Nel presente post, dunque, fornisco risposte più dettagliate rispetto
a quelle avvenute a suo tempo (novembre 2022) nel dibattito con GG.
Vediamo passo per passo.
Scrisse GG: <<In effetti, è
solo nello sguardo del destino che il destino stesso può apparire. E qui, per ora
congedandomi, mi piace riportare un passo di Severino a mio avviso illuminante
(in tutti i sensi):
«È […] il mio Io del destino a “capire” e a “condividere” se
stesso: nel senso che esso è l'apparire di se stesso e del proprio accogliere
la volontà della terra isolata. I prigionieri [ = gli individui, gli io empirici] della caverna non
possono salire alla luce del sole (ripetendo il viaggio di Parmenide dalle
“case della Notte” al sentiero del Giorno): essi sono gli erranti. Ma l'uomo
non è il viandante che va dall'oscurità alla luce: egli è il sole che già da sempre,
senza che i prigionieri se ne avvedano, illumina la caverna della terra isolata
con una luce diversa da quella da cui essi si credono illuminati – e quindi
anche diversa dal “sole” della verità dell'Occidente: la luce diversa del
destino che appare [!!!] nei cerchi finiti del destino». (E. Severino: La morte e la terra, p. 138)>>.
Da parte mia replicai:
Severino ha osservato che
<<l'uomo non è il viandante che va
dall'oscurità alla luce: egli è il sole che già da sempre […] illumina la caverna della terra isolata>>.
Ma, se fosse così, cioè se
l’uomo fosse già <<il sole che già da sempre […] illumina la
caverna della terra isolata>>, allora a testimoniare il destino, attraverso
ciò che Severino chiamava <<i cosiddetti “miei” scritti>>, sarebbe
direttamente quel <<sole>> senza mediazioni, giacché NESSUN altro al di
fuori del <<sole>> può sapere/testimoniare alcunché della
verità in quanto, tale altro (cioè ogni individuo), è ERRORE.
Dunque, se quel <<sole>>
<<appare [!!!] nei cerchi finiti del destino>>, allora:
(1)- o non ha alcun senso (cioè NON È VERO che) sostenere
che l’io empirico NON possa conoscere la verità del destino ( = il <<sole>>),
giacché appunto essa sarebbe testimoniata nei testi di Severino, sì che TUTTI gli io
empirici al suo seguito possano conoscerla (visto che ne parlano e ne scrivono
profusamente) pur essendone impossibilitati dalla loro stessa filosofia, giacché questa
afferma che essi, i <<prigionieri [ = gli individui, gli io empirici] della
caverna NON POSSONO salire alla luce
del sole>>, essendo ERRORI;
(2)- oppure, se all’io empirico fosse davvero preclusa tale
conoscenza, allora la suddetta testimonianza del destino sarebbe offerta ( = testimoniata) direttamente DAL <<sole>>
della verità, già:
ma DOVE, COME, tramite CHI?
Attraverso gli scritti DELL’errore-Severino?
(Certamente, e dove,
altrimenti, visto che il destino/la struttura originaria è SEMPRE LEGATO al suo
nome?).
Poiché è tesi severiniana l’esser
FEDE ( = ERRORE) da parte della comune persuasione che Severino sia l’autore
degli scritti che portano il suo nome, a questo punto, allora, essi non saranno
gli scritti DI
Severino bensì DELLA
stessa verità del destino; il che,
però, sembra ESCLUSO, se non altro perché non poche volte, in tali scritti,
la verità del destino ha dovuto CORREGGERE il tiro concernente alcune tesi circa sé
stessa (!)
E appunto perché non poche
volte ha dovuto correggere il tiro, ciò conferma che l’autore di quegli scritti
sia proprio l’ERRORE-Severino il quale, perciò, NON può testimoniare alcuna Verità del
destino.
