domenica 23 aprile 2023

52)- M. MENDULA: «OLTRE SEVERINO. L’ORRORE DELL’ERRORE DI ESSER TALE»

Riporto un interessantissimo scritto del filosofo Mauro Mendula, tratto da: https://www.academia.edu/20030129/Oltre_Severino_oltre_la_gioia_l_orrore_dell_errore_di_esser_tale, dove ho ritrovato (evidenziati in giallo) non solo il mio stesso iter esistenziale nei riguardi di alcune tesi di Severino, ma altresì una notevole somiglianza se non un’identità di contenuto con diverse critiche da me presentate in questo blog.

***

<<OLTRE SEVERINO, OLTRE LA GIOIA: L’ORRORE DELL’ERRORE DI ESSER TALE>>.

di Mauro Mendula

<<Premessa

Ciò che di seguito viene proposto è un testo giovanile risalente ai miei primi anni universitari, trovato in mezzo ad altre carte dell’epoca. Erano tempi nei quali mi cibavo letteralmente di ‘pane eneo-eleatismo’ con una immersione quasi mistica e famelica nei testi di Emanuele Severino, divorati, vissuti e sofferti con quel trasporto senza misure mediane che solo da giovani è possibile avere. E’ anche il testo che decreta la fine di un amore travolgente verso quegli ‘astri eterni dell’Essere’ i quali, superata una prima fase di innamoramento inebriante, cominciarono a mostrarsi sempre più sotto un cono d’ombra di cupo pessimismo. L’immersione profonda nei testi neo-parmenidei svelava infatti delle trame nascoste nel pensiero severiniano che allora ritenevo non fossero in alcun modo chiare e presenti neppure all’autore, capaci di portare però a conclusioni e sentimenti diametralmente opposti a quelli declamati dal Nostro in tonalità magnificenti quali la ‘gioia’ e la ‘gloria’, ribaltati e mutati in disperazione ed orrore

Conclusioni antitetiche, eppure anche queste estremamente coerenti con le premesse poste, capaci di aprire prepotentemente la strada ad una possibile, altrettanto autentica, coerente e rovinosa caduta in un nichilismo più estremo di quello al quale ci si pretendeva di opporre: il rimedio diveniva nuovamente peggiore del male

I pensieri che seguono non vogliono avere – e non ebbero a suo tempo – la pretesa di documentare meticolosamente i riferimenti bibliografici dai quali furono estrapolati. Ma chi è buon conoscitore di Severino saprà all’istante ricondurre ognuno di essi al maestro. Non vi si troverà che un lampo ermeneutico possibile, tutto da approfondire e ripercorrere, quello di un nichilismo parmenideo. Io non lo feci e queste righe rimasero come mero sottofondo per studi più approfonditi di ontologia e metafisica, maggiormente legati ad una critica elenctica di alcune premesse e passaggi ma non – come invece qui – ad una presa di coscienza di un generale e sistemico non sensopercepibile solo ‘a fine corsa’. Buona lettura.

Quale miseria umana ha potuto dare al nichilismo la forza di vestire la maschera del Logos, dando vita ad una tensione dialettica nella quale ciò che appare la più possente antitesi e negazione di esso non fa che riaffermare e potenziare il non senso di cui la tesi è portatrice? E quale potente sortilegio tiene in scacco quel valoroso guerriero col nome di Emanuele Severino, tanto da sopirgli la coscienza che in realtà colui che l’ha arruolato non è se non il suo stesso nemico? Forse è vero che molti guerrieri della filosofia, costruiti enormi e possenti castelli, difesi da sofisticate armi elenctiche, vanno poi, non si sa come, ad abitare in un granaio [riferimento a Kierkegaard nei confronti di Hegel: RF] . Dovremo dunque – per spezzare l’incantesimo – portar dentro alla fortezza il valoroso, senza muovergli guerra, condurlo a prender coscienza che, ahimè, coerenza urge la struttura della roccaforte, facendo poi luce nelle stanze più nascoste nelle quali soltanto, vi è il segreto dell’intero castello.

Ecco dunque svelato il nostro intento: portare Severino alla coscienza del non senso che trasuda dal suo sistema, percorrendo i luoghi concettuali più importanti del suo pensiero, quali il tema della verità, della contraddizione insita in essa, dell’errore, dell’interrelazione fra i tre ed infine della gioia: concerto che riecheggia un po’ in tutti gli scritti del Nostro.

Iniziamo dunque con la Struttura Originaria della verità, la quale comanda: l’Essere è e non può non essere; ciò si predica necessariamente per ogni determinazione che, in quanto positività anch’essa, è e non può non essere. D’altronde l’Essere è il Tutto, l’apertura immensa, non misurabile – illimitata- che niente lascia fuori di sé, eternamente al riparo dal nulla. Ma “la verità originaria è contraddizione perché è l’apparire del Tutto e, insieme, il Tutto non vi appare nella concreta ed esaustiva ricchezza delle sue determinazioni, ma come semplice totalità formale (costituita appunto dal significato ‘Tutto’ o ‘Totalità dell’ente’, come orizzonte delle determinazioni che appaiono; sì che ciò che non è il Tutto è posto come il Tutto” (SFP).

