE DELLA STRUTTURA ORIGINARIA

APPARENTEMENTE : la negazione della struttura originaria severiniana (o anche del principio di non contraddizione) è negazione AUTO-NEGANTESI, perché la negazione della determinatezza dell’essente è negazione essa stessa determinata.

Ma è proprio qui che si cela il TRUCCO.

Vediamo più da vicino la questione.

Innanzitutto, si può negare qualcosa soltanto se:

(A)- si CONOSCE qualcosa da NEGARE,

nonché se

(B)- esiste il NEGATORE.

Si aprono due prospettive antropologiche.

[1]

Iniziamo dall’antropologia severiniana, secondo la quale l’essere umano (o l’io empirico-individuale) è un ERRORE impossibilitato a conoscere la verità:

<<se "io" è ad esempio il sottoscritto, CON QUESTA STRUTTURA FISICA DETERMINATA, allora sarebbe come dire che un OCCHIO CIECO PUÒ VEDERE LA VERITÀ. Perché un occhio cieco? Appunto in quanto dominato dai condizionamenti che costituiscono l'individuo. […] perché L'INDIVIDUO È ERRORE>>. (Emanuele Severino: La legna e la cenere, Rizzoli. Maiuscoli miei: RF).

Perciò l’ERRORE, oltre a NON SAPER di esser tale, NON può neppure NEGARE la verità che IGNORA (, quindi, può AUTO-NEGARSI), cosicché, in questo caso, a mancare sia (A), giacché non si può negare ciò che NON SI CONOSCE.

Tuttavia, che l’individuo sia ERRORE emergerebbe (sempre secondo Severino) sulla base dell’apparire della verità:

Secondo Severino, dicevo, perché questa tesi la troviamo scritta nei testi DELL’ERRORE-Severino, tutti interni al sogno della terra isolata dalla verità.

E che la suddetta tesi (così come quei testi) sia opera DELL’ERRORE-Severino, è negato DALLO stesso ERRORE-Severino.

Senonché:

(I)- se tale negazione intende esser VERA cioè un tratto del destino della verità,

allora NON è VERO che l’individuo-Severino sia ERRORE ( = <<un occhio cieco>>), appunto perché egli SA e VEDE con VERITÀ un tratto del destino;

(II)- se invece l’individuo-Severino è davvero un ERRORE IMPOSSIBILITATO a conoscere un tratto qualsivoglia della verità del destino,

allora NON è VERO che quegli scritti NON siano DELL’ERRORE-Severino, proprio perché egli NON SA e NON VEDE quel tratto della verità del destino consistente nella negazione che quegli scritti siano suoi, visto che tra l’impossibilità di conoscere la verità da parte dell’io individuale ( = ERRORE) e l’apparire della verità ( = Io del destino) NON può sussistere alcuna MEDIAZIONE ACCOMODANTE.

[2]

Tolta, perciò, la tesi severiniana dell’individuo come ERRORE, portiamoci adesso al di fuori della sua CONTRADDITTORIA antropologia per collocarci nella concezione ‘comune’, che vede nell’uomo colui che A VOLTE può raggiungere/acquisire alcune verità e che A VOLTE può non vederle/errare.

In quest’ultima, a differenza di [1], manca (B), cioè manca il NEGATORE.

Per Severino, nel mondo con cui abbiamo a che fare quasi tutto è ILLUSIONE o positivo significare del NULLA o FEDE:

l’io empirico è ILLUSORIO;

la libertà è ILLUSORIA;

la trasformazione è ILLUSORIA;

il movimento è ILLUSORIO,

etc…

Ecco, a tutto ciò, da parte mia aggiungo che ANCHE l’AUTO-NEGAZIONE della negazione del destino è ILLUSORIA, perché innanzitutto il NEGATORE (e quindi la negazione e perciò il principio quale negazione della sua negazione) è ILLUSORIO.

Aristotele invita il NEGATORE a dire qualcosa ( = actu signato), a non restare muto come un phyton, ed è qui che è già all’opera il trucco, il gioco di prestigio dell’AUTO-NEGAZIONE.