Se la convinzione che Severino
sia l’autore di quei testi è una FEDE, sarà parimenti una fede ( = un
ERRORE, un positivo significare del nulla) anche l’intero CONTENUTO di quei
testi grazie ai quali veniamo in contatto con il <<tentativo>> di
testimoniare il destino, altrimenti, cioè negando che quel contenuto sia
anch’esso una fede, dovremmo concludere che tale <<tentativo>>
di testimoniarsi internamente alla fede (cioè negli scritti DI Severino ma dei
quali egli NON ne è l’autore) da parte del destino sia un tentativo
RIUSCITO, confermando perciò il punto (1), ossia negando che l’io
empirico/l’errore/la fede possa mai RIUSCIRE a conoscere la verità del destino
(si veda più sotto circa il <<tratto comune>>
tra il destino e la sua testimonianza che consentirebbe di testimoniare il
destino).
Aggiungo qui una piccola NOTA:
nella su riportata frase di Severino: <<«la luce
diversa del destino che appare [!!!] nei cerchi finiti del destino»>>,
GG ha inserito una parentesi quadra con 3 punti esclamativi dopo la parola
<<appare [!!!]>> allo
scopo di enfatizzare l’apparire.
Certo, quella luce <<appare [!!!] nei cerchi finiti del destino>>, ma NON all’io empirico-errore,
il quale NULLA SA dei <<cerchi
finiti del destino>>!
Se quest’ultimo ne fosse conscio, si CONFERMEREBBE nuovamente
il punto (1).
Fine della NOTA.
Proseguo con la risposta di GG:
<<Quanto a Roberto, che pure ringrazio per il suo intervento
sempre molto pertinente, dirò così:
I punti 1. e 2.
del tuo dettato “alterano”
il dettato severiniano.
Infatti, è vero che in quanto forma individuata di ciò
che la fede isolante crede di esserne – e quindi in quanto non verità –, È IMPOSSIBILE CHE L'IO DELL'INDIVIDUO
VEDA LA VERITÀ DEL DESTINO [maiuscoli miei: RF];
ed è vero che il linguaggio – e quindi lo stesso linguaggio che testimonia il
destino – è espressione della volontà: dire il destino è volere quel suo
“essere altro” da sé che è la sua disponibilità ad essere oggetto del “segno”
(e conseguente separazione e comprensione astratta delle “parti” del destino).
Inoltre, nel cerchio dell’apparire del destino appare l’impossibilità che si
dia un “autore” e cioè che vi sia qualcuno che faccia essere qualcosa:
«Come l'io empirico
è un eterno che sopraggiunge nella terra isolata così anche le azioni e il dire
dell'io empirico, e dunque anche il suo linguaggio testimoniante il destino,
sono degli eterni che sopraggiungono in essa. Sono azioni dell'io empirico nel
senso che il loro apparire implica l'apparire della fede, in cui l'io empirico
consiste, di essere una forza capace di trasformare la terra […]. Che si
capisca veramente ciò che si fa (verum ipsum factum) non è verità (è
negazione del destino della verità). Per questo È NECESSARIO CHE LA FEDE IN CUI
CONSISTE L'IO EMPIRICO NON
CAPISCA CON VERITÀ IL LINGUAGGIO
TESTIMONIANTE IL DESTINO, CHE TALE FEDE CREDE DI CAPIRE». (E. SEVERINO, La
morte e la terra, pp. 137-138 [Maiuscoli miei: RF]).
Dunque, secondo GG, nei <<punti 1. e 2.>> avrei
alterato il <<dettato severiniano>>, perché
non avrei tenuto conto <<che sia il mio essere “io” della volontà empirica
a voler designare il destino lo si può dire solo sul fondamento del destino: è
infatti il destino ad essere ciò in base a cui si afferma che un “io” lo vuole
designare>>.
Bene, ma se <<voler designare il destino lo si può
dire solo sul fondamento del destino>>, ciò non fa che riconfermare
come ANCHE l’io empirico (la non-verità) CONOSCA (VEDA) il
destino cioè la verità, appunto perché esso tenterebbe di testimoniarla
<<sul fondamento del destino>> il quale, perciò, deve esser CONOSCIUTO da colui (
= l’individuo-errore) che però è al contempo IMPOSSIBILITATO a conoscere/vedere <<la
verità del destino>>.
