venerdì 14 luglio 2023

68)- DIALOGO CON GIULIO GOGGI SUL RAPPORTO SEVERINIANO “ERRORE-VERITÀ”

 

Vorrei presentare un confronto tra me ed il prof. Giulio Goggi (d’ora in poi: GG) relativo al rapporto ERRORE (io individuale o empirico) e VERITÀ (Io del destino) nella filosofia di Emanuele Severino. (NOTA: tale rapporto è stato da me discusso criticamente nel post n° 3, poi ripreso e approfondito anche nei post 61, 62, 63, 64, 65 e 66).

Nel presente post, dunque, fornisco risposte più dettagliate rispetto a quelle avvenute a suo tempo (novembre 2022) nel dibattito con GG.

Vediamo passo per passo.

Scrisse GG: <<In effetti, è solo nello sguardo del destino che il destino stesso può apparire. E qui, per ora congedandomi, mi piace riportare un passo di Severino a mio avviso illuminante (in tutti i sensi):

«È […] il mio Io del destino a “capire” e a “condividere” se stesso: nel senso che esso è l'apparire di se stesso e del proprio accogliere la volontà della terra isolata. I prigionieri [ = gli individui, gli io empirici] della caverna non possono salire alla luce del sole (ripetendo il viaggio di Parmenide dalle “case della Notte” al sentiero del Giorno): essi sono gli erranti. Ma l'uomo non è il viandante che va dall'oscurità alla luce: egli è il sole che già da sempre, senza che i prigionieri se ne avvedano, illumina la caverna della terra isolata con una luce diversa da quella da cui essi si credono illuminati – e quindi anche diversa dal “sole” della verità dell'Occidente: la luce diversa del destino che appare [!!!] nei cerchi finiti del destino». (E. Severino: La morte e la terra, p. 138)>>.

Da parte mia replicai:

Severino ha osservato che <<l'uomo non è il viandante che va dall'oscurità alla luce: egli è il sole che già da sempre […] illumina la caverna della terra isolata>>.

Ma, se fosse così, cioè se l’uomo fosse già <<il sole che già da sempre […] illumina la caverna della terra isolata>>, allora a testimoniare il destino, attraverso ciò che Severino chiamava <<i cosiddetti “miei” scritti>>, sarebbe direttamente quel <<sole>> senza mediazioni, giacché NESSUN altro al di fuori del <<sole>> può sapere/testimoniare alcunché della verità in quanto, tale altro (cioè ogni individuo), è ERRORE.

Dunque, se quel <<sole>> <<appare [!!!] nei cerchi finiti del destino>>, allora:

(1)- o non ha alcun senso (cioè NON È VERO che) sostenere che l’io empirico NON possa conoscere la verità del destino ( = il <<sole>>), giacché appunto essa sarebbe testimoniata nei testi di Severino, sì che TUTTI gli io empirici al suo seguito possano conoscerla (visto che ne parlano e ne scrivono profusamente) pur essendone impossibilitati dalla loro stessa filosofia, giacché questa afferma che essi, i <<prigionieri [ = gli individui, gli io empirici] della caverna NON POSSONO salire alla luce del sole>>, essendo ERRORI;

(2)- oppure, se all’io empirico fosse davvero preclusa tale conoscenza, allora la suddetta testimonianza del destino sarebbe offerta ( = testimoniata) direttamente DAL <<sole>> della verità, già:

ma DOVE, COME, tramite CHI?

Attraverso gli scritti DELL’errore-Severino?

(Certamente, e dove, altrimenti, visto che il destino/la struttura originaria è SEMPRE LEGATO al suo nome?).

Poiché è tesi severiniana l’esser FEDE ( = ERRORE) da parte della comune persuasione che Severino sia l’autore degli scritti che portano il suo nome, a questo punto, allora, essi non saranno gli scritti DI Severino bensì DELLA stessa verità del destino; il che, però, sembra ESCLUSO, se non altro perché non poche volte, in tali scritti, la verità del destino ha dovuto CORREGGERE il tiro concernente alcune tesi circa sé stessa (!)

