domenica 24 settembre 2023

96)- L’INESISTENTE TESTIMONE DEL DESTINO DELLA VERITÀ


Dal gruppo Officina di filosofia teoretica, riporto un’affermazione scritta da Alessandro Vaglia:

<<un uomo non può essere detentore della verità perché

o l'uomo è la verità e allora "la verità è la verità" non è la verità

o un uomo non può essere la verità. E questo per tutti gli uomini. [Etc…]>>.

Perfetto.

Adesso riporto quest’altra, recentissima, sempre scritta da lui:

<<ormai io sono testimone del destino della verità>>.

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Quindi:

(A)- o Alessandro Vaglia <<è la verità e allora "la verità è la verità" non è la verità>>,

(B)- oppure Alessandro Vaglia <<non può essere la verità>>.

Nel caso (B), egli è un ERRORE e come tale NON PUÒ TESTIMONIARE il <<destino della verità>>, altrimenti sarebbe <<la verità>>, come indicato al punto (A).

Nel caso (A), Alessandro Vaglia <<è la verità>>;

ma se fosse così, egli si SMENTIREBBE da sé, giacché, scrivendo che <<allora "la verità è la verità" non è la verità>>, sta dicendo che la verità ( = "la verità è la verità") della quale intende dare testimonianza NON è la verità (appunto perché la verità sarebbe Alessandro Vaglia e non "la verità è la verità"), per cui, anche qui, egli si ritroverebbe catapultato al punto (B):

Alessandro Vaglia <<non può essere la verità>>.

Dunque, se è vero che <<un uomo non può essere detentore della verità>> e quindi se è vero che Alessandro Vaglia <<non può essere la verità>>,

allora NON è vero che Alessandro Vaglia sia <<testimone del destino della verità>>,

perché, se egli lo fosse,

sarebbe FALSO che <<un uomo non [possa] essere detentore della verità>>.

Ed infatti dovrebbe esser FALSO, giacché egli si è proclamato <<testimone del destino della verità>>, ed in virtù del LEGAME che unisce la verità a colui che la conosce e che perciò se ne fa testimone, allora bisognerà concludere affermando che Alessandro Vaglia <<è la verità>> (almeno per quel tanto di verità che egli possiede _ a livello conoscitivo _ al fine di poterla testimoniare, ché, se non la possedesse affatto _ se non la conoscesse affatto _, non potrebbe assolutamente testimoniarla).

Ma così, gli accade quanto visto al punto (A), cioè che <<allora "la verità è la verità" non è la verità>>.

Insomma, comunque la si voglia rigirare, Alessandro Vaglia (come qualsiasi altro individuo) NON può essere <<testimone del destino della verità>> perché, in quanto è uomo, <<non può essere detentore della verità>>.

 

Roberto Fiaschi

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venerdì 15 settembre 2023

95)- ANGELO SANTINI E L’APORETICA SINTESI IDENTITÀ-DIFFERENZA

In relazione al mio post n° 94, Angelo Santini ( = AS) osserva quanto segue:

<<Roberto Fiaschi ti ringrazio per la cortese risposta. Ho letto il post, anche se dalla mia risposta può sembrare mi sia limitato a ribadire ciò che hai messo in discussione. I due significati del plesso trascendentale in questione non passano l'uno all'altro solo perché nel loro campo semantico ognuno implica necessariamente l'altro. Anche nel plesso trascendentale il rapporto tra i due semantemi NON É ASTRATTO E NON PUÒ ESSERE ASTRATTO, ma é il rapporto CONCRETO tra il coincidere dell'essente-significato "identità" con l'essente-significato "differenza", sicché in questo rapporto concreto (che, ripeto, riguarda anche il plesso trascendentale in questione) l'identità X differisce dalla differenza Y in quanto X coincide con X e non con Y e viceversa. Pertanto X non è identità (identica a sé) nello stesso senso in cui é differenza (non è identica a Y). L'essere coincidente con sé da parte dell'identità X non coincide con il suo differire dalla differenza rispetto ad altro e peraltro, proprio perché il rapporto tra X e Y è concreto, é impossibile che possa valere anche nel caso esistessero solo i due semantemi del plesso considerato: in tal caso il semantema "differenza" non potrebbe aversi perché al di fuori dell'identità della sintesi tra X e Y (che è la loro posizione concreta) non vi sarebbe niente rispetto a cui essere distinta, sicché non avendo la sintesi in questione niente rispetto a cui differire non sarebbe posto nemmeno a livello trascendentale il semantema "differenza", perché la differenza è sempre relazione tra una certa identità ed un'altra (motivo per cui se esistesse solo la sintesi S, che è l'identità concreta di X e Y), tale per cui senza relazione non vi sarebbe differenza e senza differenza nemmeno l'identità. Con ciò é DIMOSTRATO che le apparenti aporie sono determinate dal considerare astrattamente il plesso trascendentale dei due semantemi dal loro rapporto concreto con gli altri essenti-significati (e in generale con la totalità infinita degli essenti), isolandolo da ciò: così isolato, considerato astrattamente, la differenza tra X e Y non significa niente perché lo stesso Y vale per S, innanzitutto, rispetto al quale non essendovi niente non vi sarebbe la differenza di S (che è X nella sua forma concreta) rispetto a niente, e quindi anche nel rapporto considerato astrattamente tra X e Y, la differenza Y non sarebbe posta e nemmeno la differenza tra X e Y>>.