Inoltre, riguardo al
destino, Severino afferma che <<il dirlo è l’ALTERARLO>>, sì che il <<linguaggio
è testimonianza del destino, pur essendone l’ALTERAZIONE>>. (E. Severino: La morte
e la terra, pag. 130. Maiuscoli miei: RF).
Se perciò la mia
ALTERAZIONE è un dire ALTRO rispetto a ciò che invece avrei
dovuto dire in relazione al destino severiniano, allora anche la testimonianza del
destino espressa da Severino e da GG dice ALTRO rispetto a ciò che essa
dovrebbe CORRETTAMENTE testimoniare, proprio perché <<il dirlo è l’ALTERARLO>>.
La mia ALTERAZIONE
può esser ritenuta tale soltanto sulla base della testimonianza NON-ALTERATA del
destino (altrettanto NON-ALTERATO) il quale, però, viene a sua volta
ALTERATO dalla pretesa (volontà) di dirlo NON-ALTERATO. Quest’esser
a sua volta ALTERATO può esser constatato (ma <<il dirlo è l’alterarlo>>
sempre e comunque) soltanto se il destino NON-ALTERATO appare. Senonché, il destino può
apparire NON-ALTERATO
soltanto se vi è un dirlo
che NON si costituisce come un’ulteriore sua ALTERAZIONE,
altrimenti, come potremmo veridicamente dirlo (ritenerlo) NON-ALTERATO?
A ciò, GG osserva
che
<<pure in
questo suo essere avvolto dalla parola [alterante], il destino se ne distingue quale
nucleo semantico-sintattico di cui appare e viene detta l’autonegazione della propria negazione: ad essere
incontrovertibile non è questa designazione in quanto tale, ma ciò che a essa
viene indicato>>.
Per quanto concerne
il DISTINGUERSI della parola testimoniante/alterante il destino da quest’ultimo
nel suo DISTINGUERSI in modo NON-ALTERATO dalla parola che lo testimonia/lo altera, deve apparire
il destino testimoniato (detto) SENZA
ALTERAZIONI, alfine di poter cogliere la suddetta distinzione.
Per cui NON è
sufficiente rifarsi all’<<autonegazione della propria [del
destino] negazione>>, perché anch’essa è pur sempre un dire che dice qualcosa del
destino (ricordiamoci che OGNI <<dirlo è l’alterarlo>>), quindi anch’essa
subirà la medesima ALTERAZIONE, sì che, in tal modo, tale <<autonegazione
[…]>> NON
possa garantire il proprio NON dire ALTRO rispetto a ciò che dice.
Continua GG:
<<L’altra
difficoltà, quella relativa alle variazioni del linguaggio che intende dare
testimonianza del destino [in quegli scritti “la Verità ha dovuto correggere
il tiro”], era cosa ben nota a Severino, e si risolve osservando «che lo
sviluppo storico di un linguaggio (dunque anche di quello che testimonia il destino) è una
interpretazione, ossia è non
verità; e sul
fondamento di una non verità è impossibile trarre una qualsiasi conseguenza che
costituisca una negazione del destino» (E. SEVERINO, Oltrepassare, p.
454)>>.
Avevo scritto che
negli scritti di Severino “la Verità ha dovuto correggere il tiro” in relazione all’eventualità
che il loro contenuto ( = la testimonianza del destino) fosse la DIRETTA
espressione dell’Io del destino/della verità.
Ma la risposta di GG
mi pare che peggiori la situazione, anziché ‘risolverla’, come egli ha scritto, perché se
(anche) il linguaggio <<che testimonia
il destino>> è
<<NON VERITÀ>> (Severino),
allora è IMPOSSIBILE testimoniare CON VERITÀ il destino mediante la <<non verità>> del
linguaggio.
Pertanto, se
<<sul fondamento di una NON VERITÀ
è impossibile trarre una qualsiasi conseguenza che costituisca una negazione
del destino>>, NON
si potrà neppure <<trarre una qualsiasi conseguenza che costituisca>>
un’AFFERMAZIONE ( = una positiva testimonianza) del destino <<sul
fondamento>> della medesima <<NON VERITÀ>> (maiuscoli miei: RF)!