Sì, perché in seguito a tale invito, sebbene in actu signato il negatore intenda porsi come negatore del principio di non-contraddizione, in realtà si costituisce GIÀ NELLO STESSO actu signato come suo AFFERMATORE, proprio nel momento stesso in cui egli si presenta COME NEGATORE!

È chiaro: volendo negare il principio, egli deve previamente distinguersene, per cui il NEGATORE ha anticipatamente ACCETTATO ciò che vorrebbe negare, ossia ha GIÀ ACCETTATO, nel voler essere negatore, di farsi innanzitutto AFFERMATORE del principio, ILLUDENDOSI di costituirsi negatore di ( = nel suo distinguersi da) esso, così da NON-distinguersene affatto, o soltanto INGANNEVOLMENTE, APPARENTEMENTE, in quanto è già fagocitato dall’AFFERMAZIONE del principio.

Egli, perciò, GIÀ in actu signato, è un ILLUSORIO negatore, un negatore FANTASMATICO, quindi un AFFERMATORE travestito da negatore, un NON-negatore del principio, in quanto vi è tutto ricompreso in esso sin dall’inizio, cioè PRIMA ancora di aprir bocca.

Sì che anche l’AUTO-NEGAZIONE segua la medesima sorte del negatore del principio:

AUTO-NEGAZIONE SOLTANTO APPARENTE, ILLUSORIA.

Siccome NON vi è autentico negatore, NON VI È NEMMENO AUTENTICA AUTO-NEGAZIONE DEL NEGATORE, cosicché il principio, nell’impossibilità di DISTINGUERSI dalla sua negazione (esattamente come l’ESSERE, nell’impossibilità di distinguersi dal NON-ESSERE), sancisca il proprio originario TRACOLLO, esattamente laddove esso mostra l’apice dell’innegabilità; innegabilità, perciò, SOLTANTO ILLUSORIA, APPARENTE

 

Roberto Fiaschi

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domenica 1 ottobre 2023

97)- L’INDIVIDUO NON È ERRORE

Ha scritto il filosofo Emanuele Severino:

<<Appartiene al destino dei mortali L'INCAPACITÀ di cogliere e di esprimere ciò che appare>>. (E. Severino: Oltre la cenere. Corriere della sera del 14 agosto 1980. Maiuscolo mio: RF).

Dovremmo dedurne che Severino NON sia un MORTALE, visto che, da quanto appena letto, sembrerebbe che egli ritenga di aver la CAPACITÀ <<di cogliere e di esprimere ciò che appare>>.

Leggiamo quest’altro suo passaggio:

l’<<io individuale NON PUÒ PENSARE la verità del destino, anche se questa è, come inconscio dell’inconscio, la verità del suo apparire ed essere: l’io dell’individuo NON È e NON PUÒ essere COSCIENTE del proprio essere veritativo. Tale coscienza appartiene SOLO all’Io del destino>>.

(Nicoletta Cusano: Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, 2011, pag. 434. Maiuscoli miei: RF).

Dunque, <<l’io dell’individuo NON È e NON PUÒ essere COSCIENTE del proprio essere veritativo>> o Io del destino, altrimenti, se l’avesse, non solo l’io individuale-Severino NON sarebbe incappato in ripetuti ERRORI teoretici (addurre come attenuante/scusante la gradualità _ la contraddizione C _ del farsi innanzi della verità nel cerchio dell’apparire invaso dal nichilismo NON RISOLVE nulla, perché dire ciò significherebbe ammettere che l’Io del destino abbia fino a quel momento TENUTO PER VERO _ CREDUTO  A _ L’ERRORE), ma altresì lo ‘sguardo’ di ogni/qualsiasi io individuale non riferirebbe A SÉ (io individuale) tutto ciò che GLI accade, perché vedrebbe già la  verità del destino e sarebbe così perfettamente consapevole di essere tale verità o Io del destino, il che è esattamente ciò che NON accade.

Non accade, si replicherà da parte severiniana, perché attualmente PREVALE la testimonianza dell’errore che contende alla verità la propria presenza nel cerchio dell’apparire o Io del destino.