Questa contraddizione apre la strada all’errore, in quanto “solo perché l’apertura originaria della verità non è la totalità compiuta e concreta dell’ente, può irrompere nel cerchio dell’apparire della verità la volontà di isolare la terra dal destino della verità e la testimonianza dell’isolamento” (ibid.). Il cerchio dell’apparire dell’essere e della verità è l’orizzonte trascendentale della coscienza, ed il destino non è che lo stare raccolto di ogni ente nella totalità eterna del positivo. Dunque: come l’Essere si semantizza in opposizione al nulla, la verità - a sua volta – si semantizza in opposizione all’errore, ed è tale in quanto sua negazione, “sicché se l’errore non fosse eternamente, neanche la verità sarebbe” (ibid.). L’essenza di esso – e dunque del nichilismo – è il “pensare che la terra sia la regione sicura” dove il mortale, una volta isolata dal destino della verità, si persuade di poter disporre di mezzi che sono idonei alla produzione dei suoi scopi, ritenendo dunque “ogni cosa della terra come ciò che può essere posto qua e là (dis-posto)”.

Ma che cos’è l’errore in concreto? Di esso si dovrà dire che accompagna il mortale fin dalla sua comparsa nel cerchio dell’apparire dell’Essere, individuabile però, nella sua formulazione metafisica, nel senso greco del divenire, il quale palesa ciò che il linguaggio pre-metafisico e l’agire in quanto tali, mantenevano naturalmente implicito: il pensare cioè l’essente come ciò che oscilla tra il nulla e l’Essere, esce da nulla e ad esso torna, il pensare dunque ogni cosa come isolata, completamente slegata dal nesso originario che la unisce al Tutto, quindi estremamente dominabile e disponibile alla volontà di potenza come essenza stessa dell’agire, follia estrema, errare originario il quale vuole l’impossibile: vuole che l’ente sia in realtà un niente. Ma nessuna cosa può esser violata, alterata, turbata da una volontà di dominio, sia essa umana o divina. “Tutte le cose sono eterne, quindi tutte unite tra loro, inseparabili”. La volontà di potenza è “il contenuto di un sogno terribile che regna ormai su tutta la terra”, ma ha sempre regnato – aggiungiamo noi – da quando il mortale è entrato nel cerchio dell’apparire dell’Essere, e spiegheremo il perché.

Possiamo ora catalogare le varie concrete espressioni dell’errore: innanzitutto l’io, inteso come il principio stesso dell’agire: “la volontà di potenza può credere di dominare la terra solo in quanto crede di dominare se stessa, solo in quanto crede di essere un ‘se stesso’, un io (…). L’aver fede in ‘se stesso’ come principio dell’azione è fede in un contenuto che implica con necessità la nientità dell’ente, ossia è fede in un contenuto impossibile, che non può essere realtà, non può essere essente, ed è appunto errore. Proprio per questo l’io, in ogni sua forma, anche quello che appare al di fuori dello sguardo dell’alienazione della volontà, ossia lo stesso apparire della verità, l’apparire dell’apparire del destino della verità, in quanto ‘punto di vista’ o prospettiva che differisce dallo sguardo della verità, non può ascoltare, capire seguire e tantomeno organizzare sé e il mondo conformemente ad essa (…). Tutto ciò che l’io crede di capire della verità è in realtà un equivoco. L’io non può essere educato, ammaestrato, illuminato, reso ragionevole dalla verità (…). Le parole della verità in quanto dette dall’io diventano le parole dell’errore (SFP, 1982). Aggiungiamo noi che – se è vero ciò che dice un famoso passo del Bhagavadgita – “ogni azione, senza eccezione, è contenuta nella conoscenza”, essa stessa dunque è un errore, come il pensare che ne sta alla base, e pare che Severino sia d’accordo con noi quando, in Destino della Necessità afferma che stanno all’interno dell’isolamento della terra anche quelle forme come ‘pensiero’, ‘contemplazione’, ‘conoscenza’ e ‘rappresentazione’. Parmenide disse che tutto ciò che poteva apparir certo all’uomo era in realtà illusione; il nostro valoroso aggiusta il tiro e muta l’illusione in errore.

Ma sorge ora un problema: se anche Severino è un ‘se stesso’, un io, secondo le premesse appena evidenziate, come è stato possibile il suo esser illuminato dalla verità, se essa è inaccessibile al ‘se stesso’ e ciò che in realtà egli crede di comprendere – secondo le parole del Nostro – è mero equivoco? E se le parole della verità, in quanto dette dall’io, diventano le parole dell’errore, come potremo esser certi che le sue parole non siano esse stesse un errare? Ecco la fede, negata in principio, rientra surrettiziamente nel sistema: non più fede in un dio trascendente, ma in quell’errore dal nome di Emanuele Severino il quale, così è necessario credere, è potuto venire ad esatta conoscenza della verità, in tal misura che le parole di quel ‘se stesso’ siano in grado di riportare tale straordinaria illuminazione in modo fedele e senza alcun fraintendimento: ci fu un unico io che potè essere ammaestrato – non si sa come – dalla verità, e ad esso dobbiamo credere.

Ma continuiamo con l’enumerazione di tutto ciò che è errore: esso è anche la persuasione nell’esistenza della libertà, la cui realtà è totalmente compromessa se si escludono come pura illusione concetti quali ‘possibilità’ e ‘contingenza’, figli dell’alienazione originaria e del nichilismo. “Il libero arbitrio esprime la persuasione che l’ente sia niente” (DN, 1980).