Osserva GG: <<Inoltre,
scrive sempre Severino: «nell'atto stesso in cui indicasse il proprio non aver
indicato, in passato, la verità, esso [il linguaggio che testimonia il destino]
indicherebbe la verità del destino, cioè non sarebbe sottoposto al dubbio che
tuttora esso non abbia a indicarla» (Ivi, p. 457). Quegli erramenti del linguaggio che
testimonia il destino non appartengono dunque al destino, ma alla terra
isolata, e non possono in alcun modo mettere in questione il destino>>.
Senonché, per
stabilire la differenza tra gli <<ERRAMENTI del linguaggio che
testimonia il destino>> i quali <<non appartengono dunque al
destino, ma alla terra isolata>> ed il destino pur sempre
testimoniato dal medesimo linguaggio ma i cui erramenti non appartengono al
destino, all’io empirico deve apparire _ come appena detto _ il destino testimoniato
SENZA ERRAMENTI,
altrimenti tale differenza NON potrebbe venir mai colta.
Ora, se è proprio il
linguaggio che testimonia il destino ad essere affètto da tali ERRAMENTI,
non è possibile, allora, testimoniare tramite lo stesso linguaggio errante il destino SCEVRO DA ERRAMENTI
per poi utilizzarlo per attribuire questi ultimi alla <<terra isolata>>!
Inoltre vorrei far
notare come NON
trattasi di mere <<variazioni
del linguaggio che intende dare testimonianza del destino>>, NO:
sono veri e propri ERRAMENTI
nel senso di ERRORI,
esplicitamente riconosciuti tali da Severino…
<<Tuttavia _
prosegue GG _, che sia il mio essere “io” della volontà empirica a voler
designare il destino lo si può dire solo
sul fondamento del destino: è infatti il destino ad essere ciò in base a cui si
afferma che un “io” lo vuole designare>>.
Come già accennato
sopra, se il <<voler designare il destino lo si può dire solo
sul fondamento del destino>>, allora il destino appare ANCHE a (ed è compreso da)
l’io empirico o ERRORE, sì che, in tal caso, sia FALSO affermare:
<<È
NECESSARIO CHE LA FEDE IN CUI CONSISTE L'IO EMPIRICO NON CAPISCA CON VERITÀ
IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO, CHE TALE FEDE CREDE DI CAPIRE>>.
(E. Severino, La morte e la terra, pag. 138. Maiuscoli miei: RF).
Infatti, è proprio
questo il punto:
l’errore NON può CAPIRE LA VERITÀ, e
ciò nonostante, che non possa capirla è detto sulla base di quella verità del
destino che l’errore NON
PUÒ CAPIRE!
GG: <<Si
aggiunga che la stessa volontà di assegnare al destino la parola è possibile
solo in quanto il destino appare, già da sempre, al di fuori dell’isolamento
della parola. Ecco perché a capire (ad ascoltare…) il destino non può essere
che il destino che non è affatto un offerente testimonianza, non è affatto un
“loqui”, non è, diceva Severino all’amico Arata, non è un “de se sibi loqui”: a
capire il destino non può che essere quell’ Io del destino da cui l’”io”
empirico è avvolto>>.
In che modo _ o
meglio: A CHI _ <<il destino appare, già da sempre, al di fuori dell’isolamento
della parola [ = dell’io empirico]>>?
Infatti l’io empirico è lo stesso isolamento della parola.
Lo stesso io empirico-Severino aveva scritto: <<Per
indicare l’Errare è necessario esserne AL DI FUORI>>.
Pertanto, se, come qui sopra ha
espressamente ribadito GG, <<a CAPIRE (ad ASCOLTARE…) il destino non può essere che il
destino>>,
allora non resta che attribuire la PATERNITÀ della testimonianza del destino
presente negli scritti di Severino allo stesso Io del destino,
attribuendogli perciò anche le tesi ERRONEE
(poi corrette) ivi contenute, il che, va da sé, costituisce una SMENTITA
di tale PATERNITÀ…
GG: <<Ed
ecco anche il senso di quel mio dire: ciascuno di noi è l'apparire della verità
che capisce se medesima “al di là” del nostro “io” empirico (con riferimento a quello che Severino chiama Io del destino
che è apparire della verità e quindi apparire di se medesimo)>>.