E appunto perché non poche volte ha dovuto correggere il tiro, ciò conferma che l’autore di quegli scritti sia proprio l’ERRORE-Severino il quale, perciò, NON può testimoniare alcuna Verità del destino.

Se la convinzione che Severino sia l’autore di quei testi è una FEDE, sarà parimenti una fede ( = un ERRORE, un positivo significare del nulla) anche l’intero CONTENUTO di quei testi grazie ai quali veniamo in contatto con il <<tentativo>> di testimoniare il destino, altrimenti, cioè negando che quel contenuto sia anch’esso una fede, dovremmo concludere che tale <<tentativo>> di testimoniarsi internamente alla fede (cioè negli scritti DI Severino ma dei quali egli NON ne è l’autore) da parte del destino sia un tentativo RIUSCITO, confermando perciò il punto (1), ossia negando che l’io empirico/l’errore/la fede possa mai RIUSCIRE a conoscere la verità del destino (si veda più sotto circa il <<tratto comune>> tra il destino e la sua testimonianza che consentirebbe di testimoniare il destino).

Aggiungo qui una piccola NOTA:

nella su riportata frase di Severino: <<«la luce diversa del destino che appare [!!!] nei cerchi finiti del destino»>>, GG ha inserito una parentesi quadra con 3 punti esclamativi dopo la parola <<appare [!!!]>> allo scopo di enfatizzare l’apparire.

Certo, quella luce <<appare [!!!] nei cerchi finiti del destino>>, ma NON all’io empirico-errore, il quale NULLA SA dei <<cerchi finiti del destino>>!

Se quest’ultimo ne fosse conscio, si CONFERMEREBBE nuovamente il punto (1).

Fine della NOTA.

Proseguo con la risposta di GG:

<<Quanto a Roberto, che pure ringrazio per il suo intervento sempre molto pertinente, dirò così:

I punti 1. e 2. del tuo dettato “alterano” il dettato severiniano.

Infatti, è vero che in quanto forma individuata di ciò che la fede isolante crede di esserne – e quindi in quanto non verità –, È IMPOSSIBILE CHE L'IO DELL'INDIVIDUO VEDA LA VERITÀ DEL DESTINO [maiuscoli miei: RF]; ed è vero che il linguaggio – e quindi lo stesso linguaggio che testimonia il destino – è espressione della volontà: dire il destino è volere quel suo “essere altro” da sé che è la sua disponibilità ad essere oggetto del “segno” (e conseguente separazione e comprensione astratta delle “parti” del destino). Inoltre, nel cerchio dell’apparire del destino appare l’impossibilità che si dia un “autore” e cioè che vi sia qualcuno che faccia essere qualcosa:

«Come l'io empirico è un eterno che sopraggiunge nella terra isolata così anche le azioni e il dire dell'io empirico, e dunque anche il suo linguaggio testimoniante il destino, sono degli eterni che sopraggiungono in essa. Sono azioni dell'io empirico nel senso che il loro apparire implica l'apparire della fede, in cui l'io empirico consiste, di essere una forza capace di trasformare la terra […]. Che si capisca veramente ciò che si fa (verum ipsum factum) non è verità (è negazione del destino della verità). Per questo È NECESSARIO CHE LA FEDE IN CUI CONSISTE L'IO EMPIRICO NON CAPISCA CON VERITÀ IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO, CHE TALE FEDE CREDE DI CAPIRE». (E. SEVERINO, La morte e la terra, pp. 137-138 [Maiuscoli miei: RF]).

Dunque, secondo GG, nei <<punti 1. e 2.>> avrei alterato  il <<dettato severiniano>>, perché non avrei tenuto conto <<che sia il mio essere “io” della volontà empirica a voler designare il destino lo si può dire solo sul fondamento del destino: è infatti il destino ad essere ciò in base a cui si afferma che un “io” lo vuole designare>>.

