In relazione al post n° 69, scrive Egon Key (d’ora in poi EK):
<<Nel
rapporto tra Io del destino e io empirico, Severino si richiama all'identità di
identità. Per cui, ciò che sperimenta l'io empirico è appropriato all'Io del
destino: "[...] è l'Io stesso - è identico ad esso - non in quanto è una
determinazione che differisce formalmente dall'Io, ma in quanto è lo
"stare insieme all'Io" da parte di tale determinazione. Il dolore (o il
piacere) non è l'Io: gli è appropriato, ed è l'Io stesso, non in quanto il
dolore è dolore (o il piacere è il piacere), ossia qualcosa che non è l'Io, ma
in quanto il dolore è (eternamente) insieme all'Io. L'Io non è il dolore, ma è
l'esser insieme al dolore; e il dolore non è soltanto un dolore generico, ma è
questo dolore che entra nel contenuto dell'Io e appare insieme ad esso. Sì che
l'Io-che-è-includente-il-dolore è lo stesso dolore-che-è-incluso-nell'Io.
Incontrando sé stesso in tutto ciò che accade (ogni accadimento essendo cioè il
sopraggiungere di quell'eterno che è l'identità di identità [...] l'Io del
destino sperimenta il dolore e l'angoscia, ma lascia che sia l'io
dell'individuo a provare sconcerto, turbamento e la forma di dolore e di
angoscia che ne conseguono; e vede in questa e in ogni altra forma
dell'affettivita' la conseguenza inevitabile dell'errare in cui l'io
dell'individuo consiste. Sa che tutto cioè che gli accade (ossia che appare,
entrando nel cerchio finito dell'apparire) è quello che è solo in quanto gli è
identico; e sa che l'angoscia dell'individuo di fronte alla vita è dovuta, da
un lato, alla prevaricazione, nella solitudine della terra dove l'individuo
resta evocato, del linguaggio che testimonia la terra isolata, e, dall'altro,
all'assenza del linguaggio che testimonia il destino della verità e della terra
- ossia testimonia lo stesso Io del destino. (La Gloria, pp. 65-66)>>.
Tutto perfetto, ma
non vedo come tale brano possa smentire l’APORETICITÀ (nei termini descritti
nei post 3, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 68 e 69) del rapporto io empirico
/ Io del destino.
Infatti, colui che
<<Sa che
tutto cioè che gli accade (ossia che appare, entrando nel cerchio finito
dell'apparire) è quello che è solo in quanto gli è identico; e sa che l'angoscia
dell'individuo di fronte alla vita è dovuta, da un lato, alla prevaricazione,
nella solitudine della terra dove l'individuo resta evocato, del linguaggio che
testimonia la terra isolata, e, dall'altro, all'assenza del linguaggio che
testimonia il destino della verità e della terra - ossia testimonia lo stesso
Io del destino>>,
dicevo, colui che SA tutto ciò è l’Io
finito del destino, NON
l’io empirico, altrimenti quest’ultimo NON sarebbe ERRORE, se sapesse che
<<tutto cioè che gli accade (ossia che appare, entrando nel cerchio
finito dell'apparire) è quello che è solo in quanto gli è identico>>
etc...
Che <<ciò
che sperimenta l'io empirico [sia] appropriato all'Io del destino>>
lo SA
soltanto quest’ultimo, ripeto, NON l’io empirico, ed è proprio la nescienza dell’io
empirico (quindi la loro irriducibile DIFFERENZA) a far sì che <<sia
l'io dell'individuo a provare sconcerto, turbamento e la forma di dolore e di
angoscia che ne conseguono>>, così come è SOLTANTO l’Io del destino a
vedere <<in questa e in ogni altra forma dell'affettivita' la
conseguenza inevitabile dell'errare in cui l'io dell'individuo consiste>>…
Roberto Fiaschi
---------------------------------------------------

Nessun commento:
Posta un commento