Ma nulla cambia
affermare che <<ciascuno di noi è l'apparire della verità che capisce
se medesima “al di là” del nostro “io” empirico>>, appunto perché
tale verità è <<“al
di là” del nostro “io”
empirico>>, quindi inaccessibile, insospettabile, non-apparente,
inconoscibile dall’io empirico, neppure attraverso un’illuminazione, come dice
Severino:
<<Invece
dobbiamo dire che l'individuo
è il non illuminabile. Perché
l'individuo è errore.
Se ci si rende conto che l'individuo è errore, allora la verità non ha il
compito di rendere verità l'errore>>. (Severino; La legna e la cenere).
Se invece si esige che
essa sia testimoniabile dall’errore, allora si deve NEGARE che
l’io empirico sia errore, che sia <<il non illuminabile>>;
si deve cioè NEGARE che <<LA FEDE IN CUI CONSISTE L'IO EMPIRICO
NON CAPISCA CON VERITÀ IL LINGUAGGIO
TESTIMONIANTE IL DESTINO>>!
Il che porrebbe l’io
empirico/errore AL DI FUORI dell’errore, AL DI FUORI di
SÉ, facendolo NON-errore, quindi NON esisterebbe alcun errore a cui
contrapporre la verità del destino NÉ, perciò, alcuna negazione (con rispettiva autonegazione)
della stessa verità.
Osserva quindi GG:
<<E ciò non
toglie che tra il destino in quanto tale e il destino in quanto detto [manca
parte della frase di GG. Nota mia: RF]. Che anzi, se questo tratto comune non esistesse, la
testimonianza del destino sarebbe impossibile:
«Poiché il destino è
l’incontrovertibile anche nel suo esser detto, in questo suo esser detto esso è
l’incontrovertibile non in quanto è l’indicibile (altrimenti nel suo esser
detto non potrebbe esser l’incontrovertibile) e nemmeno in quanto è detto (giacché
il dirlo è l’alterarlo), e dunque esso è, nel suo esser detto,
l’incontrovertibile, in quanto è il significato che è comune a sé in quanto
indicibile e a sé in quanto detto [...]. Tale significato
comune è ciò per cui un linguaggio è testimonianza del destino, pur essendone
l’alterazione» (E. SEVERINO, La morte e la terra, pp. 129-130). E in
ogni caso, precisa in altro luogo Severino:
«Non è che, perché
testimoniato, da un io empirico, il destino non sia l’incontrovertibile, ma
poiché il destino è l’incontrovertibile – giacché la sua negazione è
autonegazione –, il suo essere testimoniato da un io empirico non ne pregiudica
l’incontrovertibilità» (E. SEVERINO, Educare al pensiero, p. 117).
Dunque, certamente
la testimonianza del destino altera il destino, perché
la testimonianza lo fa diventare un designato (e che il destino diventi altro
da sé e sia altro da sé è ciò che è impossibile), ma questo è solo un aspetto
della testimonianza del destino: l’altro aspetto è quello per cui è necessario
che tra il destino e la testimonianza del destino vi sia un tratto comune,
distinto e insieme non separato dalla testimonianza del destino, ma anche
distinto e non separato rispetto allo stesso destino>>.
Insomma, <<certamente la testimonianza del destino ALTERA il destino>> epperò, al
contempo, tale ALTERAZIONE sembrerebbe risparmiare la sua incontrovertibilità,
<<giacché la sua negazione è autonegazione>>, per cui
<<il suo essere testimoniato da un io empirico non ne pregiudica
l’incontrovertibilità>>.
Ma in tal caso è allora
del tutto INUTILE
ed INSENSATO
affermare che <<È NECESSARIO CHE LA FEDE IN CUI CONSISTE L'IO EMPIRICO
NON CAPISCA CON VERITÀ IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO, CHE TALE FEDE
CREDE DI CAPIRE>>. (Severino, La morte e la terra; cit.