Bene, ma se <<voler designare il destino lo si può dire solo sul fondamento del destino>>, ciò non fa che riconfermare come ANCHE l’io empirico (la non-verità) CONOSCA (VEDA) il destino cioè la verità, appunto perché esso tenterebbe di testimoniarla <<sul fondamento del destino>> il quale, perciò, deve esser CONOSCIUTO da colui ( = l’individuo-errore) che però è al contempo IMPOSSIBILITATO a conoscere/vedere <<la verità del destino>>.

Inoltre, riguardo al destino, Severino afferma che <<il dirlo è l’ALTERARLO>>, sì che il <<linguaggio è testimonianza del destino, pur essendone l’ALTERAZIONE>>. (E. Severino: La morte e la terra, pag. 130. Maiuscoli miei: RF).

Se perciò la mia ALTERAZIONE è un dire ALTRO rispetto a ciò che invece avrei dovuto dire in relazione al destino severiniano, allora anche la testimonianza del destino espressa da Severino e da GG dice ALTRO rispetto a ciò che essa dovrebbe CORRETTAMENTE testimoniare, proprio perché <<il dirlo è l’ALTERARLO>>.

La mia ALTERAZIONE può esser ritenuta tale soltanto sulla base della testimonianza NON-ALTERATA del destino (altrettanto NON-ALTERATO) il quale, però, viene a sua volta ALTERATO dalla pretesa (volontà) di dirlo NON-ALTERATO. Quest’esser a sua volta ALTERATO può esser constatato (ma <<il dirlo è l’alterarlo>> sempre e comunque) soltanto se il destino NON-ALTERATO appare. Senonché, il destino può apparire NON-ALTERATO soltanto se vi è un dirlo che NON si costituisce come un’ulteriore sua ALTERAZIONE, altrimenti, come potremmo veridicamente dirlo (ritenerlo) NON-ALTERATO?

A ciò, GG osserva che

<<pure in questo suo essere avvolto dalla parola [alterante], il destino se ne distingue quale nucleo semantico-sintattico di cui appare e viene detta l’autonegazione della propria negazione: ad essere incontrovertibile non è questa designazione in quanto tale, ma ciò che a essa viene indicato>>.

Per quanto concerne il DISTINGUERSI della parola testimoniante/alterante il destino da quest’ultimo nel suo DISTINGUERSI in modo NON-ALTERATO dalla parola che lo testimonia/lo altera, deve apparire il destino testimoniato (detto) SENZA ALTERAZIONI, alfine di poter cogliere la suddetta distinzione.

Per cui NON è sufficiente rifarsi all’<<autonegazione della propria [del destino] negazione>>, perché anch’essa è pur sempre un dire che dice qualcosa del destino (ricordiamoci che OGNI <<dirlo è l’alterarlo>>), quindi anch’essa subirà la medesima ALTERAZIONE, sì che, in tal modo, tale <<autonegazione […]>> NON possa garantire il proprio NON dire ALTRO rispetto a ciò che dice.

Continua GG:

<<L’altra difficoltà, quella relativa alle variazioni del linguaggio che intende dare testimonianza del destino [in quegli scritti “la Verità ha dovuto correggere il tiro”], era cosa ben nota a Severino, e si risolve osservando «che lo sviluppo storico di un linguaggio (dunque anche di quello che testimonia il destino) è una interpretazione, ossia è non verità; e sul fondamento di una non verità è impossibile trarre una qualsiasi conseguenza che costituisca una negazione del destino» (E. SEVERINO, Oltrepassare, p. 454)>>.

Avevo scritto che negli scritti di Severino “la Verità ha dovuto correggere il tiro” in relazione all’eventualità che il loro contenuto ( = la testimonianza del destino) fosse la DIRETTA espressione dell’Io del destino/della verità.

Ma la risposta di GG mi pare che peggiori la situazione, anziché ‘risolverla’, come egli ha scritto, perché se (anche) il linguaggio <<che testimonia il destino>> è <<NON VERITÀ>> (Severino), allora è IMPOSSIBILE testimoniare CON VERITÀ il destino mediante la <<non verità>> del linguaggio.

