sabato 24 agosto 2024

119)- LA «SEMPLICITÀ DI DIO» ESCLUDE LA (SUA E ALTRUI) DISTINZIONE?

 

Sfero parmenideo e SS. Trinità

Riporto un pregevole post del filosofo Marco Cavaioni ( = MC), allievo di Giovanni Romano Bacchin (ooetpSrdsnl229 1i2t2fh87c52i06ct53m86m2135a4h1gi5hl9u9mlha4a):  

<<P. Barzaghi insiste nel tentativo, a mio avviso impossibile, di tener assieme assolutezza ovvero semplicità di Dio (infinito) e mondo (finitezza, complessità, determinatezza). Egli, pur riconoscendo, come già il suo maestro Bontadini, che il mondo ( = la dimensione del finito, determinato) è "nulla come aggiunta" rispetto a Dio, nondimeno pretende di concepire Dio (l'infinito, l'assoluto, il semplice) come "immensità" che terrebbe ferme in se stessa le determinazioni (il mondo, il finito). Così egli intenderebbe – secondo me, fraintendendolo pesantemente – l'ápeiron, tema del seminario di cui è organizzatore e relatore, assieme ad altri altrettanto prestigiosi, ma tutti – mi sembra – omologati sulla linea bontadiniano-severiniana. In tal modo quelle determinazioni sarebbero qualcosa di altro non "da Dio" ma "in Dio". Il che, tuttavia, non toglie affatto che esse, non coincidendo e non risolvendosi in Dio, permangano pur sempre distinte "da Dio", ancorché ricadendo "in Dio" e tali da non "aggiungere nulla" a Dio. In una parola, esse sarebbero il distinguersi di Dio in se stesso, ma – va aggiunto – anche da se stesso. Il che è insensato, dacché contraddice il suo essere assoluta semplicità (dunque, privo di relazionalità sia estrinseca sia intrinseca). Pertanto, sarebbe da chiedere al Prof. Barzaghi, perché – onde evitare di cadere nell'assurdità di un semplice intrinsecamente distinto (appunto perché terrebbe in piedi, come "poste", le determinazioni), dunque in una contraddittoria "unitas multiplex" – non riconosce, piuttosto, che l'infinito (semplice, assoluto) altro non è che la ragione della necessità di togliersi del finito (molteplice, relazionale) o, meglio ancora, la ragione del suo non riuscire mai a porsi veramente?>>

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In questo post è in gioco una ‘comprensione’ (per quel che è possibile!) di Dio/Infinito/Assoluto che comunque mi concerne in quanto (tento di esser) cristiano.

Infatti, ciò che divide la concezione dell’Assoluto della Scuola facente capo al filosofo Bacchin (della quale l’autore del post, Marco Cavaioni, è uno tra i massimi esponenti) dalla concezione cristiana, consiste nel fatto che quest’ultima è da sempre portavoce di un Dio/Infinito PERFETTAMENTE-UNO-SEMPLICE-INDIVISIBILE ed al contempo PERFETTAMENTE-TRINO, ossia intrinsecamente DISTINTO.

Qui, però, NON intendo descrivere NÉ difendere la legittimità o meno del Dio trinitario rispetto all’<<assolutezza ovvero semplicità di Dio>> sostenuta da MC.

No; qui, mi interessa rilevare solamente quanto segue:

per MC, si è visto, <<il distinguersi di Dio in se stesso, ma – va aggiunto – anche da se stesso>> sarebbe <<insensato, dacché contraddice il suo essere assoluta semplicità (dunque, privo di relazionalità sia estrinseca sia intrinseca)>>, quindi, si deve <<evitare di cadere nell'assurdità di un semplice intrinsecamente distinto>>.

Le parole chiave sono queste: <<insensato>>, <<contraddice>> e <<assurdità>>.

Cosa intendo dire?

Dico che egli applica ANCHE all’Assoluto ciò che lui stesso ritiene valere SOLTANTO per il FINITO, per gli ENTI, ossia gli applica il Principio di non-contraddizione ( = PdNC), giacché è solo grazie a questo che MC può ritenere <<insensato>> un Assoluto che <<contraddica il suo essere assoluta semplicità>> e che, perciò, sia un’<<assurdità>>, appunto perché l’Assoluto auto-distinguentesi cioè cristianamente concepito, VIOLEREBBE i dettami del PdNC secondo cui esso non può che <<essere assoluta semplicità (dunque, privo di relazionalità sia estrinseca sia intrinseca)>>.