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AS comincia la sua replica osservando che

<<I due significati del plesso trascendentale in questione non passano l'uno all'altro solo perché nel loro campo semantico ognuno implica necessariamente l'altro>>.

Certamente <<ognuno implica necessariamente l'altro>>, ed infatti è proprio grazie a questa implicazione che i due significati di IDENTITÀ e DIFFERENZA, così in sintesi, scatenano (originariamente, non ad un certo punto) la contraddizione.

Ma proseguiamo, ove AS precisa:

<<Anche nel plesso trascendentale il rapporto tra i due semantemi NON É ASTRATTO E NON PUÒ ESSERE ASTRATTO, ma é il rapporto CONCRETO tra il coincidere dell'essente-significato "identità" con l'essente-significato "differenza">>.

Esattamente, per cui pare un dato ACQUISITO, anche da parte di AS, come <<Anche nel plesso trascendentale il rapporto tra i due semantemi NON É ASTRATTO>>, come ho anch’io ribadito diverse volte.

Dunque dovrò aspettarmi, nel prosieguo della sua risposta, di NON trovarmi dinanzi all’accusa di aver ISOLATO/ASTRATTO l’un termine dall’altro.

Bene.

Ancora AS:

<<sicché in questo rapporto concreto (che, ripeto, riguarda anche il plesso trascendentale in questione) l'identità X differisce dalla differenza Y in quanto X coincide con X e non con Y e viceversa>>.

Indubbiamente <<l'identità X differisce dalla differenza Y>>.

Quindi aggiunge AS:

<<Pertanto X non è identità (identica a sé) nello stesso senso in cui é differenza (non è identica a Y)>>,

per la RAGIONE in base alla quale _ sempre secondo AS _, <<L'essere coincidente con sé da parte dell'identità X non coincide con il suo differire dalla differenza rispetto ad altro>>.

Ma che <<L'essere coincidente con sé da parte dell'identità X non coincida con il suo differire dalla differenza rispetto ad altro>>,

NON può rappresentare la RAGIONE o la SPIEGAZIONE per la quale

<<X non è identità (identica a sé) nello stesso senso in cui é differenza (non è identica a Y)>>,

infatti NON trovo scritto dove risieda tale RAGIONE, cioè il PERCHÉ

<<X non è identità (identica a sé) nello stesso senso in cui é differenza (non è identica a Y)>>.

Ma comunque, soffermiamoci su questo punto.

AS riconosce che <<l'identità X differisce dalla differenza Y in quanto X coincide con X e non con Y e viceversa>>.

Ora, quel <<differisce dalla differenza Y>>, è un <<differisce>> che spetta soltanto al significato <<differenza>>, e non può essere addossato al significato <<identità>>, appunto perché quest’ultimo NON significa NÉ PUÒ MAI significare differenza.

Cosa succede, dunque?

Che proprio nel riconoscimento che <<l'identità X differisce dalla differenza Y in quanto X coincide con X e non con Y e viceversa>>, riconosciamo che l’identità X si ritrova al contempo e contraddittoriamente a coincidere con la differenza Y, perché tale SUO _ dell’identità X _ differire, dice già il suo esser differenza Y, appunto perché, differendo, assume (o è) in sé quel significato che invece spetterebbe di significare SOLTANTO a quell’altro da sé (dall’identità X) che è la differenza Y.

Ciò è innegabile, perché se l’identità X NON differisse dalla differenza Y, sarebbero INDISTINGUIBILI.

Ma ecco che l’APORIA si ripresenta ANCHE nel loro innegabile distinguersi, giacché è proprio distinguendosi, che l’identità X È altresì la differenza Y, ossia proprio in relazione all’altro da sé ( = alla differenza Y), anzi: RISPETTO all’altro da sé.

Giacché l'identità X, differendo RISPETTO alla differenza Y, è ESSA STESSA LA differenza Y.

Ossia l'identità X è al contempo (anche) la differenza Y in virtù del suo _ dell’identità X _ differire RISPETTO all’altro da sé cui è la differenza Y.

Per cui, nel caso del plesso identità-differenza, l’aristotelica faccenda dei RISPETTI (a sé e all’altro da sé) NON PUÒ FUNZIONARE, proprio in virtù del carattere singolarissimo o meglio: irreparabilmente APORETICO dei nostri due termini in questione.

Quindi, sostenendo AS che  

<<l'identità X differisce dalla differenza Y in quanto X coincide con X e non con Y e viceversa>>,

ci ritroviamo ad ammettere che quel <<differisce>>, indica GIÀ (o è GIÀ, originariamente) l’esser differenza Y DA PARTE DELL’identità X.