Pertanto, se <<sul fondamento di una NON VERITÀ è impossibile trarre una qualsiasi conseguenza che costituisca una negazione del destino>>, NON si potrà neppure <<trarre una qualsiasi conseguenza che costituisca>> un’AFFERMAZIONE ( = una positiva testimonianza) del destino <<sul fondamento>> della medesima <<NON VERITÀ>> (maiuscoli miei: RF)!

Osserva GG: <<Inoltre, scrive sempre Severino: «nell'atto stesso in cui indicasse il proprio non aver indicato, in passato, la verità, esso [il linguaggio che testimonia il destino] indicherebbe la verità del destino, cioè non sarebbe sottoposto al dubbio che tuttora esso non abbia a indicarla» (Ivi, p. 457). Quegli erramenti del linguaggio che testimonia il destino non appartengono dunque al destino, ma alla terra isolata, e non possono in alcun modo mettere in questione il destino>>.

Senonché, per stabilire la differenza tra gli <<ERRAMENTI del linguaggio che testimonia il destino>> i quali <<non appartengono dunque al destino, ma alla terra isolata>> ed il destino pur sempre testimoniato dal medesimo linguaggio ma i cui erramenti non appartengono al destino, all’io empirico deve apparire _ come appena detto _ il destino testimoniato SENZA ERRAMENTI, altrimenti tale differenza NON potrebbe venir mai colta.

Ora, se è proprio il linguaggio che testimonia il destino ad essere affètto da tali ERRAMENTI, non è possibile, allora, testimoniare tramite lo stesso linguaggio errante il destino SCEVRO DA ERRAMENTI per poi utilizzarlo per attribuire questi ultimi alla <<terra isolata>>!

Inoltre vorrei far notare come NON trattasi di mere <<variazioni del linguaggio che intende dare testimonianza del destino>>, NO:

sono veri e propri ERRAMENTI nel senso di ERRORI, esplicitamente riconosciuti tali da Severino…

<<Tuttavia _ prosegue GG _, che sia il mio essere “io” della volontà empirica a voler designare il destino lo si può dire solo sul fondamento del destino: è infatti il destino ad essere ciò in base a cui si afferma che un “io” lo vuole designare>>.

Come già accennato sopra, se il <<voler designare il destino lo si può dire solo sul fondamento del destino>>, allora il destino appare ANCHE a (ed è compreso da) l’io empirico o ERRORE, sì che, in tal caso, sia FALSO affermare:

<<È NECESSARIO CHE LA FEDE IN CUI CONSISTE L'IO EMPIRICO NON CAPISCA CON VERITÀ IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO, CHE TALE FEDE CREDE DI CAPIRE>>. (E. Severino, La morte e la terra, pag. 138. Maiuscoli miei: RF).

Infatti, è proprio questo il punto:

l’errore NON può CAPIRE LA VERITÀ, e ciò nonostante, che non possa capirla è detto sulla base di quella verità del destino che l’errore NON PUÒ CAPIRE!

GG: <<Si aggiunga che la stessa volontà di assegnare al destino la parola è possibile solo in quanto il destino appare, già da sempre, al di fuori dell’isolamento della parola. Ecco perché a capire (ad ascoltare…) il destino non può essere che il destino che non è affatto un offerente testimonianza, non è affatto un “loqui”, non è, diceva Severino all’amico Arata, non è un “de se sibi loqui”: a capire il destino non può che essere quell’ Io del destino da cui l’”io” empirico è avvolto>>.

In che modo _ o meglio: A CHI _ <<il destino appare, già da sempre, al di fuori dell’isolamento della parola [ = dell’io empirico]>>?

Infatti l’io empirico è lo stesso isolamento della parola.

Lo stesso io empirico-Severino aveva scritto: <<Per indicare l’Errare è necessario esserne AL DI FUORI>>.