Maiuscoli miei: RF).
Infatti:
AUT l’io empirico NON CAPISCE CON VERITÀ
IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO, e quindi NON CAPISCE ( = NON può concludere
circa alcun destino) neppure l’autonegazione della sua negazione, potendo, al
massimo, rendersi consapevole SOLTANTO del nichilistico principio
di non-contraddizione (e annessa auto-negazione) aristotelico, in quanto
interno all’errore, senza perciò poter effettuare alcun ‘aggancio’
all’innegabilità del destino; meglio: è IMPOSSIBILE che l’io empirico assurga
al, o sappia del destino
attraverso la severiniana negazione auto-negantesi (quale sua incontrovertibile
manifestazione).
AUT l’io empirico CAPISCE <<CON
VERITÀ IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO>> attraverso l’auto-negarsi
della sua negazione.
E allora, ripeto, è FALSO che sia
<<NECESSARIO CHE LA FEDE IN CUI CONSISTE L'IO EMPIRICO NON CAPISCA CON
VERITÀ IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO>>.
Ciò nonostante, alla
luce di tale AUT-AUT, l’osservazione di Severino:
<<Non è
che, perché testimoniato, da un io empirico, il destino non sia
l’incontrovertibile, ma poiché il destino è l’incontrovertibile – giacché la
sua negazione è autonegazione –, il suo essere testimoniato da un io empirico
non ne pregiudica l’incontrovertibilità>>
SMENTISCE la propria tesi secondo la quale
<<È
NECESSARIO CHE LA FEDE IN CUI CONSISTE L'IO EMPIRICO NON CAPISCA CON VERITÀ
IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO>>,
perché
quell’osservazione presuppone che l’io empirico SAPPIA già del destino, giacché
egli SA che <<la
sua [del destino!] negazione è autonegazione>> e quindi
l’io empirico SA
già quanto basta per CAPIRE <<CON VERITÀ
IL LINGUAGGIO TESTIMONIANTE IL DESTINO>>!
SA già, perciò, quanto
basta per rendere FALSA
la sua impossibilità di CAPIRE
<<CON VERITÀ>> il
destino!
Circa quel che GG chiama
<<l’altro aspetto>> secondo cui <<è necessario che
tra il destino e la testimonianza del destino vi sia un tratto comune>>, ebbene, tale <<tratto comune>> DEVE
anch’esso esser SAPUTO
da (deve APPARIRE
a) l’io empirico, e ciò equivale a riconoscere, nuovamente, che a questi APPAIA
(e quindi SAPPIA) la verità del destino, il che è però recisamente negato
da Severino e quindi da GG.
Infatti: <<resta
confermato che È SOLO NELLO SGUARDO DEL DESTINO che può APPARIRE QUESTO TRATTO COMUNE: infatti, spiega
Severino:
SOLO IL
DESTINO «può essere
l’apparire di sé e della volontà designante-interpretante, e quindi può essere
l’apparire di quel tratto – che è comune al destino e a tale volontà – come
tratto comune»>>
(Severino, Intorno al senso del nulla, p. 201. Maiuscoli miei: RF).