Senonché, un Assoluto che sia LIGIO ai dettami del PdNC si rivela ad esso SOTTOPOSTO, cessando di esser Assoluto e perciò passando lo scettro dell’assolutezza al PdNC, proprio perché quest’ultimo funge da struttura DETERMINANTE circa ciò che l’Assoluto può o non può ESCLUDERE.

Infatti, ritener che l’Assoluto sia in sé <<assoluta semplicità>> vuol dire che esso neghi il <<finito (molteplice, relazionale)>> mediante negazione ESCLUDENTE, esattamente come un ENTE nega ogni altro ente ESCLUDENDOLO da (l’esser) sé.

A ciò, si potrà replicare che tale Assoluto, ESCLUDENDO il <<finito (molteplice, relazionale)>>, ESCLUDA il contraddittorio e che perciò lo stesso finito/contraddittorio sia <<la ragione del suo [del finito] non riuscire mai a porsi veramente>>.

Infatti, sempre in quest’ottica, il Prof. Aldo Stella scrive (parentesi quadre mie: RF):

<<V’è un unico modo per superare la contraddizione [del determinato]: intendere ciascuna determinazione come il proprio trascendersi e ciò in ragione del fatto che ciascuna è, in sé, sé e il suo altro, ossia ciascuna è in sé il proprio contraddirsi. Il togliersi delle determinazioni configura, pertanto, quell’ablatio alteritatis che restituisce dialetticamente l’unità: l’uno come togliersi [ = come ESCLUSIONE] del due>>. (Si legga l’intero, bellissimo articolo qui: https://ritirifilosofici.it/determinazione-identita-distinti-severino/).

Per cui, prosegue Stella, <<L’autentico infinito, invece, è quell’assoluto in virtù del quale si rileva il limite del determinatoquel limite che nel porre il determinato insieme lo toglie [lo ESCLUDE appunto]. Lo toglie non nel senso che lo cancella empiricamente, ma nel senso che toglie la pretesa che esso sia veramente, come l’ordine empirico-formale attesterebbe>>.

Ma, qui vi è da rilevare che, sebbene non lo cancelli empiricamente, tuttavia cancellerà almeno <<la pretesa che esso sia veramente>>, ovvero ESCLUDE tale pretesa.

Tal non-essere-veramente da parte dell’ente è la sua contingenza, il suo dipendere da Dio, certamente. Ma ciò, nell’ottica cristiana, NON deve comportare <<quell’ablatio alteritatis>> ( = la negazione ESCLUDENTE, dunque, dell’alterità, normata dal PdNC applicato all’Assoluto) affinché l’Assoluto resti Uno e semplice, giacché in tal caso avremmo già la posizione del DUE cioè della DISTINZIONE.   

Notare ove egli scrive:

<<L’autentico infinito, invece, è quell’assoluto in virtù del quale si rileva il limite del determinatoquel limite che nel porre il determinato insieme lo toglie>> cioè lo ESCLUDE dalla pura semplicità dell’Uno, sempre in virtù del PdNC.

Infatti, <<porre il determinato>>, anche soltanto per poi toglierlo/escluderlo, è nuovamente già porre il DUE ( = la DISTINZIONE) nonostante il toglimento del determinato, anzi, grazie ad esso.

Dunque, proprio quella negazione ESCLUDENTE preposta a salvaguardare l’assolutezza e la semplicità dell’Uno, le INFICIA, perché ciò che esso ( = l’Uno) esclude/nega è DISTINTO da sé, seppur come negato, ma pur sempre ALTRO dall’Uno.

Il Dio UNI-TRINO (che non nega il PdNC) nega sì le differenze (in sé e ‘fuori’ di sé), ma, al contrario dell’Uno quale <<assoluta semplicità>>, NON le ESCLUDE, restando perciò PERFETTAMENTE UNO-e-SEMPLICE e quindi NON soggiacente al PdNC.

Si replicherà senz’altro:

ASSURDO! Com’è possibile ciò?

Questa domanda stupìta è ancora l’espressione del PdNC.