Pertanto, se, come qui sopra ha espressamente ribadito GG, <<a CAPIRE (ad ASCOLTARE…) il destino non può essere che il destino>>, allora non resta che attribuire la PATERNITÀ della testimonianza del destino presente negli scritti di Severino allo stesso Io del destino, attribuendogli perciò anche le tesi ERRONEE (poi corrette) ivi contenute, il che, va da sé, costituisce una SMENTITA di tale PATERNITÀ…

GG: <<Ed ecco anche il senso di quel mio dire: ciascuno di noi è l'apparire della verità che capisce se medesima “al di là” del nostro “io” empirico (con riferimento a quello che Severino chiama Io del destino che è apparire della verità e quindi apparire di se medesimo)>>.

Ma nulla cambia affermare che <<ciascuno di noi è l'apparire della verità che capisce se medesima “al di là” del nostro “io” empirico>>, appunto perché tale verità è <<al di ” del nostro “io” empirico>>, quindi inaccessibile, insospettabile, non-apparente, inconoscibile dall’io empirico, neppure attraverso un’illuminazione, come dice Severino:

<<Invece dobbiamo dire che l'individuo è il non illuminabile. Perché l'individuo è errore. Se ci si rende conto che l'individuo è errore, allora la verità non ha il compito di rendere verità l'errore>>. (Severino; La legna e la cenere).

Se invece si esige che essa sia testimoniabile dall’errore, allora si deve NEGARE che l’io empirico sia errore, che sia <<il non illuminabile>>; si deve cioè NEGARE che <<LA FEDE IN CUI CONSISTE L'IO EMPIRICO NON CAPISCA CON VERITÀ IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO>>!

Il che porrebbe l’io empirico/errore AL DI FUORI dell’errore, AL DI FUORI di SÉ, facendolo NON-errore, quindi NON esisterebbe alcun errore a cui contrapporre la verità del destino , perciò, alcuna negazione (con rispettiva autonegazione) della stessa verità.

Osserva quindi GG:

<<E ciò non toglie che tra il destino in quanto tale e il destino in quanto detto [manca parte della frase di GG. Nota mia: RF]. Che anzi, se questo tratto comune non esistesse, la testimonianza del destino sarebbe impossibile:

«Poiché il destino è l’incontrovertibile anche nel suo esser detto, in questo suo esser detto esso è l’incontrovertibile non in quanto è l’indicibile (altrimenti nel suo esser detto non potrebbe esser l’incontrovertibile) e nemmeno in quanto è detto (giacché il dirlo è l’alterarlo), e dunque esso è, nel suo esser detto, l’incontrovertibile, in quanto è il significato che è comune a sé in quanto indicibile e a sé in quanto detto [...]. Tale significato comune è ciò per cui un linguaggio è testimonianza del destino, pur essendone l’alterazione» (E. SEVERINO, La morte e la terra, pp. 129-130). E in ogni caso, precisa in altro luogo Severino:

«Non è che, perché testimoniato, da un io empirico, il destino non sia l’incontrovertibile, ma poiché il destino è l’incontrovertibile – giacché la sua negazione è autonegazione –, il suo essere testimoniato da un io empirico non ne pregiudica l’incontrovertibilità» (E. SEVERINO, Educare al pensiero, p. 117).

Dunque, certamente la testimonianza del destino altera il destino, perché la testimonianza lo fa diventare un designato (e che il destino diventi altro da sé e sia altro da sé è ciò che è impossibile), ma questo è solo un aspetto della testimonianza del destino: l’altro aspetto è quello per cui è necessario che tra il destino e la testimonianza del destino vi sia un tratto comune, distinto e insieme non separato dalla testimonianza del destino, ma anche distinto e non separato rispetto allo stesso destino>>.

Insomma, <<certamente la testimonianza del destino ALTERA il destino>> epperò, al contempo, tale ALTERAZIONE sembrerebbe risparmiare la sua incontrovertibilità, <<giacché la sua negazione è autonegazione>>, per cui <<il suo essere testimoniato da un io empirico non ne pregiudica l’incontrovertibilità>>.