Prosegue AS:

<<e peraltro, proprio perché il rapporto tra X e Y è concreto, é impossibile che possa valere anche nel caso esistessero solo i due semantemi del plesso considerato: in tal caso il semantema "differenza" non potrebbe aversi perché al di fuori dell'identità della sintesi tra X e Y (che è la loro posizione concreta) non vi sarebbe niente rispetto a cui essere distinta, sicché non avendo la sintesi in questione niente rispetto a cui differire non sarebbe posto nemmeno a livello trascendentale il semantema "differenza", perché la differenza è sempre relazione tra una certa identità ed un'altra (motivo per cui se esistesse solo la sintesi S, che è l'identità concreta di X e Y), tale per cui senza relazione non vi sarebbe differenza e senza differenza nemmeno l'identità>>.

Senonché, quell’altro che AS cerca <<al di fuori dell'identità della sintesi tra X e Y>> affinché <<il semantema "differenza>> possa darsi/aversi/esserci, È GIÀ INCLUSO nel <<rapporto tra X e Y>> il quale è rapporto CONCRETO, come ben precisa AS, proprio perché il semantema "differenza si distingue dal semantema identità.

Come ho scritto nel mio post precedente, è vero che tale sintesi NON può avere alcunché FUORI/OLTRE SÉ, cioè FUORI/OLTRE SÉ non può esservi alcun DIFFERENTE rispetto a detta sintesi, ed infatti essa è una sintesi APORETICA.

E ciò accade perché quella DIFFERENZA che si cerca FUORI/OLTRE la nostra sintesi, è GIÀ TUTTA INTERNA ad essa, per cui il significato di DIFFERENZA è già posto ab origine, visto che non vi possono esser DIFFERENTI significati del significato DIFFERENZA: significherebbero tutti il medesimo: DIFFERENZA.

Poiché <<la differenza è sempre relazione tra una certa identità ed un'altra>>, la sintesi identità-differenza è IN SÉ siffatta <<relazione tra una certa identità [= l’identità] ed un'altra [ = la differenza]>>, cosicché essa (la sintesi) NON lasci alcunché FUORI/OLTRE SÉ, essendo tutto in essa INCLUSO.  

E se AS critica questa configurazione della sintesi, allora dovrà criticare anche la concezione severiniana della TOTALITÀ al di fuori della quale nulla vi è, perché così come <<al di fuori dell'identità della sintesi tra X e Y (che è la loro posizione concreta) non vi sarebbe niente rispetto a cui essere distinta>>, parimenti, <<al di fuori>> della TOTALITÀ severiniana <<non vi sarebbe niente rispetto a cui essere distinta>>, sì che, seguendo le stesse conclusioni di AS, dovremmo concludere che tale TOTALITÀ sia impossibilitata a essere.

Infine, scrive AS:

<<Con ciò é DIMOSTRATO che le apparenti aporie sono determinate dal considerare astrattamente il plesso trascendentale dei due semantemi dal loro rapporto concreto con gli altri essenti-significati (e in generale con la totalità infinita degli essenti), isolandolo da ciò: così isolato, considerato astrattamente, la differenza tra X e Y non significa niente […]>>.

Penso invece di aver mostrato come tali APORIE non siano affatto APPARENTI bensì SOLIDE, CONCRETE, INELUDIBILI, addirittura ORIGINARIE, giacché esse NON sono

<<determinate dal considerare astrattamente il plesso trascendentale dei due semantemi dal loro rapporto concreto con gli altri essenti-significati (e in generale con la totalità infinita degli essenti), isolandolo da ciò: così isolato, considerato astrattamente>>,

in quanto è stato lo stesso AS a RIBADIRE PIÙ VOLTE che

<<Anche nel plesso trascendentale il rapporto tra i due semantemi NON É ASTRATTO E NON PUÒ ESSERE ASTRATTO, ma é il rapporto CONCRETO tra il coincidere dell'essente-significato "identità" con l'essente-significato "differenza">>.

 

Roberto Fiaschi

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giovedì 14 settembre 2023

94)- MARCO CANZIANI: «APPARENTE» APORIA DEL RAPPORTO IDENTITÀ-DIFFERENZA?

Nel canale Youtube: https://www.youtube.com/watch?v=1Uv_rMiAHYg è possibile ascoltare un video intitolato «L'APPARENTE APORIA DELL'IDENTITÀ E DELLA DIFFERENZA (L'ONTOLOGIA DI EMANUELE SEVERINO). GLI SCHERZI DELL'INTELLETTO ASTRATTO».