Accenno di risposta:

approfondendo il concetto di NEGAZIONE-NON-ESCLUDENTE ( -> Massimo Donà), la cui ‘sobria’ presenza già informa l’ente sottoposto al (o espressione del) PdNC.

 

Roberto Fiaschi

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martedì 13 agosto 2024

118)- IL TUTTO SEVERINIANO NON È (IL) TUTTO


Il Tutto sarebbe ciò che non MANCA di nulla ( = il Tutto sarebbe ciò che non ESCLUDE nulla. L’ESCLUSO perciò MANCA, e la MANCANZA è la stessa ESCLUSIONE di ciò che non è presente).

Se al Tutto MANCASSE (se ESCLUDESSE) anche un solo essente-x, tale MANCANZA (tale ESCLUSIONE) avrebbe un peso infinito e decisivo nel NEGARE che il TUTTO sia ciò che NON MANCA di nulla.

Se invece, al Tutto, l’essente-x non MANCASSE, il Tutto si riconfermerebbe esser ciò che non MANCA di nulla.

Cosicché nel Tutto non vi sarebbe alcuna MANCANZA, appunto perché, in esso, TUTTO ci sarebbe, nulla MANCHEREBBE.

Quindi tra l’avere una qualche MANCANZA ed il non averla affatto, per il Tutto fa un’enorme differenza, per cui è evidente:

l’avere una qualche MANCANZA non equivale a NON avercela, sì che, proprio perciò, la MANCANZA _ soprattutto dal punto di vista del filosofo Emanuele Severino _ sia un ESSENTE la cui presenza (nel Tutto) o meno, determini le sorti dello stesso Tutto.

In tal modo è INSOSTENIBILE la tesi (severiniana?) secondo la quale <<mancare di un difetto [ = della MANCANZA] non è mancare>>.

Al contrario, perché MANCANDO della MANCANZA (o ESCLUDENDO di ESCLUDERE), il Tutto MANCA ( = ESCLUDE) ugualmente, giacché MANCARE della MANCANZA ( = ESCLUDERE di ESCLUDERE) è ugualmente un MANCARE di ( = un ESCLUDERE) qualcosa ( = la MANCANZA; l’ESCLUSIONE) che non significa né, perciò, equivale al nihil absolutus.

Il Tutto non MANCA di nulla ( = non ESCLUDE nulla), quindi MANCA della MANCANZA ( = ESCLUDE L’ESCLUSIONE), cioè MANCA del MANCARE ( = ESCLUDE di ESCLUDERE), giacché, se gli MANCASSE qualcosa, non MANCHEREBBE della MANCANZA (non gli MANCHEREBBE perché, MANCANDO di qualcosa, il Tutto MANCHEREBBE; perciò sarebbe non-MANCANTE della MANCANZA).

Ma, proprio così, il Tutto NON è ciò che NON MANCA di nulla, perché, MANCANDO del MANCARE, il Tutto MANCA ( = il Tutto ESCLUDE), quindi:

NON è il Tutto. 

Dunque, in quanto non-MANCANTE di niente, al Tutto MANCA la MANCANZA.

Gli MANCA, cioè, di (il) MANCARE.

Quindi non MANCA di alcunché, neppure del MANCARE perché, MANCANDOGLI il MANCARE, non MANCA del MANCARE: per questo il Tutto infinito severiniano non MANCHEREBBE di niente e, al contempo, il Tutto NON è il Tutto poiché è MANCANTE! ( = è ESCLUDENTE, ossia NON è ciò che non ESCLUDE nulla).

Riassumendo:

1)- se il Tutto non manca di nulla (se cioè ESCLUDE di mancare o di ESCLUDERE), allora MANCA del mancare: il Tutto NON è il Tutto: contraddizione;

2)- se il Tutto non manca neppure del mancare (se cioè INCLUDE il mancare), allora MANCA: il Tutto NON è il Tutto: contraddizione.

 

Roberto Fiaschi

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giovedì 1 agosto 2024

117)- ALCUNE OSSERVAZIONI SU: «La contraddizione C e l’apparire infinito in Severino secondo Roberto Fiaschi»


In relazione al mio post n° 110, riporto dal link

https://www.academia.edu/122425303/La_contraddizione_C_e_lapparire_infinito_in_Severino_secondo_Roberto_Fiaschi, il seguente bell’articolo di Italo Nobile intitolato:

<<La contraddizione C e l’apparire infinito in Severino secondo Roberto Fiaschi. Riflessioni e divagazioni a partire da una critica di Roberto Fiaschi ad Emanuele Severino>>.