Ma che prevalga la testimonianza dell’errore è un tratto della verità del destino di cui l’io individuale-errore NON PUÒ SAPERNE ALCUNCHÉ/AVERNE COSCIENZA, e ciò proprio perché l’errore PREVALE sulla verità.

PREVALENDO sulla verità, l’errore NON LA VEDE, e quindi NON VEDE neppure di essere errore.

Per cui l’errore NON SA nemmeno di PREVALERE su di essa (se lo sapesse, l’errore si saprebbe come errore-prevaricante, quindi vedrebbe la verità ed in tal caso esso NON SI DISTINGUEREBBE DALLA VERITÀ = NON SAREBBE ERRORE).

Siccome l’io individuale-ERRORE:

(1)- <<non è e non può essere cosciente del proprio essere veritativo>> cioè di essere, nella propria essenza, la verità o Io del destino;

(2)- non può neppure sapere (esser cosciente) di essere, come io individuale, ERRORE-prevaricante;

allora:

A)- l’io individuale NON È AFFATTO ERRORE, perché, per esserlo, esso dovrebbe essere cosciente di (1) in rapporto al quale si definisce ERRORE.

B)- Ma, se fosse cosciente di (1), verrebbe a NEGARSI (2).

C)- Negando (2), l’errore SA (è cosciente de) la VERITÀ nonché della VERITÀ DI SÉ (1), quindi tra l’errore e la verità NON SUSSISTE ALCUNA DIFFERENZA, confermando perciò che l’io individuale NON SIA AFFATTO ERRORE.

D)- Infatti, l’individuo-Severino-ERRORE mostra di sapere/di esser cosciente sia di (1) che di (2); ma allora (1) e (2) sono FALSI, riconfermando come l’io individuale NON SIA AFFATTO ERRORE, appunto perché (1) e (2) NON dicono il VERO (se dicessero il VERO, l’individuo-Severino-ERRORE non potrebbe sapere/esser cosciente della verità dei punti (1) e (2)).

E)- Diversamente, se cioè si VUOL mantenere i punti (1) e (2) come VERITÀ, allora questa NEGA che l’individuo-Severino-ERRORE possa esser consapevole ed affermare CON VERITÀ i punti (1) e (2), ed in questo caso la VERITÀ NEGA SÉ STESSA, giacché i punti (1) e (2), in quanto pensati/detti dall’individuo-Severino-ERRORE, si rivelano essi stessi ERRORI, FALSI, confermando nuovamente come l’io individuale NON SIA AFFATTO ERRORE.

 

Roberto Fiaschi

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domenica 24 settembre 2023

96)- L’INESISTENTE TESTIMONE DEL DESTINO DELLA VERITÀ


Dal gruppo Officina di filosofia teoretica, riporto un’affermazione scritta da Alessandro Vaglia:

<<un uomo non può essere detentore della verità perché

o l'uomo è la verità e allora "la verità è la verità" non è la verità

o un uomo non può essere la verità. E questo per tutti gli uomini. [Etc…]>>.

Perfetto.

Adesso riporto quest’altra, recentissima, sempre scritta da lui:

<<ormai io sono testimone del destino della verità>>.

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Quindi:

(A)- o Alessandro Vaglia <<è la verità e allora "la verità è la verità" non è la verità>>,

(B)- oppure Alessandro Vaglia <<non può essere la verità>>.

Nel caso (B), egli è un ERRORE e come tale NON PUÒ TESTIMONIARE il <<destino della verità>>, altrimenti sarebbe <<la verità>>, come indicato al punto (A).

Nel caso (A), Alessandro Vaglia <<è la verità>>;

ma se fosse così, egli si SMENTIREBBE da sé, giacché, scrivendo che <<allora "la verità è la verità" non è la verità>>, sta dicendo che la verità ( = "la verità è la verità") della quale intende dare testimonianza NON è la verità (appunto perché la verità sarebbe Alessandro Vaglia e non "la verità è la verità"), per cui, anche qui, egli si ritroverebbe catapultato al punto (B):

Alessandro Vaglia <<non può essere la verità>>.