In esso Marco CANZIANI afferma quanto segue:

<<L’intelletto astratto dice che l’identità, non essendo la differenza, è già in sé stessa differenza; e la differenza, essendo identica a sé, è già in sé identità. La differenza è identità e l’identità è differenza, e da questa aporia dell’intelletto astratto ne deduce che sia l’identità che la differenza sono un che di contraddittorio. Questa aporia è solo apparente, ed è determinata, ben appunto, dall’intelletto astratto. Quell’essente che è, ad esempio, questo tavolo, è sintesi di forma e contenuto, cioè è sintesi di persintassi e iposintassi. Detto altrimenti; l’essente, nello specifico questo tavolo, è sintesi di essere formale e di quelle caratteristiche particolari che lo determinano come tavolo, e quindi come differente da questa sedia. La persintassi è ciò che mi permette di dire che, sia la sedia che il tavolo, così come tutti gli altri essenti qui presenti, sono tutte determinazioni dell’essere. Sotto il rispetto della persintassi, cioè in quanto alla forma, tavolo e sedia sono identici, così come sono identici tutti gli essenti qui presenti. Sotto il rispetto dell’iposintassi, cioè in quanto al contenuto, invece, sono diversi, sono dei differenti. È in virtù delle loro caratteristiche specifiche che posso dire che la sedia non è il tavolo, ossia che sono differenti. La persintassi, senza l’iposintassi, non esiste, e lo stesso vale per l’iposintassi: l’iposintassi senza la persintassi non esiste. Come non esiste una forma che non abbia un contenuto, così non esiste un contenuto che non abbia una forma. […] Identità e differenza sono due determinazioni persintattiche, e in quanto tali non esistono indipendentemente dal contenuto iposintattico. L’identità è sempre identità di un qualcosa con sé stesso e la differenza è sempre la differenza di un qualcosa dal proprio altro. L’essente, che è sintesi di forma e contenuto, cioè di persintassi ed iposintassi, è identico e differente, ma ben appunto, è identico a sé, differente lo è solo dal proprio altro. L’essente non è differente da sé e identico al proprio altro. L’intelletto astratto potrebbe ribadire dicendo che ciò a cui esso si riferisce non sono l’identità in quanto è l’identità del tavolo, e la differenza in quanto è la differenza del tavolo dalla sedia, ma è l’identità in quanto identità, cioè in quanto essente persintattico. È l’identità in quanto essente persintattico a non essere quell’altro essente persintattico che è la differenza, perché l’essente persintattico-identità non è l’essente persintattico-differenza, e l’essente persintattico-differenza è sé stesso e non è altro da sé. L’identità e la differenza sono, come appena detto, due essenti persintattici, costituiscono la forma. Parlare dunque di identità e di differenza in sé stesse e di per sé stesse, cioè parlare di identità e di differenza pure, indipendentemente dall’iposintassi cioè indipendentemente dal contenuto di cui sono la forma, equivale a parlare di forma pura senza un contenuto, è come parlare di essere formale senza determinazioni, cioè significa parlare di nulla, ossia parlare di qualcosa che non esiste. Non si possono prendere in considerazione due determinazioni persintattiche in sé e di per sé, come se esistessero separatamente dall’iposintassi. La forma è sempre solo forma di un contenuto. Detto altrimenti, la persintassi esiste solo in quanto è in sintesi con l’iposintassi. Non si possono paragonare tra di loro due essenti persintattici come se si trattasse di questa sedia e di questo tavolo. Paragonare l’identità in sé e di per sé alla differenza in sé e di per sé, significa paragonare due cose che non esistono. La differenza pura, e l’identità pura, sono come il puro essere o la pura forma: non ci sono; e l’essente nella sua concreta sintesi di persintassi ed iposintassi è identico a sé e diverso, ma diverso non da sé, bensì dal proprio altro. L’essente è identico-diverso sotto due rispetti diversi>>.

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Bene.

L’APORIA qui in oggetto concerne il binomio semantico costituito dall’IDENTITÀ-DIFFERENZA, la cui contraddittorietà è data dall’innegabile DISTINZIONE dei significati IDENTITÀ-DIFFERENZA e dalla contemporanea ed altrettanto innegabile INDISTINZIONE degli stessi.

Diciamo subito che, nonostante le precisazioni di Marco CANZIANI, NON CAMBIA NULLA ai fini della suddetta APORIA.

Infatti, caliamoci nel piano iposintattico, come vuole Marco CANZIANI.

Qui vediamo che l’IDENTITÀ-tavolo DIFFERISCE da ogni altro DIFFER-ente, esattamente come l’IDENTITÀ, nel PLESSO persintattico IDENTITÀ-DIFFERENZA (vedasi più sotto), DIFFERISCE dalla DIFFERENZA.

Quindi, così DIFFERENDO, l’IDENTITÀ È IN-UNO DIFFERENZA, esattamente come nel piano ontico-iposintattico, l’IDENTITÀ-tavolo, DIFFERENDO dall’IDENTITÀ-albero, È IN-UNO un’IDENTITÀ-DIFFERENZA.

Nemmeno i RISPETTI ( = RISPETTO a sé e RISPETTO all’altro da sé) evocati da Marco CANZIANI riescono a togliere l’APORETICITÀ del rapporto IDENTITÀ-DIFFERENZA, come vedremo.