Valori? Come ogni fede sono violenza ed errore, in quanto si reggono sulla soppressione di altri ad essi concorrenti che, non meno fondati, avrebbero lo stesso diritto di esser scelti. La morale come la tecnica sono figli della volontà di potenza, del nichilismo e dunque errore. È ora nuovamente necessario riportare coerenza nel sistema. Se l’agire in quanto tale è errore, risulta inutile continuare ad accanirsi, come fa il nostro valoroso, contro l’occidente, solo perché la sua filosofia avrebbe fornito le categorie per pensare praxis e poiesis e per potenziare l’intervento e il dominio dell’uomo sulla realtà. E’ inutile fare discorsi quantitativi di minor o maggior dominio: il mortale è nichilista nell’essenza del suo essere, a prescindere che ne sia consapevole o no, necessariamente agisce e dunque erra. Sono forse l’arte e la tecnica le estreme conseguenze? Ma anch’esse sono coessenziali all’uomo in quanto tale. A questo proposito Baudelaire aveva acutamente osservato: “il selvaggio e il bambino attestano, con la loro ingenua aspirazione a ciò che brilla, alle piume variopinte, alle stoffe cangianti, alla grandiosa maestà delle forme artificiali, il loro disgusto per il reale”.

Ma rendiamo ancor più coerenti le conclusioni coi presupposti: errore è dunque anche la presunzione dell’animale di poter dis-porre della preda, l’insetto il quale è ciecamente e istintivamente persuaso di dis-porre del nettare dei fiori, insomma, tutto ciò che si affanna ancor più ciecamente nel mantenersi il più possibile nel cerchio dell’apparire dell’Essere, perseverando nell’errare originario del quale l’uomo dovrebbe essere l’estrema consapevolezza: “il mortale è l’apparire del contrasto tra il destino della verità e la volontà che isola la terra dal destino della verità” (DN).

Dunque, ad ultimo, potremo dire, parafrasando Hegel, che “solo la pietra è innocente”, se non fosse che anch’essa si manifesta, come la terra, isolata dal destino della verità. Ma veniamo finalmente al tema della Gioia, dove potremo notare come il prode Emanuele non viva realmente ciò che pensa, fermandosi fatalmente a conclusioni incomplete e decisamente ‘fuori fase’ se paragonate alle premesse. Ha lasciato il castello e si è trasferito nel granaio. “L’uomo è la gloria eterna”, “eterno cerchio dell’apparire dell’intramontabile in cui si mostra la terra”, “la gioia è l’inconscio più profondo del mortale”. Un primo motivo di gioia dovrebbe essere il sapere la propria eternità, l’esser ciascuno di noi un astro eterno dell’Essere, eternamente al riparo dal nulla. Ma è da dimostrare che l’eternità sia tout court sinonimo di gioia, la quale non ne è conseguenza necessaria, tutt’altro. Prendiamo l’esempio cristiano (premettendo che l’eternità che prospetta il ‘principio di Parmenide’ è ben altra cosa e che a Severino l’accostamento non piacerà):

diverso è lo stare eternamente ad abbrustolire negli inferi o, invece, ‘al fresco’ nella beatitudine del paradiso. Posto che esista l’inferno, non crediamo che i dannati gioiscano per il sol fatto di essere eterni, se ciò consiste nel bruciare perennemente nel fuoco inestinguibile. Lasciamo la considerazione sarcastica di Lucio Colletti, il quale affermò che il buon Emanuele avrebbe preteso di lanciarci nell’eternità così come siamo, coi nostri acciacchi, la suocera, la gabbia dei canarini ecc… .

Tornando alla premesse: è vero che l’uomo - come ogni cosa - è eterno ma, nella sua condizione specifica (a parte gli acciacchi) lo è come errore: che gioia proverebbe il nostro valoroso se gli si dicesse che non solo è errore ma lo è per l’eternità, necessariamente?!

Rettifichiamo dunque: la gioia è da sempre oltrepassata dall’orrore del mortale di esser errore e, ripetiamo, per l’eternità, necessariamente. All’origine del nostro entrare nel cerchio della luce dell’Essere vi è infatti l’alienazione abissale, l’estrema follia incarnata dalla convinzione di non poter essere che un ‘se stesso’ e di non poter non agire per conservarsi nel cerchio finito dell’apparire, il più a lungo possibile: cieca autoconservazione della follia. Noi serviamo alla verità, il nostro destino è l ‘essere il luogo in cui essa si specchia (e si deforma) ed il mezzo attraverso il quale si eleva eterna sopra l’errore, sopra di noi dunque. Non è forse un io che si perde misticamente nel fondo del Sé, nell’orizzonte che avvolge la totalità dell’essente?

Chi contempla, chi decreta tutto ciò e l’io come perenne contraddizione? In quale dove la struttura originaria può parlare senza mediazioni e punti di fuga prospettici? Dobbiamo decidere (re-cidere) per vivere, la vita è dunque il mezzo attraverso il quale l’errore si conserva e persevera nel cerchio dell’apparire, e non possiamo non decidere malgrado la consapevolezza che l’agire sia ‘follia estrema’. Qual è il senso di questo ‘eterno positivo’, di questa totalità dell’ente, di questi astri eterni dell’Essere e del loro apparirci? Godete, o mortali, di perenne putrefazione! L’unica cosa da sperarsi è che finisca tutto subito, che si spenga il cerchio dell’apparire e che tutto vada nel ‘perfectum’, ma ciò è impossibile. C’è forse una necessità, apparentemente ontologica, ma non vi è un senso. Il nichilismo ha raggiunto la sua vetta. Alla lettura de La Struttura Originaria, opera prima del Sommo Filosofo, un giovane uomo morì d’eternità e, nella pagina finale del volume scrisse pochi versi, ostili ad esser irretiti da metrica o da calcolo, dal titolo inquietante ed allusivo, che riportiamo, a conclusione delle nostre considerazioni, qui per intero, tranne il finale, scritto col sangue: “mi spensi da sempre”.