Dunque, se è vero che <<un uomo non può essere detentore della verità>> e quindi se è vero che Alessandro Vaglia <<non può essere la verità>>,

allora NON è vero che Alessandro Vaglia sia <<testimone del destino della verità>>,

perché, se egli lo fosse,

sarebbe FALSO che <<un uomo non [possa] essere detentore della verità>>.

Ed infatti dovrebbe esser FALSO, giacché egli si è proclamato <<testimone del destino della verità>>, ed in virtù del LEGAME che unisce la verità a colui che la conosce e che perciò se ne fa testimone, allora bisognerà concludere affermando che Alessandro Vaglia <<è la verità>> (almeno per quel tanto di verità che egli possiede _ a livello conoscitivo _ al fine di poterla testimoniare, ché, se non la possedesse affatto _ se non la conoscesse affatto _, non potrebbe assolutamente testimoniarla).

Ma così, gli accade quanto visto al punto (A), cioè che <<allora "la verità è la verità" non è la verità>>.

Insomma, comunque la si voglia rigirare, Alessandro Vaglia (come qualsiasi altro individuo) NON può essere <<testimone del destino della verità>> perché, in quanto è uomo, <<non può essere detentore della verità>>.

 

Roberto Fiaschi

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venerdì 15 settembre 2023

95)- ANGELO SANTINI E L’APORETICA SINTESI IDENTITÀ-DIFFERENZA

In relazione al mio post n° 94, Angelo Santini ( = AS) osserva quanto segue:

<<Roberto Fiaschi ti ringrazio per la cortese risposta. Ho letto il post, anche se dalla mia risposta può sembrare mi sia limitato a ribadire ciò che hai messo in discussione. I due significati del plesso trascendentale in questione non passano l'uno all'altro solo perché nel loro campo semantico ognuno implica necessariamente l'altro. Anche nel plesso trascendentale il rapporto tra i due semantemi NON É ASTRATTO E NON PUÒ ESSERE ASTRATTO, ma é il rapporto CONCRETO tra il coincidere dell'essente-significato "identità" con l'essente-significato "differenza", sicché in questo rapporto concreto (che, ripeto, riguarda anche il plesso trascendentale in questione) l'identità X differisce dalla differenza Y in quanto X coincide con X e non con Y e viceversa. Pertanto X non è identità (identica a sé) nello stesso senso in cui é differenza (non è identica a Y). L'essere coincidente con sé da parte dell'identità X non coincide con il suo differire dalla differenza rispetto ad altro e peraltro, proprio perché il rapporto tra X e Y è concreto, é impossibile che possa valere anche nel caso esistessero solo i due semantemi del plesso considerato: in tal caso il semantema "differenza" non potrebbe aversi perché al di fuori dell'identità della sintesi tra X e Y (che è la loro posizione concreta) non vi sarebbe niente rispetto a cui essere distinta, sicché non avendo la sintesi in questione niente rispetto a cui differire non sarebbe posto nemmeno a livello trascendentale il semantema "differenza", perché la differenza è sempre relazione tra una certa identità ed un'altra (motivo per cui se esistesse solo la sintesi S, che è l'identità concreta di X e Y), tale per cui senza relazione non vi sarebbe differenza e senza differenza nemmeno l'identità. Con ciò é DIMOSTRATO che le apparenti aporie sono determinate dal considerare astrattamente il plesso trascendentale dei due semantemi dal loro rapporto concreto con gli altri essenti-significati (e in generale con la totalità infinita degli essenti), isolandolo da ciò: così isolato, considerato astrattamente, la differenza tra X e Y non significa niente perché lo stesso Y vale per S, innanzitutto, rispetto al quale non essendovi niente non vi sarebbe la differenza di S (che è X nella sua forma concreta) rispetto a niente, e quindi anche nel rapporto considerato astrattamente tra X e Y, la differenza Y non sarebbe posta e nemmeno la differenza tra X e Y>>.

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AS comincia la sua replica osservando che

<<I due significati del plesso trascendentale in questione non passano l'uno all'altro solo perché nel loro campo semantico ognuno implica necessariamente l'altro>>.

Certamente <<ognuno implica necessariamente l'altro>>, ed infatti è proprio grazie a questa implicazione che i due significati di IDENTITÀ e DIFFERENZA, così in sintesi, scatenano (originariamente, non ad un certo punto) la contraddizione.