Ma analizziamo più da vicino e con ordine la questione.

La contraddittoria relazione dell’IDENTITÀ-DIFFERENZA non nasce da una considerazione ASTRATTA o PURA dei due significati, cioè <<come se esistessero SEPARATAMENTE dall’iposintassi>>, che peraltro nessuno ha mai sostenuto.

Invece, il punto centrale consiste nel vedere COME l’IDENTITÀ e la DIFFERENZA si manifestino realmente <<in sé stesse e di per sé stesse>>, giacché è sul fondamento del loro significare che ogni/qualsiasi iposintassi è ciò che appare essere.

Infatti, se IGNORIAMO questo passaggio, NON possiamo, POI, leggere l’iposintassi alla luce di quei due significati, e neppure possiamo capire la DIFFERENZA tra persintassi ed iposintassi o la DIFFERENZA tra forma e contenuto la differenza tra essere ed ente, se appunto PRIMA non viene chiarito il comportamento semantico dell’IDENTITÀ e della DIFFERENZA nel loro costituirsi come unitario quanto universale plesso ontologico, in quanto esso TUTTO informa di sé.

Esso potrebbe ben essere definito una IPER-ipersintassi, giacché rispetto a tutte le altre persintassi, il plesso-IDENTITÀ-DIFFERENZA è lo stesso ESSERE considerato quale universale concreto, includente cioè le determinazioni, gli enti.

Non a caso l’APORETICITÀ del nostro plesso EQUIVALE all’APORETICITÀ del rapporto ESSERE-DETERMINAZIONE (vedasi i post  nn. 86, 90, 92 e 93), o persintassi-iposintassi nonché dell’essere-nulla.

Infatti, dire ESSERE è dire una sorta di brachilogia dell’IDENTITÀ-DIFFERENZA.

Pertanto è imprescindibile considerare l’IDENTITÀ e la DIFFERENZA DISTINTAMENTE (che non vuol dire affatto SEPARATAMENTE!) dall’iposintassi, esattamente come è necessario considerare DISTINTAMENTE l’essere dalla determinazione, la forma dal contenuto e l’essere dal nulla.

Se così non procedessimo, non potremmo mai comprendere in virtù di CHE COSA si DISTINGUANO (e quindi CHE COSA significhino) la persintassi dall’iposintassi, la forma dal contenuto, l’essere dall’ente e l’essere dal nulla.

Invece, constato che Marco CANZIANI possa affermare ciò che ha detto nel suo video (intelletto astratto, separazione dei termini, sintesi, etc…), soltanto perché i due significati di IDENTITÀ e DIFFERENZA sono da lui GIÀ DATI PER SCONTATI ed utilizzati come tali, cioè SENZA AVERLI PRIMA ANALIZZATI nel loro intrinseco valore semantico.

D’altronde, l’IDENTITÀ e la DIFFERENZA possono informare di sé tutte le altre SINTESI (persintassi-iposintassi, forma-contenuto essere-determinazione, etc…), soltanto se l’IDENTITÀ e la DIFFERENZA sono esse stesse già una SINTESI semantica CONCRETA operante sempre ed ovunque, dove per CONCRETA s’intende che nessuno dei due significati è considerato isolatamente cioè prescindendo dall’altro.

In caso contrario, il PLESSO IDENTITÀ-DIFFERENZA non potrebbe mai fungere da presupposto necessario alla DISTINZIONE vigente tra persintassi e iposintassi, o tra forma e contenuto o tra l’essere e la determinazione, il quale plesso, pertanto, è già attivamente implicato a monte di OGNI considerazione.

Perciò, affermare che

<<Paragonare l’identità in sé e di per sé alla differenza in sé e di per sé, significa paragonare due cose che non esistono. La differenza pura, e l’identità pura, sono come il puro essere o la pura forma: non ci sono>>,

è SBAGLIATO, giacché equivale a NON DISTINGUERE l’IDENTITÀ dalla DIFFERENZA, dato questi due significati ESISTONO in quanto significati e non come <<due cose che non esistono>>, quindi affermare quanto sopra equivale a PERDERLI, poiché viene PERDUTA la loro DISTINZIONE e quindi il loro stesso determinarsi/significare.

Ed è altresì SBAGLIATO perché <<il puro essere o la pura forma>> ESISTONO NON separatamente l’uno dall’altro bensì, ripeto, DISTINTAMENTE.

Il nostro plesso NON ESISTE NEL MODO in cui esiste un tavolo o un albero, perché la sua esistenza consiste nell’INCARNARSI in (o come) ogni tavolo, in ogni albero, etc…, ma, proprio per questo e quindi DEL TUTTO APORETICAMENTE, esso ESISTE (anche) COME tavolo, COME albero etc…, giacché OGNI iposintassi, ogni sia pur esigua o evanescente parte di qualsiasi ente, altro non è che la manifestazione empirica (senza residui ‘neutrali’, diciamo così) della medesima sintesi trascendentale di IDENTITÀ-DIFFERENZA.