<<La tesi di Roberto Fiaschi

Secondo il filosofo Emanuele Severino, l’apparire infinito è ciò che TOGLIE da sempre (ha da sempre TOLTO) la peraltro ineliminabile (nel finito) contraddizione C cioè la parzialità/astrattezza dell’ente-x (e di qualsiasi altro ente) che appare qui, nell’apparire finito, perché esso (l’ente) è privo delle (non appaiono le) sue costanti (tutti gli altri enti) che fanno di x quell’ente-x che appunto esso è nell’apparire finito, giacché l’infinito è la com-presenza esaustiva e simultanea dell’apparire della totalità infinita e concreta di tutti gli essenti.

Stante ciò, vi è allora da domandarsi COME l’indiveniente apparire infinito ‘veda’ (esperisca, sia cosciente de) il diveniente ente-x libero (risolto) dalla contraddizione C.

Varie alternative.

1) Lo ‘vede’ esattamente COME lo vediamo noi, nel finito, cioè parzialmente/astrattamente;

In tal caso la contraddizione C dell’ente-x, nell’infinito NON È AFFATTO TOLTA, appunto perché, nell’infinito, x apparirebbe COME lo vede il finito ossia in modo parziale/astratto in forza della contraddizione C, quindi SENZA le sue (di x) costanti che invece non possono apparire nel finito in modo definitivo ed esaustivo ma procrastinate diacronicamente all’infinito. Per cui x, nell’infinito, non differirebbe affatto da x nel finito, quindi x rimarrebbe eternamente astratto (SENZA la totale presenza delle sue necessarie costanti ipo- ed iper-sintattiche) ANCHE nell’apparire infinito.

2) L’infinito ‘vede’ x esattamente COME lo vediamo noi nel finito ED ALTRESÌ lo vede LIBERO dalla contraddizione C, ossia lo ‘vede’ insieme alla totalità delle sue costanti, l’apparire simultaneo delle quali, perciò, TOGLIEREBBERO (avrebbero da sempre tolto) la contraddizione C di x nell’infinito.

Ma, se fosse così, nell’apparire infinito avremmo DUE enti-x reciprocamente DIFFERENTI e solo UNO dei quali apparirebbe nella sua concretezza _ cioè l’ente-x ‘visto’ nell’apparire infinito insieme alla simultaneità di tutte le sue (di x) infinite costanti; ciò, in forza del fatto che, secondo Severino, un ente NON POSSA MAI DIVENTARE (TRASFORMARSI in) un altro.

Mentre, invece, il primo x, identicamente al caso (1), rimarrebbe eternamente astratto ANCHE nell’apparire infinito; ma ciò, allora, si deve dire di TUTTI gli enti che appaiono nel finito!

Cosicché, in realtà, non solo di NESSUN ente, nel finito, accada MAI il toglimento progressivo della propria parzialità/astrattezza, ma nel finito NON VI PUÒ ESSER ALCUNA contraddizione C (grazie al progressivo toglimento della quale la concretezza degli enti che appaiono andrebbe vieppiù concretandosi), proprio perché tutti gli enti, nell’apparire infinito, verrebbero ‘visti’ esattamente COME il nostro ente-x cioè COME li vediamo qui nel finito, cioè astrattamente come al punto (1).  

3) L’infinito ‘vede’ SOLTANTO nella sua concretezza cioè da sempre libero dalla contraddizione C. Ma, in tal caso, che ne è, nell’apparire infinito, dell’ente-x astrattamente inteso ovvero afflitto qui, nel finito, dalla contraddizione C?

L’unica soluzione per questi tre casi consiste nell’introdurre il DIVENIRE inteso come TRASFORMAZIONE da astratto a concreto

Infatti, la severiniana INDIVENIENZA dell’ente, rende IMPOSSIBILE: o l’indiveniente apparire infinito, oppure rende IMPOSSIBILE la contraddizione C.