La Stortura Originaria

Che son io? Il vapore d’una cascatella, l’ombra tenue d’un filo d’erba, l’inquietudine d’una formica che mai non posa. Errore. Eterno immenso errore! Nacqui un giorno e pur fui da sempre, coi miei primi gemiti e’l mio sospir finale. A chi serviron le mie gioie e’ miei dolori, l’impeto e l’ira, l’indaffararsi della madre nel difender la prole e per la morte d’un figlio il suo sgomento e’ l suo orrore? E pur ti dicon di gioire, che sei eterno ma finito, così tutto attorno a te!

A ché l’eternità in cotal finitudine? Forse che se tornassi indietro troverei altro da quei sospiri? Son gli stessi, da sempre e per sempre. Che son le mie speranze e’ miei progetti? Errore ed illusione, così ogni mia folle e dunque empia azione. E pur devo esser gioia! Strumento d’una verità monca e finita Che abbisogna dell’errore per sentirsi tale, per sanar la sua contraddizione. Che direbbe Leopardi a sentir ciò? Morì l’inganno estremo che caduco ti credesti. Non riposerai mai, e così il tuo cuor. Al genere nostro il destino non donò Che l’eternità. Limitato è il tuo sguardo, quanto basta per mirar l’infinita vana perpetuità del Tutto! Ma vi prego ora, tacete. Taccia chiunque se questo è tutto ciò che può dirsi e rimaner saldo ed inviolato. Più senso avrebbe il nulla eterno Se fosse più d’una allucinazione metafisica. No, amici, tenetevi pur la ben rotonda verità E traetene gioia e diletto se riuscite che se è tale a nessuno appartiene, neppur a voi che la difendete a spada tratta. E agli altri io dico: errore è anch’esso E l’arma che superbo imbraccerà!>>.

Mauro Mendula

-------------------------------------------------------

venerdì 21 aprile 2023

51)- LE «CINQUE ASSURDITÀ» DI GIORGIO CESARE ARMATO

Intendo, qui, commentare le cinque (presunte) <<assurdità>> stilate da Giorgio Cesare Armato nel suo libro:

<<Cinque assurdità sull’idea di Dio. Pamphlet antiteologico per creazionisti dogmatici>>.

Egli _ in una pagina di Facebook _, ci assicura che <<pur essendo di parte, i 30 min. di lettura [del suo libro] secondo me saranno sorprendenti ;-)>>.

Preciso di non aver letto il libro, bensì soltanto il riassunto delle cinque critiche sull’idea di Dio reperito nel WEB.

Effettivamente, quelle cinque <<assurdità>> sono effettivamente <<sorprendenti>>, ma più per la loro fragilità che per l’effettiva cogenza che pretendono di esprimere.

Ne riporto una per volta, facendola seguire dal mio commento:

<<Prima. Alla domanda perché esiste qualcosa anziché il nulla, il creazionista risponde: perché l’ha creato Dio. Ma è una risposta “inutile” in quanto sposta ulteriormente la domanda: “Perché esiste Dio?”>>.

A parte il termine generico <<creazionista>> al quale Giorgio Cesare Armato (senza precisare CHI, QUALE creazionista) mette in bocca una risposta così puerile, v’è da dire che il presupposto (acritico) da cui muove la sua osservazione circa l’inutilità della suddetta risposta perché essa sposterebbe <<ulteriormente la domanda: “Perché esiste Dio?”>>, consiste nel collocare Dio sullo stesso piano degli enti circa i quali sogliamo chiedere: <<perché esiste qualcosa anziché il nulla>>.

Infatti, di ogni <<qualcosa>> ( = degli enti) ci chiediamo perché esista in quanto non ha in la possibilità di darsi l’esistenza, ossia perché è contraddittoria l’esistenza di ciò che partecipa dell’esistenza, non potendosela dare da sé.

È per ciò che la domanda chiede la ragione dell’esistenza di qualcosa anziché del nulla, e sempre per tale motivo la sua ragione deve coincidere con ciò circa il quale NON sia più possibile chiedere: <<“Perché esiste Dio?”>>, giacché, se lo consentisse, allora anche Dio sarebbe un ente contingente, cosicché dovremmo nuovamente metterci alla ricerca di ciò la cui essenza coincida con l’esistenza o con l’essere e che blocchi il regresso infinito della suddetta domanda.

Detto questo a mo’ di generica premessa, non entro adesso nel dettaglio circa il perché Dio non possa essere questionato come si questionano gli enti con la domanda: <<perché esiste qualcosa anziché il nulla>>, giacché Giorgio Cesare Armato non lo ha messo a tema nella sua critica surriportata, anche se dovrebbe esser facile capirlo…

----------

<<Seconda. Affermare che il mondo esiste perché creato da Dio significa ritenere essenziale, irrinunciabile, “il concetto di creazione”. Ma allora perché abbandonarlo proprio nel caso di Dio? Insomma: “Chi ha creato il creatore?”>>.

La risposta a questa domanda discende dalle premesse mostrate poc’anzi. 

----------

<<Terza. Dio si sarebbe rivelato a un solo popolo (gli ebrei, dal cui alveo è nato il cristianesimo) o al massimo anche a un secondo (gli islamici). Ma perché questa scelta “elitaria” e, per giunta, limitata nel tempo (la rivelazione ebraico-cristiana e la rivelazione islamica si sono fermate con la morte dei rispettivi profeti)?>>.

Non vedo in che senso Giorgio Cesare Armato possa considerare questa osservazione come se fosse una (delle cinque) <<assurdità>>.