Quindi, sempre secondo la teoresi severiniana, il plesso in oggetto è da considerarsi comunque come un’IDENTITÀ CON SÉ, consistente appunto nell’esser QUEL preciso plesso onnipresente ( = significante) IN o COME TUTTO.

Senonché _ ed ecco un’altra APORIA _, esso è una persintattica IDENTITÀ-DI-DIFFERENTI, anzi, di OPPOSTI.

Perché OPPOSTI?

Per capirlo, basta prendere la proposizione:

(1)- l’IDENTITÀ-CON-SÉ e DIFFERENZA-DAL-PROPRIO-ALTRO ( = l’essere),

trasformandola ne:

(2)- l’IDENTITÀ-CON-L’ALTRO e DIFFERENZA-DA-SÉ ( = il nulla).

Per Severino, la (2) rappresenta la quintessenza dell’ASSURDO, dell’IMPOSSIBILE, mentre la (1) indica la stessa INCONTRADDITTORIETÀ.

È quindi evidente la ragione che fa dell’IDENTITÀ e della DIFFERENZA due OPPOSTI.

Nella proposizione (2), i due termini non hanno mutato significato rispetto alla (1), ma è chiaro che se l’ente-X è DIFFERENTE-DA-SÉ, allora esso è OPPOSTO-A-SÉ.

Infatti, IDENTITÀ è/significa: NON-DIFFERENZA,

e DIFFERENZA è/significa: NON-IDENTITÀ;

Ciascun termine è la NEGAZIONE dell’altro.

Il fatto ‘increscioso’ è che la (1), pur mantenendo sempre il suo valore o significato, si rivela al contempo anche (e sempre) come la (2)!

Sì, perché l’IDENTITÀ-CON-SÉ da parte dell’IDENTITÀ (quale primo termine della sintesi o plesso), DIFFERENDO dall’altro termine, si costituisce come DIFFERENZA proprio nel suo (dell’IDENTITÀ) differire dalla differenza, quindi differisce senza differirne, rivelandosi esser IN-UNO-IDENTITÀ-E-DIFFERENZA.

Cosicché l’IDENTITÀ-CON-SÉ da parte dell’IDENTITÀ si riveli al contempo come NON-IDENTITÀ-CON-SÉ o come DIFFERENZA-DA-SÉ.

Idem dicasi per l’altro termine del plesso: la DIFFERENZA.

Questa, al contrario dell’IDENTITÀ che esprime l’UNO o l’ESSER-SÉ, esprime invece il MOLTEPLICE o l’ALTERITÀ, cioè il NON-ESSER-SÉ perché, se anche la DIFFERENZA dicesse l’ESSER-SÉ, allora essa non differirebbe dall’IDENTITÀ alla quale, sola, spetta di dire e di essere l’IDENTITÀ, per cui dicendo che x differisce da y, diremmo che x è l’ESSER-SÉ di (o IDENTICO a) y, anziché che x è il NON-ESSER-SÉ di (o DIFFERISCE da) y.

Ciò nonostante, proprio perché la DIFFERENZA NON è (cioè DIFFERISCE da) l’IDENTITÀ, non ne differisce, giacché DIFFERENZA È ( = ESSER-) e significa sempre e soltanto DIFFERENZA, cosicché la DIFFERENZA-DAL-PROPRIO-ALTRO da parte della DIFFERENZA si riveli al contempo come NON-DIFFERENZA-DAL-PROPRIO-ALTRO (cioè dall’IDENTITÀ) o come IDENTITÀ-CON-L’ALTRO (con l’IDENTITÀ, indistinguibilmente da questa).

Pertanto, il PLESSO-IDENTITÀ-DIFFERENZA, proprio nel suo costituirsi come sintesi di due innegabilmente DIFFERENTI significati _ dato che l’IDENTITÀ ESCLUDE sempre di significare DIFFERENZA e viceversa _, PONENDOSI SI TOGLIE, SI NEGA, giacché l’un significato È (E SIGNIFICA) SEMPRE ANCHE L’ALTRO, CONTEMPORANEAMENTE!

Ciascun dei due significati è IN SÉ CONTRADDITTORIAMENTE DOPPIO cioè OPPOSTO A , poiché ciascuno di essi significa SÉ-E-L’ALTRO-DA-SÉ.

Ovvero:

IDENTITÀ significa: IDENTITÀ-E-DIFFERENZA,

cioè: IDENTITÀ-E-NON-IDENTITÀ, al contempo e sotto il medesimo rispetto;

DIFFERENZA significa: DIFFERENZA-E-IDENTITÀ,

cioè: DIFFERENZA-E-NON-DIFFERENZA, al contempo e sotto il medesimo rispetto.

Di modo tale che l’IDENTITÀ e la DIFFERENZA si rivelino esser INDISTINGUIBILI pur nella loro palese distinzione; CONTRADDITTORIE pur nel loro incontraddittorio significare.