Ma proseguiamo, ove AS precisa:

<<Anche nel plesso trascendentale il rapporto tra i due semantemi NON É ASTRATTO E NON PUÒ ESSERE ASTRATTO, ma é il rapporto CONCRETO tra il coincidere dell'essente-significato "identità" con l'essente-significato "differenza">>.

Esattamente, per cui pare un dato ACQUISITO, anche da parte di AS, come <<Anche nel plesso trascendentale il rapporto tra i due semantemi NON É ASTRATTO>>, come ho anch’io ribadito diverse volte.

Dunque dovrò aspettarmi, nel prosieguo della sua risposta, di NON trovarmi dinanzi all’accusa di aver ISOLATO/ASTRATTO l’un termine dall’altro.

Bene.

Ancora AS:

<<sicché in questo rapporto concreto (che, ripeto, riguarda anche il plesso trascendentale in questione) l'identità X differisce dalla differenza Y in quanto X coincide con X e non con Y e viceversa>>.

Indubbiamente <<l'identità X differisce dalla differenza Y>>.

Quindi aggiunge AS:

<<Pertanto X non è identità (identica a sé) nello stesso senso in cui é differenza (non è identica a Y)>>,

per la RAGIONE in base alla quale _ sempre secondo AS _, <<L'essere coincidente con sé da parte dell'identità X non coincide con il suo differire dalla differenza rispetto ad altro>>.

Ma che <<L'essere coincidente con sé da parte dell'identità X non coincida con il suo differire dalla differenza rispetto ad altro>>,

NON può rappresentare la RAGIONE o la SPIEGAZIONE per la quale

<<X non è identità (identica a sé) nello stesso senso in cui é differenza (non è identica a Y)>>,

infatti NON trovo scritto dove risieda tale RAGIONE, cioè il PERCHÉ

<<X non è identità (identica a sé) nello stesso senso in cui é differenza (non è identica a Y)>>.

Ma comunque, soffermiamoci su questo punto.

AS riconosce che <<l'identità X differisce dalla differenza Y in quanto X coincide con X e non con Y e viceversa>>.

Ora, quel <<differisce dalla differenza Y>>, è un <<differisce>> che spetta soltanto al significato <<differenza>>, e non può essere addossato al significato <<identità>>, appunto perché quest’ultimo NON significa NÉ PUÒ MAI significare differenza.

Cosa succede, dunque?

Che proprio nel riconoscimento che <<l'identità X differisce dalla differenza Y in quanto X coincide con X e non con Y e viceversa>>, riconosciamo che l’identità X si ritrova al contempo e contraddittoriamente a coincidere con la differenza Y, perché tale SUO _ dell’identità X _ differire, dice già il suo esser differenza Y, appunto perché, differendo, assume (o è) in sé quel significato che invece spetterebbe di significare SOLTANTO a quell’altro da sé (dall’identità X) che è la differenza Y.

Ciò è innegabile, perché se l’identità X NON differisse dalla differenza Y, sarebbero INDISTINGUIBILI.

Ma ecco che l’APORIA si ripresenta ANCHE nel loro innegabile distinguersi, giacché è proprio distinguendosi, che l’identità X È altresì la differenza Y, ossia proprio in relazione all’altro da sé ( = alla differenza Y), anzi: RISPETTO all’altro da sé.

Giacché l'identità X, differendo RISPETTO alla differenza Y, è ESSA STESSA LA differenza Y.

Ossia l'identità X è al contempo (anche) la differenza Y in virtù del suo _ dell’identità X _ differire RISPETTO all’altro da sé cui è la differenza Y.

Per cui, nel caso del plesso identità-differenza, l’aristotelica faccenda dei RISPETTI (a sé e all’altro da sé) NON PUÒ FUNZIONARE, proprio in virtù del carattere singolarissimo o meglio: irreparabilmente APORETICO dei nostri due termini in questione.

Quindi, sostenendo AS che  

<<l'identità X differisce dalla differenza Y in quanto X coincide con X e non con Y e viceversa>>,

ci ritroviamo ad ammettere che quel <<differisce>>, indica GIÀ (o è GIÀ, originariamente) l’esser differenza Y DA PARTE DELL’identità X.