Riflessioni

la prima domanda che mi viene in mente è: l’Apparire infinito è una coscienza che vede qualcosa? O un punto di vista da cui si vede qualcosa?  O un orizzonte con un numero infinito di oggetti che appaiono ad una coscienza situata in un determinato punto di vista? Me lo domando perché, avendo approfondito soprattutto gli scritti giovanili di Severino posso difenderlo (se è il caso) solo ipotizzando cosa si possa rispondere alla critica di Fiaschi partendo dal suo punto di vista (quello di Severino non di Fiaschi), un punto di vista però che corrisponde più alla mia istanza neoparmenidea che cerca di avvicinarsi a Severino come se fosse un affine (senza esserne sicuro). Il coraggio di fare questo azzardo ermeneutico e polemico me lo dà il fatto che Severino, per quanto rivendichi a piè sospinto la sua originalità se non la sua eccezionale unicità, fa parte a pieno titolo di una tradizione di pensiero e da questa trae motivi, metafore, intenti. Intendo il monismo o quella che Beierwaltes chiama la tradizione idealistica (da Platone a Hegel ma forse, direi io, da Eraclito a Royce). O addirittura potremmo allargare questa famiglia anche all’Oriente se pensiamo alle comparazioni fatte da numerosi filosofi (ad es. Sarvepalli Radhakrishnan) e numerosi studiosi (ad es. Rudolf Otto) tra misticismo orientale e misticismo occidentale. Fatta questa premessa, mi chiedo: pur ammettendo che anche in Spinoza si parli di sub specie aeternitatis (ossia di un punto di vista dell’eternità) non possiamo ipotizzare che nell’apparire infinito non ci possa essere un punto di vista? Se cioè nell’apparire infinito tutto è interrelato con tutto, il fatto che qualcuno veda qualcosa non presuppone ancora quel mondo dove quel qualcuno e quel qualcosa sono separati l’uno dall’altro per cui qualcuno può permettersi di vedere qualcosa? Ovvero non è che l’apparire infinito somigli più all’ottava figura delle icone del bufalo (o del bue)[1] del Buddhismo Zen, quella cioè dove non c’è più né bufalo né mandriano (in sintesi né oggetto né soggetto)? Qualcuno obietterebbe che allora non ci sarebbe apparire. E non può essere allora che l’attributo “infinito” massacri il termine che si predica di tale attributo così come vorrebbe il filosofo analitico del linguaggio I.T. Ramsey e come evidenzia il grande neoplatonico dell’Umanesimo Nicola Cusano? Il passaggio nell’apparire infinito non fa sparire il terminus a quo allo stesso modo di una scala di corda che viene raggomitolata una volta servita allo scopo? La seconda domanda che mi pongo è: quello di Fiaschi è un cosiddetto esperimento mentale? O domandarsi cosa si veda dal punto di vista dell’apparire infinito è una semplice dimostrazione per assurdo? Le due cose non sono lo stesso? Oppure lo sono? E fare un esperimento mentale è compatibile con la prospettiva di Severino? Ovvero si può uscire dalla propria pelle secondo Severino? Possiamo ipotizzare qualcosa di assolutamente altro dalle condizioni che accompagnano le nostre asserzioni? Fino a quando possiamo assumere il punto di vista di chi la pensa diversamente da noi? Se arriviamo al punto di poterlo confutare possiamo pensare di esserci immedesimati abbastanza? O lo possiamo confutare perché non ci siamo immedesimati abbastanza? Da dove parla Roberto Fiaschi quando articola le diverse ipotesi in cui Severino sarebbe quasi ingabbiato? Un severiniano potrebbe domandare a Fiaschi se parla stando nell’apparire finito o nell’apparire infinito e se l’impasse severiniana che egli denuncia non sia condizionata da questo punto di partenza (che sarebbe quello dell’apparire finito). Un severiniano potrebbe dire che, stando dal punto di vista dell’apparire finito, le alternative poste da Fiaschi non rispecchiano la reale situazione di chi parla dal punto di vista dell’apparire infinito. E qui però facciamo un’altra domanda (perché i problemi in questo caso non sarebbero da una parte sola): dove sta lo stesso Severino quando parla di apparire finito e apparire infinito? Ipotizziamo che Severino ancora vivente avesse scritto altre opere in cui avrebbe ancora allargato la prospettiva. Come avrebbe dovuto considerare le opere scritte in precedenza? E ancora sorge un altro terribile problema per gli stessi severiniani: se non è possibile trascendere le condizioni del proprio asserire, come sarebbe possibile l’elenchos se questo appunto presuppone l’assunzione del punto di vista dello scettico radicale o di ogni altra posizione che all’elenchos sarebbe soggetta? La ragione per cui dunque l’elenchos si chiude sarebbe la stessa ragione per cui l’elenchos non si potrebbe nemmeno innescare. Fiaschi o qualsiasi altro potrebbe rispondere perché si dovrebbe stare in un qualsiasi posto per svolgere una critica alla filosofia di Severino. A sua volta il severiniano potrebbe dire che, non stando nell’apparire infinito, non si può sapere se e cosa si vede dal punto di vista dell’apparire infinito. Né si può sapere se le implicazioni delle diverse alternative siano quelle esposte da Fiaschi. Perché infatti dal punto di vista dell’apparire infinito la x astratta e la x concreta dovrebbero essere alternative tra loro? Perchè, se vedi sia la x astratta che la x concreta dovresti vedere due enti? Perché se vediamo la x concreta non vediamo anche la x astratta, essendo esse lo stesso ente? Certo Severino contesta che la legna sia cenere perché sarebbe a suo dire una contraddizione e contesta che la legna diventi cenere perché ciò implicherebbe a suo dire che la legna sia cenere. Egli contesta anche che qualsiasi cosa che duri nel tempo sia qualcosa di unitario e di identico a se stesso. Ma negherebbe che lo stesso ente possa essere visto da prospettive diverse? Se lo nega effettivamente Fiaschi lo ha messo nei guai. Ma se non lo nega si potrebbe adottare la terza alternativa ipotizzata da Fiaschi per cui nell’apparire infinito si vede la x concreta che è la stessa x astratta che si vedeva nell’apparire finito. Se cioè legna e cenere sono due, se la legna che si vorrebbe diventi cenere rimangono sempre due, se l’ente che dura nel tempo è in realtà una serie di un certo numero di enti, tuttavia l’x astratto e l’x concreto sono lo stesso ente, visto sbiadito e isolato nell’apparire finito e concreto e interrelato con tutto il resto nell’apparire infinito. Oppure, sempre scegliendo la terza alternativa, si potrebbe dire che nell’apparire infinito si vede la x concreta perché la x astratta è da sempre tolta essendo contraddittoria. E almeno nel Severino che nel pensier mi fingo, un ente contraddittorio non deve essere necessariamente conservato anche nella prospettiva dell’apparire infinito.