Infatti, in essa non vi nulla di assurdo nel senso di contraddittorio/impossibile, bensì viene espressa soltanto una sua perplessità, comprensibile, certo, ma niente affatto un’assurdità.

Comunque, la scelta del popolo ebraico NON è stata di certo una <<scelta “elitaria>>, al contrario: essi sono << un popolo dalla dura cervice>> (Esodo 32:9);

e:

<<Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, 8 ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri>> (Deuteronomio 7:7).

----------

<<Quarta (“l’assurdità delle assurdità, una meta-assurdità”). A chi chiede la ragione, il motivo, il senso dei dogmi, “preti e teologi” rispondono: “C’è ma non lo sai”. E - aggiungono – tu, essere umano, non lo saprai mai perché, anche se ci fosse comunicato miracolosamente dall’Alto, non saremmo in grado di capirlo>>. 

Anche qui, mi spiace, ma NON vi è alcuna <<“l’assurdità delle assurdità, una meta-assurdità”>>;

al massimo, può risultare insoddisfacente (che non significa: assurdo) la risposta che, a dire di Giorgio Cesare Armato, <<“preti e teologi”>> avrebbero dato <<A chi chiede la ragione, il motivo, il senso dei dogmi>>.

Notare come egli resti sul generico, scrivendo: <<“preti e teologi”>>.

Ma QUALI <<“preti e teologi”>>?

CHI?

Troppo facile mettere in bocca ad un troppo generico <<“preti e teologi”>> ciò che Giorgio Cesare Armato vorrebbe far loro dire!

Personalmente, non ho mai ascoltato né letto una simile risposta da parte di persone minimamente avvedute ed edotte in materia, seppur non escluda che qualcuno possa aver così malamente replicato.

----------

<<Quinta. Per i creazionisti il mondo ha una causa, Dio, che a sua volta non ha nessuna causa (è “causa di se stesso”). Ma, per riprendere d’Holbach, “chi ha detto che l’universo debba essere per forza un effetto e non già una causa esso stesso? E’ esattamente questa la posizione dei più importanti cosmologi e fisici contemporanei: non cercano e non necessitano di alcuna causa al di là dell’universo stesso”>>.

Questa osservazione si riallaccia alla prima.

Innanzitutto, Dio _ almeno nel Cristianesimo _ NON è ritenuto <<“causa di se stesso”>> (con l’eccezione del filosofo Luigi Pareyson e della sua Scuola), giacché l’esser causa di sé si palesa come una contraddizione.

Poi, per quanto concerne la domanda di d’Holbach, la quale tradisce una notevole ingenuità, si può dire che se l’universo fosse <<una causa esso stesso>> anziché essere <<un effetto>>, dovremmo attribuire all’universo la pienezza e l’assolutezza dell’essere, cosa che però non risulta affatto, se è vero come è vero che abbia avuto un’origine e che sia sottoposto al divenire, il che significa che l’universo NON può essersi dato da sé, NON può essere <<una causa esso stesso>> perché, ripeterei, esser causa di sé presupporrebbe già la propria esistenza che contraddittoriamente si causa da sé, causa sé stessa…      

Inoltre, Giorgio Cesare Armato precisa che <<E’ esattamente questa la posizione dei più importanti cosmologi e fisici contemporanei: non cercano e non necessitano di alcuna causa al di là dell’universo stesso”>>.

Tuttavia, i <<cosmologi e fisici contemporanei>>, ammesso che sia vero che <<non cercano e non necessitano di alcuna causa al di là dell’universo stesso”>>, sarà almeno vero che tale causa la ricerchino allINTERNO <<dell’universo stesso”>>.

Senonché, spostare il problema dell’origine dell’universo INTERNAMENTE ad esso, non evita il ripresentarsi dell’aporia secondo la quale una qualsiasi causa INTERNA all’universo non può essersi data l’esistenza da sé…

----------

Spunta una sesta <<assurdità>>, oltre le cinque annunciate nel titolo del libro, eccola:

<<Sesta“E’ assurdo che nonostante queste cinque assurdità si continui a parlare di un dio creatore”: “prendere alla leggera l’ipotesi che dio sia un’invenzione è imperdonabile e, da un certo punto di vista, immorale. Poiché su quest’ipotesi “ – più precisamente: sull’ipotesi alternativa che non sia un’invenzione – “si è costruito tantissimo, si sono investite ogni sorta di energie e risorse, sia materiali che spirituali, spesso a scapito di realtà ben più concrete e urgenti”>>.

Come visto, è emerso chiaramente come nessuna delle <<cinque assurdità>> si sia rivelata tale, essendo esse, piuttosto, cinque blande osservazioni con intento critico ma che in realtà hanno finito per mostrare tutta la loro disarmante ingenuità.

Pertanto, NON direi che <<“E’ assurdo che nonostante queste cinque assurdità si continui a parlare di un dio creatore”>>,

bensì:

è assurdo che queste cinque presunte assurdità pretendano seriamente di tacitare/censurare ogni riferimento al Dio creatore.

Certamente l’autore Giorgio Cesare Armato si è impegnato, ma temo che il risultato conseguito sia ben al di sotto del minimo auspicabile, mostrando soltanto quanto sia ben lontano dall’aver presentato ciò che egli ha sperato fossero <<cinque assurdità>>…


Roberto Fiaschi

 ------------------------------------------

martedì 18 aprile 2023

50)- «IL CRISTIANESIMO TOSSICO»

Riporto in seguente interessantissimo articolo, tratto da: https://www.viandanti.org/website/il-cristianesimo-tossico/, di Giuseppe Florio.