Prosegue AS:

<<e peraltro, proprio perché il rapporto tra X e Y è concreto, é impossibile che possa valere anche nel caso esistessero solo i due semantemi del plesso considerato: in tal caso il semantema "differenza" non potrebbe aversi perché al di fuori dell'identità della sintesi tra X e Y (che è la loro posizione concreta) non vi sarebbe niente rispetto a cui essere distinta, sicché non avendo la sintesi in questione niente rispetto a cui differire non sarebbe posto nemmeno a livello trascendentale il semantema "differenza", perché la differenza è sempre relazione tra una certa identità ed un'altra (motivo per cui se esistesse solo la sintesi S, che è l'identità concreta di X e Y), tale per cui senza relazione non vi sarebbe differenza e senza differenza nemmeno l'identità>>.

Senonché, quell’altro che AS cerca <<al di fuori dell'identità della sintesi tra X e Y>> affinché <<il semantema "differenza>> possa darsi/aversi/esserci, È GIÀ INCLUSO nel <<rapporto tra X e Y>> il quale è rapporto CONCRETO, come ben precisa AS, proprio perché il semantema "differenza si distingue dal semantema identità.

Come ho scritto nel mio post precedente, è vero che tale sintesi NON può avere alcunché FUORI/OLTRE SÉ, cioè FUORI/OLTRE SÉ non può esservi alcun DIFFERENTE rispetto a detta sintesi, ed infatti essa è una sintesi APORETICA.

E ciò accade perché quella DIFFERENZA che si cerca FUORI/OLTRE la nostra sintesi, è GIÀ TUTTA INTERNA ad essa, per cui il significato di DIFFERENZA è già posto ab origine, visto che non vi possono esser DIFFERENTI significati del significato DIFFERENZA: significherebbero tutti il medesimo: DIFFERENZA.

Poiché <<la differenza è sempre relazione tra una certa identità ed un'altra>>, la sintesi identità-differenza è IN SÉ siffatta <<relazione tra una certa identità [= l’identità] ed un'altra [ = la differenza]>>, cosicché essa (la sintesi) NON lasci alcunché FUORI/OLTRE SÉ, essendo tutto in essa INCLUSO.  

E se AS critica questa configurazione della sintesi, allora dovrà criticare anche la concezione severiniana della TOTALITÀ al di fuori della quale nulla vi è, perché così come <<al di fuori dell'identità della sintesi tra X e Y (che è la loro posizione concreta) non vi sarebbe niente rispetto a cui essere distinta>>, parimenti, <<al di fuori>> della TOTALITÀ severiniana <<non vi sarebbe niente rispetto a cui essere distinta>>, sì che, seguendo le stesse conclusioni di AS, dovremmo concludere che tale TOTALITÀ sia impossibilitata a essere.

Infine, scrive AS:

<<Con ciò é DIMOSTRATO che le apparenti aporie sono determinate dal considerare astrattamente il plesso trascendentale dei due semantemi dal loro rapporto concreto con gli altri essenti-significati (e in generale con la totalità infinita degli essenti), isolandolo da ciò: così isolato, considerato astrattamente, la differenza tra X e Y non significa niente […]>>.

Penso invece di aver mostrato come tali APORIE non siano affatto APPARENTI bensì SOLIDE, CONCRETE, INELUDIBILI, addirittura ORIGINARIE, giacché esse NON sono

<<determinate dal considerare astrattamente il plesso trascendentale dei due semantemi dal loro rapporto concreto con gli altri essenti-significati (e in generale con la totalità infinita degli essenti), isolandolo da ciò: così isolato, considerato astrattamente>>,

in quanto è stato lo stesso AS a RIBADIRE PIÙ VOLTE che

<<Anche nel plesso trascendentale il rapporto tra i due semantemi NON É ASTRATTO E NON PUÒ ESSERE ASTRATTO, ma é il rapporto CONCRETO tra il coincidere dell'essente-significato "identità" con l'essente-significato "differenza">>.

 

Roberto Fiaschi

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