L’APORIA delle APORIE consiste perciò nel rilievo secondo cui l’IDENTITÀ, per significare sempre e soltanto IDENTITÀ, deve al contempo NON significare MAI DIFFERENZA, quindi deve SEMPRE restar differente dalla DIFFERENZA, giacché se non si differenziasse dalla differenza, sarebbe identica ad essa; al contempo, proprio differenziandosene, è l’IDENTITÀ stessa a costituirsi come DIFFERENZA, cioè come quell’altro da sé cui è la DIFFERENZA, cosicché quest’ultima non sia più il suo altro, distinto dall’IDENTITÀ, perché tale DIFFERENZA È LA STESSA IDENTITÀ.

Ma l’APORETICITÀ del nostro plesso NON si ferma qui, bensì procede ad esplicitarsi ulteriormente.

Come detto, esso è un’APORETICA IDENTITÀ-DI-OPPOSTI, ed in quanto è tale, esso è una NON-IDENTITÀ-CON-SÉ, ossia è un (o IL) DIFFERIRE-DA-SÉ.

A riconferma di ciò, si può dire che non avendo alcunché d’altro DA CUI DIFFERENZIARSI, appunto perché tale coppia di significati NON LASCIA NULLA AL DI FUORI della propria ‘giurisdizione’ ontologica, per cui il significato di DIFFERENZA (nonché OGNI differenza) è già ricompreso nel plesso (e non vi possono esser molteplici significati di DIFFERENZA ma uno soltanto), ecco allora che esso, proprio perché NON può DIFFERENZIARSI da alcunché, NON può neppure essere IDENTICO-A-SÉ, visto che ogni identità-con-sé è tale se e soltanto se essa DIFFERISCE DA qualcos’altro.

Ora veniamo alla cosiddetta IPOSINTASSI.

Scrive Marco CANZIANI:

<<Sotto il rispetto della persintassi [ = l’essere], cioè in quanto alla forma, tavolo e sedia sono identici, così come sono identici tutti gli essenti qui presenti. Sotto il rispetto dell’iposintassi [ = le determinazioni], cioè in quanto al contenuto, invece, sono diversi, sono dei differenti>> qui, a sua insaputa, Marco CANZIANI ha espresso l’APORIA del rapporto ESSERE-DETERMINAZIONE (o APORIA della persintassi-iposintassi), per la quale rimando, come già indicato, ai post nn. 86, 90, 92 e 93.  

Sul piano ontico-manifestativo _ a valle _, Marco CANZIANI fa notare che

<<L’essente, che è sintesi di forma e contenuto, cioè di persintassi ed iposintassi, è identico e differente, ma ben appunto, è identico a sé, differente lo è solo dal proprio altro. L’essente non è differente da sé e identico al proprio altro>>;

cioè l’ente-x è sì identico ed al contempo differente, ma identico RISPETTO a sé e differente RISPETTO al proprio altro (y), senza contraddizione, poiché i RISPETTI sono appunto DIFFERENTI. Ad esempio: un uomo è contemporaneamente alto-e-basso; ma è alto RISPETTO ad una formica, ed è basso RISPETTO ad un albero.

Senonché, sul piano ontico-iposintattico, i due RISPETTI salvaguardano le determinazioni ( = alto e basso, bianco e nero…) dalla simultanea CONTRADDITTORIETÀ che invece investe i significati di IDENTITÀ e DIFFERENZA anche sul piano iposintattico/empirico, oltre che ontologico/persintattico, giacché alto e basso, o bianco e nero (etc…) sono determinazioni ontiche/iposintattiche, NON TRASCENDENTALI.

Quindi, se s’afferma che un uomo è alto-e-basso secondo RISPETTI DIFFERENTI, non c’è contraddizione; invece, ciò non vale per l’IDENTITÀ-DIFFERENZA, ossia per esse  NON valgono i RISPETTI, perché, ripetiamolo, l’IDENTITÀ-E-DIFFERENZA sono significati UNIVERSALI-TRASCENDENTALI-INTRASCENDIBILI che tutto informano di sé, mentre ALTO-E-BASSO NO, essendo questi circoscritti e limitati e sovente del tutto assenti (una superficie piatta non è né alta né bassa; un punto non è né alto né basso; un colore non è né alto né basso; ma TUTTI E TRE SOTTOSTANNO all’IDENTITÀ-DIFFERENZA).

Se infatti dello stesso uomo si afferma che la sua IDENTITÀ-uomo DIFFERISCE RISPETTO all’IDENTITÀ-albero, si afferma quella contraddizione consistente nel fare dell’IDENTITÀ-uomo (e qui l’IDENTITÀ e la DIFFERENZA sono sempre significanti nell’identico modo in cui lo sono nel piano trascendentale) una DIFFERENZA in quanto, appunto, l’IDENTITÀ-DIFFERISCE: l’IDENTITÀ-È-DIFFERENZA o NON-IDENTITÀ.