<<Meglio essere cristiani senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo

(Ignazio d’Antiochia, + 108 d.C., martire).

Possiamo iniziare a considerare questo problema ingombrante di un “cristianesimo tossico” con le parole profetiche di un cattolico illustre: Giuseppe Dossetti. Ecco quanto ha affermato a Pordenone già nel 1994:

Non c’è un’età post-cristiana per chi ha fede. C’è un’età che ha un regime mutato, un regime globale – culturale, sociale, politico, giuridico, estetico – non ispirato al cristianesimo: cioè un’età non più di cristianità; questo sì, e di questo dobbiamo convenire. La cristianità è finita! E non dobbiamo pensare con nostalgia ad essa, e neppure dobbiamo ad ogni costo darci da fare per salvare qualche rottame della cristianità”.

Come spesso ricorda anche papa Francesco siamo in un cambiamento d’epoca (Evangelii Gaudium) e non possiamo evitare di chiederci con quale cristianesimo possiamo oggi continuare a credere. Ecco la grande sfida.

Una farsa inaccettabile

Allora, cosa sta accadendo in Italia, in Ungheria, in Russia, nel Brasile di Bolsonaro, nell’America di Trump? E la lista potrebbe allungarsi. Ecco solo alcuni esempi.

L’onorevole Matteo Salvini, il 24 febbraio 2018, alla chiusura della campagna elettorale in piazza Duomo a Milano, si è presentato sul palco agitando un vangelo. Chi sa cosa c’è scritto in quel ‘libretto’ non farebbe mai una cosa simile. Una vera farsa, inaccettabile.

L’onorevole Lorenzo Fontana il 23 febbraio 2019 ha affermato: “Però bisognerebbe anche guardare un po’ il catechismo. C’è un passaggio da tener conto: ‘ama il prossimo tuo’, cioè quello in tua prossimità. Quindi, prima di tutto cerchiamo di far star bene le nostre comunità”. Di quale catechismo stiamo parlando? Credo che se invece consultiamo i racconti dei Vangeli non saremo mai autorizzati a scrivere e urlare anche nelle piazze: prima gli italiani!

L’onorevole Lucio Malan il 27 novembre 2022, citando un versetto del Levitico (18,22), afferma: “l’omosessualità è un abominio”. Quindi… gli omosessuali sono abominevoli. Ma quel versetto del Levitico non è difficile porlo nel ‘contesto’ culturale di quando è stato scritto 2500 anni fa! Penso che i nostri onorevoli dovrebbero prima di tutto conoscere bene l’articolo 2 della nostra Costituzione! [1]

Il presidente Putin, l’anno scorso (non ricordo la data precisa), è andato nel più grande stadio di Mosca e ha avuto la sfacciataggine di citare un versetto del vangelo di Giovanni: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13). E queste parole le ha applicate ai soldati russi che combattono in Ucraina! È stata una ‘omelia’ incredibile. Ho letto con attenzione alcuni discorsi del patriarca Kirill di Mosca sulla guerra in Ucraina. C’è di che restare senza parole.

Siamo tornati ai tempi dell’imperatore Teodosio, morto nel 395 d.C., quando prevaleva ‘l’ideologia’ del Christus Triumphans: il Cristo ha vinto sugli dei dell’impero romano.

Un cristianesimo senza Vangelo

Torniamo alla domanda cruciale: con quale cristianesimo possiamo oggi continuare a credere?

Non sono pochi i paesi nei quali un certo populismo di destra sfrutta l’elemento religioso come il vero cemento culturale, come base identitaria della comunità nazionale. Vediamo il ritorno di una visione della religione formalista e culturalista, come fenomeno identitario e magari escludente. Anche sul piano politico vince e si afferma un semplicismo preoccupante nella realtà molto complessa del nostro mondo globalizzato.

E che dire dello slogan: Dio… Patria… Famiglia? Da più parti è stato giustamente affermato che quello slogan è una bestemmia.

Se parliamo di “Dio” intendiamo il Dio che ci ha trasmesso Gesù di Nazareth nei Vangeli? Gesù ha affermato una distinzione radicale: “Date a Cesare quel che è di Cesare ma date a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12, 17).

E la “Patria” sarebbe quell’anima sacra di un paese dai confini inviolabili? Già nel Deuteronomio, scritto 2500 anni fa, si fa affermare a Mosé che Dio: “ama il forestiero e gli dà pane e vestito” (Dt 10, 18).

E sulla “Famiglia” sarebbe più saggio tacere. Berlusconi, Salvini, Meloni, (che si professano cattolici!) non sono sposati, convivono. È questa la nuova famiglia di cui ha bisogno il nostro mondo segnato dalla cultura dell’incertezza?

Queste tre parole messe insieme generano solo confusione e anche turbamento e dobbiamo augurarci che non tornino più ad essere una proposta ideologica per governare un paese.

Allora, perché parliamo e puntiamo il dito verso questo cristianesimo tossico?

Perché è un cristianesimo senza Vangelo.

Come si manifesta del Regno di Dio?

Chi era Gesù di Nazareth? Come ha reso presente Dio? Non è stato un potente di questo mondo, non si è presentato come un maestro della Legge, non si è identificato con i giusti, non si è soffermato prima di tutto sull’universalismo della colpa e del peccato.

Ha con insistenza annunciato che il “Regno di Dio” era già presente. E come lo ha manifestato? Con la sua umanità. Ha ascoltato il grido dei poveri, dei malati, delle vittime.