Ma in tal caso è allora del tutto INUTILE ed INSENSATO affermare che <<È NECESSARIO CHE LA FEDE IN CUI CONSISTE L'IO EMPIRICO NON CAPISCA CON VERITÀ IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO, CHE TALE FEDE CREDE DI CAPIRE>>. (Severino, La morte e la terra; cit. Maiuscoli miei: RF).

Infatti:

AUT l’io empirico NON CAPISCE CON VERITÀ IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO, e quindi NON CAPISCE ( = NON può concludere circa alcun destino) neppure l’autonegazione della sua negazione, potendo, al massimo, rendersi consapevole SOLTANTO del nichilistico principio di non-contraddizione (e annessa auto-negazione) aristotelico, in quanto interno all’errore, senza perciò poter effettuare alcun ‘aggancio’ all’innegabilità del destino; meglio: è IMPOSSIBILE che l’io empirico assurga al, o sappia del destino attraverso la severiniana negazione auto-negantesi (quale sua incontrovertibile manifestazione).

AUT l’io empirico CAPISCE <<CON VERITÀ IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO>> attraverso l’auto-negarsi della sua negazione.

E allora, ripeto, è FALSO che sia <<NECESSARIO CHE LA FEDE IN CUI CONSISTE L'IO EMPIRICO NON CAPISCA CON VERITÀ IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO>>.

Ciò nonostante, alla luce di tale AUT-AUT, l’osservazione di Severino:

<<Non è che, perché testimoniato, da un io empirico, il destino non sia l’incontrovertibile, ma poiché il destino è l’incontrovertibile – giacché la sua negazione è autonegazione –, il suo essere testimoniato da un io empirico non ne pregiudica l’incontrovertibilità>>

SMENTISCE la propria tesi secondo la quale

<<È NECESSARIO CHE LA FEDE IN CUI CONSISTE L'IO EMPIRICO NON CAPISCA CON VERITÀ IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO>>,

perché quell’osservazione presuppone che l’io empirico SAPPIA già del destino, giacché egli SA che <<la sua [del destino!] negazione è autonegazione>> e quindi l’io empirico SA già quanto basta per CAPIRE <<CON VERITÀ IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO>>!

SA già, perciò, quanto basta per rendere FALSA la sua impossibilità di CAPIRE <<CON VERITÀ>> il destino!

Circa quel che GG chiama <<l’altro aspetto>> secondo cui <<è necessario che tra il destino e la testimonianza del destino vi sia un tratto comune>>, ebbene, tale <<tratto comune>> DEVE anch’esso esser SAPUTO da (deve APPARIRE a) l’io empirico, e ciò equivale a riconoscere, nuovamente, che a questi APPAIA (e quindi SAPPIA) la verità del destino, il che è però recisamente negato da Severino e quindi da GG.

Infatti: <<resta confermato che È SOLO NELLO SGUARDO DEL DESTINO che può APPARIRE QUESTO TRATTO COMUNE: infatti, spiega Severino:

SOLO IL DESTINO «può essere l’apparire di sé e della volontà designante-interpretante, e quindi può essere l’apparire di quel tratto – che è comune al destino e a tale volontà – come tratto comune»>> (Severino, Intorno al senso del nulla, p. 201. Maiuscoli miei: RF).

Infine, riporto l’ultima replica di GG a cui non avevo risposto. Essa recita:

<<Ecco Roberto – chiudo anch’io, perché impegni e scadenze non prorogabili si fanno, questa settimana, sempre più stringenti,. È l’io empirico a “voler” testimoniare il destino e, dicevo in citazione:

«Come l'io empirico è un eterno che sopraggiunge nella terra isolata, così anche le azioni e il dire dell'io empirico, e dunque anche il suo linguaggio testimoniante il destino, sono degli eterni che sopraggiungono in essa. Sono azioni dell'io empirico nel senso che il loro apparire implica l'apparire della fede, in cui l'io empirico consiste, di essere una forza capace di trasformare la terra», dove appare che l’io empirico è un voluto, un contenuto della fede isolante. Ed appare che la stessa testimonianza del destino, in quanto individuazione della volontà isolante/separante, è un alterare la verità. E infatti il destino, dice Severino in altro luogo che cito a memoria, il destino è tale (e cioè è il de-stino) “nonostante” il suo essere testimoniato. Inoltre, dicendo che è solo sul fondamento del destino che si può dire che sia il mio essere “io” della volontà empirica a voler designare il destino, intendevo dire né più, né meno di quel che afferma Severino quando dice: «Che esista la volontà di testimoniare il destino è una fede (appartenente alla fede della terra isolata), la cui esistenza appare tuttavia incontrovertibilmente nel cerchio originario del destino: è incontrovertibile l'esistenza di quella volontà, in quanto contenuto della fede (ossia di quest'altra forma di volontà)» (La morte e la terra, pp. 125-126). Infine, nel passo di “Educare il pensiero” non si dice che l’io empirico (in quanto volontà, fede, errore) “vede” la verità/incontrovertibilità del destino – in quanto fede, volontà, ecc… l’io è un voltare le spalle alla verità, ossia isolamento, un voltare le spalle che poi è contraddizione perché l’isolamento della volontà dalla verità dell’essere è l’isolamento rispetto a ciò che sta al fondamento della stessa volontà di isolamento –, ma che il destino è l’incontrovertibile: lo è, appunto, nonostante il suo essere testimoniato dal linguaggio. Dove questo linguaggio testimoniante appartiene all’isolamento in quanto è, appunto, volontà di dire (non quanto al contenuto che viene detto). Ed è pertanto il destino (l’io del destino) a vedere quel “tratto comune per cui quell’eterno sopraggiungente che è il linguaggio che testimonia il destino è (per un verso) negazione della verità, perché è volontà di porre il destino come un designato […] ed è verità perché (per altro verso) ciò che viene significato è ciò la cui negazione è autonegazione. E che pertanto, per chiudere come già chiuso nel precedente post, solo il destino «può essere l’apparire di sé e della volontà designante-interpretante, e quindi può essere l’apparire di quel tratto – che è comune al destino e a tale volontà – come tratto comune»>>.

Tutto chiaro, ma quanto ribadito da GG in quest’ultima sua replica non fa che riproporre pari pari le medesime APORIE già indicate, aggravandole, se possibile.

Rivediamole.

Egli precisa che <<È l’io empirico a “voler” testimoniare il destino>>, come infatti accade nelle pagine dei testi di Severino, ed anche qui tra noi.

benissimo.

Al contempo, però, GG precisa che <<nel passo di “Educare il pensiero” NON si dice che l’io empirico (in quanto volontà, fede, errore) “VEDE” la verità/incontrovertibilità del destino – in quanto fede, volontà, ecc…>>, giacché <<l’io è un voltare le spalle alla verità, ossia isolamento […] ma [si dice] che il destino è l’incontrovertibile: lo è, appunto, nonostante il suo essere testimoniato dal linguaggio. Dove questo linguaggio testimoniante appartiene all’isolamento in quanto è, appunto, volontà di dire (non quanto al contenuto che viene detto)>> (maiuscoli e parentesi quadre miei: RF).

Pertanto, per quanto l’io empirico-Severino (e chiunque altro) VOGLIA testimoniare il destino, NON POTRÀ MAI RIUSCIRVI, giacché egli NON <<VEDE” la verità/incontrovertibilità del destino – in quanto fede, volontà, ecc…>>.

Perfetto, ma allora CHE SENSO HA affermare subito dopo che in quel <<passo di “Educare il pensiero”>> si afferma <<che il destino è l’incontrovertibile: lo è, appunto, nonostante il suo essere testimoniato dal linguaggio>>?   

Infatti, da un lato l’io empirico-Severino NON <<VEDE” la verità/incontrovertibilità del destino>> ed al contempo la VEDE, appunto perché <<il destino è l’incontrovertibile: lo è, appunto, nonostante il suo essere testimoniato dal linguaggio>> cioè dall’io empirico-Severino!