Infine, riporto l’ultima
replica di GG a cui non avevo risposto. Essa recita:
<<Ecco
Roberto – chiudo anch’io, perché impegni e scadenze non prorogabili si fanno,
questa settimana, sempre più stringenti,. È l’io empirico a “voler”
testimoniare il destino e, dicevo in citazione:
«Come l'io empirico
è un eterno che sopraggiunge nella terra isolata, così anche le azioni e
il dire dell'io empirico, e dunque anche il suo linguaggio testimoniante il
destino, sono degli eterni che sopraggiungono in essa. Sono azioni dell'io
empirico nel senso che il loro apparire implica l'apparire della fede, in cui
l'io empirico consiste, di essere una forza capace di trasformare la terra»,
dove appare che l’io empirico è un voluto, un contenuto della fede isolante. Ed
appare che la stessa testimonianza del destino, in quanto individuazione della
volontà isolante/separante, è un alterare la verità. E infatti il destino, dice
Severino in altro luogo che cito a memoria, il destino è tale (e cioè è il
de-stino) “nonostante” il suo essere testimoniato. Inoltre, dicendo che è solo
sul fondamento del destino che si può dire che sia il mio essere “io” della
volontà empirica a voler designare il destino, intendevo dire né più, né meno
di quel che afferma Severino quando dice: «Che esista la volontà di
testimoniare il destino è una fede (appartenente alla
fede della terra isolata), la cui esistenza appare tuttavia
incontrovertibilmente nel cerchio originario del destino: è incontrovertibile
l'esistenza di quella volontà, in quanto contenuto della fede (ossia di
quest'altra forma di volontà)» (La morte e la terra, pp. 125-126). Infine,
nel passo di “Educare il pensiero” non si dice che l’io empirico (in quanto
volontà, fede, errore) “vede” la verità/incontrovertibilità del destino – in
quanto fede, volontà, ecc… l’io è un voltare le spalle alla verità, ossia
isolamento, un voltare le spalle che poi è contraddizione perché l’isolamento
della volontà dalla verità dell’essere è l’isolamento rispetto a ciò che sta al
fondamento della stessa volontà di isolamento –, ma che il destino è
l’incontrovertibile: lo è, appunto, nonostante il suo essere testimoniato dal
linguaggio. Dove questo linguaggio testimoniante appartiene all’isolamento in
quanto è, appunto, volontà di dire (non quanto al contenuto che viene detto).
Ed è pertanto il destino (l’io del destino) a vedere quel “tratto comune” per cui quell’eterno
sopraggiungente che è il linguaggio che testimonia il destino è (per un verso)
negazione della verità, perché è volontà di porre il destino come un designato […] ed è verità
perché (per altro verso) ciò che viene significato è ciò la cui negazione è
autonegazione. E che pertanto, per chiudere come già chiuso nel precedente
post, solo il destino «può essere l’apparire di sé e della volontà
designante-interpretante, e quindi può essere l’apparire di quel tratto – che è
comune al destino e a tale volontà – come tratto comune»>>.
Tutto chiaro, ma
quanto ribadito da GG in quest’ultima sua replica non fa che riproporre pari
pari le medesime APORIE già indicate, aggravandole, se possibile.
Rivediamole.
Egli precisa che
<<È l’io empirico a “voler” testimoniare il destino>>,
come infatti accade nelle pagine dei testi di Severino, ed anche qui tra noi.
benissimo.
Al contempo, però, GG
precisa che <<nel passo di “Educare il pensiero” NON si dice che l’io
empirico (in quanto volontà, fede, errore) “VEDE” la verità/incontrovertibilità del destino – in quanto fede,
volontà, ecc…>>, giacché <<l’io è un voltare le spalle alla
verità, ossia isolamento […] ma [si dice] che il destino è l’incontrovertibile: lo è,
appunto, nonostante il suo essere testimoniato dal linguaggio. Dove questo
linguaggio testimoniante appartiene all’isolamento in quanto è, appunto,
volontà di dire (non quanto al contenuto che viene detto)>>
(maiuscoli e parentesi quadre miei: RF).
Pertanto, per quanto
l’io empirico-Severino (e chiunque altro) VOGLIA testimoniare il destino,
NON POTRÀ MAI RIUSCIRVI, giacché egli NON <<“VEDE” la verità/incontrovertibilità del destino – in quanto fede,
volontà, ecc…>>.
Perfetto, ma allora
CHE SENSO HA affermare subito dopo che in quel <<passo di “Educare il
pensiero”>> si afferma <<che il destino è l’incontrovertibile: lo è,
appunto, nonostante il suo essere testimoniato dal linguaggio>>?
Infatti, da un lato
l’io empirico-Severino NON
<<“VEDE”
la verità/incontrovertibilità
del destino>> ed al contempo la VEDE, appunto perché <<il
destino è l’incontrovertibile:
lo è, appunto, nonostante il suo essere testimoniato dal linguaggio>>
cioè dall’io empirico-Severino!