Nella sua ‘compassione’ non ci ha indicato solo una scelta di vita ma ha reso presente Dio, l’inaccessibile. Ci ha mostrato chi è Dio. Per questo si è identificato con gli affamati, assetati, stranieri, malati, nudi, carcerati: “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me” (Mt 25, 40).

Ha aperto la via ad una fraternità veramente universale. Quindi, Dio ‘regna’, quando noi, i discepoli, cerchiamo di guarire creativamente questo mondo malato, quando viviamo e affermiamo il primato della compassione. Ecco il volto storico e sociale di un cristiano.

Rifiutare decisamente le “tossine”

A partire dal Vangelo le ‘tossine’ di certi cristiani appaiono evidenti. Ed è evidente che coloro che non si sono sintonizzati con il Regno di Gesù sono sintonizzati con se stessi e magari con i loro progetti per il potere. Il discepolo o è in sintonia con il Cristo o strumentalizza la ‘religione’ che gli serve. Abbiamo alle spalle abbastanza storia per affermare che solo la compassione fa progredire l’umanità. Che senza l’etica dell’altruismo manca la base di una vera e propria civiltà.

Per quanto la cristianità sia finita siamo chiamati a credere nel Vangelo di Gesù. A identificarci con lui. È lui stesso “Vangelo”; per noi determinante. Ecco il fuoco che manterrà viva e forte la fede delle minoranze che segneranno il futuro del Cristianesimo. E queste minoranze sanno bene che Gesù non è stato il Re della Gloria… ma ha scelto di non scendere dalla croce per convincere chi lo insultava miseramente.

Gesù si è così identificato con il dolore di tutte le vittime innocenti, crudelmente sacrificate nel più drammatico anonimato. I cristiani, al seguito di Gesù, sono chiamati ad avere gli occhi ben aperti per guardare in faccia l’ingiustizia e l’assurdità della sofferenza innocente. Ecco il volto della loro ‘mistica’.

Sì, dobbiamo rifiutare decisamente certe ‘tossine’ presuntuose e narcisistiche e non preoccuparci di salvare i rottami della cristianità.

“Il cristiano di domani o sarà un ‘mistico’, uno che ha ‘sperimentato’ qualcosa, o non sarà”. (Karl Rahner)

Giuseppe Florio, Teologo-biblista
abramo1942@gmail.com

Note – – – – –


[1] Articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

[Pubblicato il 12.4.2023]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: infoans.org]>>.

--------------------------------------------------------

lunedì 17 aprile 2023

49)- CONTRADDITTORIETÀ DEL DIVENIRE DEGLI ETERNI


Proseguo il discorso affrontato nel post n°
42, volto a mostrare come nemmeno il divenire severiniano degli eterni _ anzi, soprattutto esso _ riesca a prescindere dalla cosiddetta nichilistica TRASFORMAZIONE di un ente in altro da sé, non riuscendo, perciò, ad evitare una sia pur minima nientificazione / trasformazione-in-altro-da-sé da parte dell’ente nel suo divenire.

Nella filosofia di Emanuele Severino, ogni ente (x), essendo eterno, è (esiste) anche quando non appare ancora, cioè anche quando non è ancora presente.

Non esser ancora presente vuol dire che x è ancora futuro.

Come detto, secondo Severino l’ente (qualsiasi ente), non può mai TRASFORMARSI in altro-da-sé.

Per cui neppure x-futuro potrà mai diventare (trasformarsi in) x-presente, né x-presente è mai stato x-futuro.

Stante che, sempre secondo il filosofo bresciano, x-presente è già da sempre esistente pur non apparendo ancora come x-presente, così come x-futuro mai cesserà di esser x-futuro, nemmeno quando x sarà presente.

Tale non-apparire-ancora ( = il non esser presente) di x-presente è il suo essere ancora futuro.

Il futuro, perciò, è l’incominciare ad apparire (ad esser presente) di ciò che eternamente è un presente, ossia è l’incominciare ad apparire del NON ESSERE ANCORA PRESENTE (DEL NON APPARIRE ANCORA) DI CIÒ (DI X) CHE ETERNAMENTE È X-PRESENTE, PUR NON APPARENDO ATTUALMENTE COME PRESENTE IN QUANTO ANCORA FUTURO.

In forza della (presunta) impossibilità che un ente si trasformi nel proprio altro, qui mi intrattengo sui punti (2) e (3) che ho indicato (vedi) nel post n° 42 e che, secondo l’ottica eternista severiniana, li ho formulati così:

(2) l’ente x-presente, mai è stato quell’altro da sé cui è l’ente x-futuro,

giacché, se lo fosse stato, avrebbe comportato, per x-presente, di esser precedentemente stato quell’altro da sé cui è x-futuro, contravvenendo perciò al dettato dell’ontologia severiniana.

(3) x-futuro mai diverrà quell’altro da sé cui è x-presente,

giacché, se lo divenisse, comporterebbe che x-futuro divenga contraddittoriamente quell’altro da sé cui è x-presente, cessando così di essere x-futuro, cosicché x-presente sarebbe stato il risultato di una trasformazione, contravvenendo nuovamente al dettato dell’ontologia severiniana.

Ognuno di essi è da sempre e sempre resterà nella propria immutabile/eterna posizione/identità di x-presente e di x-futuro.

******

Dunque x-presente, che è sempre stato identico a sé cioè è sempre stato x-presente pur non apparendo ancora come presente, per non costituirsi come il risultato di una TRASFORMAZIONE (di un DIVENIRE) da futuro a presente, deve potersi dire presente _ allorché sia fattosi presente _ senza MUTARE la propria identità da futura a presente.