Si noti che la frase: <<nonostante il suo essere testimoniato dal linguaggio>> significa:

nonostante il suo esser testimoniato da colui (l’io empirico) che NON <<“VEDE” la verità/incontrovertibilità del destino>>! 

Quindi, siccome (A) <<il destino è l’incontrovertibile>> anche se testimoniato da colui (B) che NON <<“VEDE” la verità/incontrovertibilità del destino>>, allora dobbiamo concludere riconoscendo il NON-SENSO, o meglio, la FALSITÀ della tesi (B), giacché tale io empirico <<“VEDE” la verità/incontrovertibilità del destino>> <<nonostante>> egli NONVEDA <<la verità/incontrovertibilità del destino>>! 

L’io empirico-(B) NON VEDE (A) ed insieme lo VEDE ossia lo testimonia, nonostante questa testimonianza ( = questo vedere (A)), sia <<un alterare la verità>> cioè un alterare (A) da parte di (B).

L’io empirico ALTERA (A), ma, in forza del già menzionato <<tratto comune>> vigente tra destino (A) e sua testimonianza (B) ALTERANTE (ricordiamoci: <<resta confermato che È SOLO NELLO SGUARDO DEL DESTINO che può apparire questo tratto comune>>, NON nello sguardo dell’io empirico a cui comunque sembrerebbe apparirgli, benché ALTERATO), GG ritiene che <<quell’eterno sopraggiungente che è il linguaggio che testimonia il destino è (per un verso) negazione della verità, perché è volontà di porre il destino come un designato […] ed è verità perché (per altro verso) ciò che viene significato è ciò la cui negazione è autonegazione. E che pertanto, per chiudere come già chiuso nel precedente post, solo il destino «può essere l’apparire di sé e della volontà designante-interpretante, e quindi può essere l’apparire di quel tratto – che è comune al destino e a tale volontà – come tratto comune»>>.

Ma ecco, se <<ciò la cui negazione è autonegazione>> costituisce quel <<tratto comune>> tra il destino (A) e la sua testimonianza (B) ALTERANTE resa dall’io empirico-errore, questi possiede ( = CAPISCE/CONOSCE/VEDE) già quanto basta per SMENTIRE di essere errore, appunto perché quel tratto <<è COMUNE al destino e a tale volontà [ = io empirico]>>, perciò, ripeterei ancora una volta di più, è FALSO sostenere che <<È NECESSARIO che la fede in cui consiste L'IO EMPIRICO NON CAPISCA CON VERITÀ IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO>>!

D’altronde ciò è confermato dallo stesso GG:

<<Ed è pertanto il destino (l’io del destino) a VEDERE quel “tratto comune”>>, NON l’io empirico-errore, il quale, però, lo vede ugualmente in virtù del fatto di esser, tale tratto, COMUNE ad ( = VISTO e CONOSCIUTO da) entrambi!

Se così non fosse, cioè <<se questo tratto comune non esistesse, la testimonianza del destino sarebbe impossibile>>.

Ed infatti, a rigor di termini, quel tratto comune NON ESISTE, giacché internamente al nichilismo ( = alla non-verità) è impossibile porsi <<al di ” del nostro “io” empirico>>, cosicché a questi sia consentito conseguire soltanto un’apparente incontrovertibilità qual è il Principio di Non-Contraddizione aristotelico (e prima ancora parmenideo), perché esso, pur affermandosi attraverso l’auto-negazione della propria negazione, al contempo si smentisce _ secondo Severino! _ nel momento in cui permette all’ente di non essere, quando ancora non è e quando non sarà più.

Perciò, dato il nichilismo del PdNC aristotelico, l’io empirico-errore NON PUÒ rilevare alcun <<tratto comune>> tra quel principio e ciò che esso IGNORA, ossia <<ciò la cui negazione è autonegazione>> cioè il destino severiniano il quale, appunto, NON può dall’errore venir conosciuto/testimoniato.   


Roberto Fiaschi

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