Che l’IDENTITÀ-uomo sia al contempo in sé una DIFFERENZA, non fa dell’uomo un albero; fa dell’uomo (come di una qualsiasi altra identità/ente) un DIVENIENTE, ossia un’IDENTITÀ mai identica a sé in quanto diacronicamente SEMPRE DIVENIENTE/DIFFERENZIANTESI ovvero SEMPRE TOGLIENTESI COME IDENTITÀ.

Sempre in relazione ai due DIFFERENTI RISPETTI, che si ritengono capaci di evitare la contraddizione circa l’identità e la differenza; in realtà la RI-CONFERMANO.

Infatti, i due differenti RISPETTI sono riferiti alla MEDESIMA IDENTITÀ-uomo la quale, perciò, si ritrova esser IN SÉ DOPPIA, poiché essa, essendo SIMULTANEAMENTE relata a due differenti RISPETTI (albero e formica), è SIMULTANEAMENTE IDENTITÀ-E-DIFFERENZA IN UNO cioè, appunto, RISPETTO A SÉ ed IN SÉ, ove il suo esser differenza (cioè l’altro RISPETTO) non subentra in un momento successivo al primo RISPETTO, quasi che l’identità possa esser identità RISPETTO a sé senza al contempo tener conto del (o prescindendo dal) secondo RISPETTO all’altro da sé, giacché questo altro è ciò che determina l’identità come identità (e che al contempo la TOGLIE come identità), e quindi esso è SIMULTANEO al primo RISPETTO, sì che l’esser APORETICAMENTE IDENTITÀ-E-DIFFERENZA da parte dell’identità non sia una diacronìa (cioè: prima l’identità è identità, poi è differenza) bensì UNA SINCRONIA, diacronico essendo soltanto il riverbero di tale contraddittorietà ontologica nell’identità ontica (nell’ente) il cui TOGLIMENTO (dell’identità dell’ente) costituisce il suo DIVENIRE-ALTRO.

D’altronde questo è il destino di ogni IDENTITÀ ontica (non astrattamente intesa) cioè a valle: PORSI-E-TOGLIERSI ossia non riuscire mai a porsi, e questa incapacità si chiama:

DIVENIRE-ALTRO-DA-SÉ da parte di ogni ente.

Mentre, a monte, il destino dell’IDENTITÀ-DIFFERENZA è costituito nell’esser, ciascuna, SÉ-E-L’OPPOSTO-DI-SÉ.

Dunque, anche affermare l’identità RISPETTO a sé e la differenza RISPETTO all’altro da sé, significa ri-affermare che l’identità, DIFFERENDO RISPETTO ad altro, è già essa stessa IDENTICA-E-DIFFERENTE-IN-SÉ.

A ulteriore conferma di quanto detto, domandiamoci:

nell’ente, in un qualsiasi ente, (a) l’identità-con-sé si DIFFERENZIA dalla sua _ del medesimo ente _ (b) differenza-dal-proprio-altro?

Oppure sono IDENTICHE e perciò indistinguibili?

Evidentemente si DIFFERENZIANO, tanto quanto l’esser sé si differenzia dall’altro da sé, altrimenti potremmo affermare indifferentemente l’identità-con-il-proprio-altro e la differenza-da-sé senza mutar i significati delle due locuzioni (a) e (b), il che NON accade, almeno non nell’ontologia severiniana nella quale le ultime due espressioni rappresentano, come già visto, l’essenza stessa della CONTRADDIZIONE.

Quindi (a) e (b) si DIFFERENZIANO, pur essendo inscindibili in quanto, appunto, co-implicantesi (proprio per questo si differenziano, giacché non c’è co-implicazioni tra in-distinguibili) NEL e COME il medesimo ente.

Ma, così DIFFERENZIANDOSI, l’identità, nuovamente, si DIFFERENZIA-DA-SÉ, ovvero essa è ED IL PROPRIO-ALTRO.

Poiché l’identità di x differisce da quel differente-da-x cui è y (o differisce dall’identità di y), allora l’identità (di x) differisce (in x) dal proprio (di x) differire da y, perché, se non differisse, l’identità di x e il suo non esser y (e il suo differire da y) non si distinguerebbero, e non potremmo perciò neppure parlare di identità con sé (di x) e della sua differenza da y.

Sì che la DIFFERENZA DA SÉ, l’identità (di x) ce l’abbia in casa propria; cioè è essa stessa _ IN UNO (in x) _ la propria contraddittoria IDENTITÀ-NON-IDENTITÀ.

Importa perciò rilevare che l’identità-con-sé differisce dal suo stesso esser differenza dal proprio altro allo stesso modo in cui l’ente x differisce dall’altro-da-x, cioè da y.

Ciò Significa, nuovamente, che affermando (1) l’identità nonché la sua (2) differenza dal proprio altro _ e ciò dovrebbe costituire la supposta incontraddittorietà dell’identità _ s’afferma altresì che l’identità è, AL CONTEMPO, IDENTITÀ-E-DIFFERENZA-IN-SÉ, quindi è DIFFERENZA-DA-SÉ, ossia che è contraddittoria

 

Roberto Fiaschi

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