Giacché è evidente: x-presente non appare da sempre COME presente, perché ha cominciato ad essere presente soltanto da un certo momento in poi, sì che, prima che cominciasse ad esser presente, esso fosse ancora futuro.

Schema riassuntivo

(A1) x-futuro:

è l’incominciare ad apparire di ciò (di x-presente) che eternamente è un presente nel cerchio dell’apparire, pur non apparendovi ancora come presente poiché è ancora futuro;

(B1) x-presente:

è l’esser presente di x-presente nel suo esser sempre stato, eternamente un presente;

(C1) x-passato:

è <<l’incominciare ad apparire di ciò che eternamente è un passato e che permane nel presente>>. (E. Severino: Oltrepassare. Adelphi, pag. 340).

 

CRITICA


Domandiamoci:

(A2) COSA NE È di x-futuro cioè del suo non essere ancora apparso ( = del suo non esser ancora presente) ADESSO che (o UNA VOLTA che) x è finalmente presente?

(B2) COSA NE È di x-presente allorquando appare soltanto (è presente soltanto) x-futuro?

(C2) Per x-passato, vedasi post n° 42.

Infatti, UNA VOLTA che x sia apparso nel cerchio dell’apparire finito e sia, perciò, indicabile come x-presente, x-futuro cioè il non essere ancora apparso come ciò che è da sempre x-presente, non può restare immutabilmente x-futuro, altrimenti x-presente non sarebbe sopraggiunto (non sarebbe presente), visto che, per poter essere sopraggiunto come presente, esso deve esser prima stato x-futuro.

L’esser adesso presente da parte di x, comporta che x-futuro sia ormai un passato, appunto perché x-presente è sopraggiunto su x-futuro, rendendo quest’ultimo un passato.

Rendere x-futuro un passato, vuol dire che x-futuro, essendo ormai passato, sia altresì designabile _ secondo la descrizione di Severino _ come

<<l’incominciare ad apparire di ciò che eternamente è un passato e che permane nel presente>> (vedi post n° 42).

Cioè:

x-futuro, che è, ripetiamo, l’incominciare ad apparire di ciò (di x-presente) che eternamente è un presente nel cerchio dell’apparire, pur non apparendovi ancora come presente poiché è ancora futuro, è altresì (contro Severino) l’incominciare ad apparire di ciò che eternamente è un passato e che permane nel presente!

L’eterno ed immutabile x-futuro è anche eternamente ed immutabilmente x-passato, giacché, nel sopraggiungere di x-presente, ad x-futuro non rimane altro che DIVENIRE un passato, visto che, se restasse nell’eterna posizione di x-futuro, allora, sopraggiungendo x-presente e restando x-futuro eternamente nella sua posizione di x-futuro, avremmo la completa INSENSATEZZA della posizione di x-futuro, proprio perché x-presente sarebbe presente senza che x-futuro cessi di esser tale per poter divenire presente.

In tal caso, x-presente non è mai stato futuro, perché se x-presente sopraggiunge senza che x-futuro DIVENGA x-presente, allora ciò vuol dire che x-presente NON È MAI sopraggiunto ossia NON È MAI stato futuro!

Per poter essere stato futuro e POI presente, x-presente DEVE esser STATO quell’altro da sé cui è x-futuro, e x-futuro DEVE esser DIVENUTO quell’altro da sé cui è x-presente.

L’incominciare ad apparire da parte di x-presente non può non comportare una TRASFORMAZIONE (in altro da sé) da x-futuro a x-presente, perché anche se Severino ritiene che x-presente rimanga sempre immutabilmente identico a sé ( = x-presente) anche quando non appare (anche quando non è presente), ciò non toglie che x-presente sia ancora futuro, ossia che x-presente, rispetto al presente in relazione al quale x-(che è da sempre un)-presente, non è ancora presente, è ancora un futuro. 

Cosicché, x-presente, che appare come ancora x-futuro, DEVE esser LO STESSO IDENTICO (altro da sé cui è) x-futuro che apparirà (che sarà presente) come x-presente, altrimenti x-presente non comincerebbe ad esser o ad apparire tale poiché lo sarebbe da sempre (presente), sì che il suo incominciare ad apparire come presente sia il suo esser stato futuro.

Si obietterà che l’esser da sempre presente da parte di x-presente, appare proprio con l’incominciare ad apparire di x-presente cioè con l’incominciare ad apparire del suo (di x-presente) essere da sempre stato x-presente.

Senonché vi è un momento in cui questo esser da sempre presente da parte di x-presente non è ancora presente, proprio perché non ha incominciato ad apparire come tale, essendo infatti ancora futuro.

Concludendo:

x-presente non è mai stato quell’altro da sé cui è x-futuro ( questi è mai DIVENUTO quell’altro da sé cui è x-presente) è mai stato quell’altro da sé cui è x-passato ( questi è mai stato x-presente),

ED AL CONTEMPO/INSIEME

x-presente è stato quell’altro da sé cui è x-futuro (e quest’ultimo è DIVENUTO quell’altro da sé cui è x-presente), ed è DIVENUTO quell’altro da sé cui è x-passato (e quest’ultimo è stato x-presente)!

Insomma, il divenire degli eterni è MASSIMAMENTE CONTRADDITTORIO, molto più radicalmente del cosiddetto divenire nichilistico, proprio per la (presunta) impossibilità della TRASFORMAZIONE in altro.

 

Roberto Fiaschi

-------------------------------------------------