Si noti che la
frase: <<nonostante
il suo essere testimoniato dal linguaggio>> significa:
nonostante il suo esser testimoniato da colui (l’io empirico) che NON
<<“VEDE” la verità/incontrovertibilità del destino>>!
Quindi, siccome (A)
<<il destino è l’incontrovertibile>> anche se testimoniato
da colui (B) che NON
<<“VEDE” la verità/incontrovertibilità del destino>>, allora
dobbiamo concludere riconoscendo il NON-SENSO, o meglio, la FALSITÀ della tesi (B),
giacché tale io empirico <<“VEDE” la verità/incontrovertibilità del
destino>> <<nonostante>> egli NON “VEDA” <<la
verità/incontrovertibilità del destino>>!
L’io empirico-(B)
NON VEDE (A) ed insieme lo VEDE ossia lo testimonia, nonostante
questa testimonianza ( = questo vedere (A)), sia <<un alterare la verità>>
cioè un alterare
(A) da parte di (B).
L’io empirico ALTERA
(A), ma, in forza del già menzionato <<tratto comune>> vigente tra destino (A) e sua testimonianza
(B) ALTERANTE (ricordiamoci: <<resta confermato che È SOLO NELLO SGUARDO DEL DESTINO che può apparire questo tratto comune>>, NON
nello sguardo dell’io empirico a cui comunque sembrerebbe apparirgli, benché ALTERATO),
GG ritiene che <<quell’eterno sopraggiungente che è il linguaggio che
testimonia il destino è (per un verso) negazione della
verità, perché è volontà di porre il destino come un designato […] ed è verità
perché (per altro verso) ciò che viene significato è ciò la cui negazione è
autonegazione. E che pertanto, per chiudere come già chiuso nel precedente
post, solo il destino «può essere l’apparire di sé e della volontà
designante-interpretante, e quindi può essere l’apparire di quel tratto – che è
comune al destino e a tale volontà – come tratto comune»>>.
Ma ecco, se <<ciò
la cui negazione è autonegazione>> costituisce quel <<tratto comune>> tra il
destino (A) e la sua testimonianza (B) ALTERANTE resa dall’io empirico-errore,
questi possiede ( = CAPISCE/CONOSCE/VEDE) già quanto basta
per SMENTIRE
di essere errore, appunto perché quel tratto <<è COMUNE al destino e a tale volontà [ = io
empirico]>>, perciò, ripeterei ancora una volta di più, è FALSO sostenere che
<<È NECESSARIO che la fede in cui consiste L'IO EMPIRICO NON CAPISCA CON VERITÀ IL LINGUAGGIO
TESTIMONIANTE IL DESTINO>>!
D’altronde ciò è confermato
dallo stesso GG:
<<Ed è
pertanto il destino
(l’io del destino)
a VEDERE quel
“tratto comune”>>, NON l’io empirico-errore, il quale, però, lo vede
ugualmente in virtù del fatto di esser, tale tratto, COMUNE ad ( = VISTO
e CONOSCIUTO da) entrambi!
Se così non fosse,
cioè <<se questo tratto
comune non esistesse,
la testimonianza del destino sarebbe impossibile>>.
Ed infatti, a rigor
di termini, quel tratto
comune NON ESISTE, giacché
internamente al nichilismo ( = alla non-verità) è impossibile porsi <<“al di là” del nostro “io”
empirico>>, cosicché a questi sia consentito conseguire soltanto
un’apparente incontrovertibilità qual è il Principio di Non-Contraddizione
aristotelico (e prima ancora parmenideo), perché esso, pur affermandosi
attraverso l’auto-negazione della propria negazione, al contempo si smentisce _
secondo Severino! _ nel momento in cui permette all’ente di non essere,
quando ancora non è e quando non sarà più.
Perciò, dato il
nichilismo del PdNC aristotelico, l’io empirico-errore NON PUÒ rilevare
alcun <<tratto
comune>> tra
quel principio e ciò che esso IGNORA, ossia <<ciò la cui negazione è
autonegazione>> cioè il destino severiniano il quale, appunto, NON
può dall’errore venir conosciuto/testimoniato.
Roberto Fiaschi
---------------------------------------------