Concludendo

l’apparire infinito può riservare problemi sia a Severino che ai suo critici a causa della sua natura controversa (è un punto di vista? È trattabile con un esperimento mentale? Il passaggio all’apparire infinito è un divenire per i contenuti che appaiono?). Forse perchè possa essere tematizzato con maggiore successo sarebbe necessario utilizzare la riflessione buddista (anche di tipo logico) sul passaggio dalla prospettiva prima dell’illuminazione a quella dopo l’illuminazione. In un certo senso perciò l’apparire infinito costringe il severinismo a ricongiungersi alla philosophia perennis alla quale è sempre appartenuto nonostante la sua arrogante pretesa di unicità>>.

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Rispondo alle domande che mi riguardano direttamente.

Italo Nobile chiede:

(1)- <<La seconda domanda che mi pongo è: quello di Fiaschi è un cosiddetto esperimento mentale?>>

Sì, nella misura in cui Severino, parlando di apparire infinito nel quale gli essenti sono da sempre liberi dalla contraddizione C, stia effettuando anch’egli un <<esperimento mentale>>.

No, nella misura in cui tale apparire sia, per Severino, soltanto una conseguenza teoretica derivante da premesse.

(2)- <<E fare un esperimento mentale è compatibile con la prospettiva di Severino? Ovvero si può uscire dalla propria pelle secondo Severino? >>

Come la risposta (1).

(3)- <<Possiamo ipotizzare qualcosa di assolutamente altro dalle condizioni che accompagnano le nostre asserzioni?>>

Per Severino, qualsivoglia <<assolutamente altro>> che sia interno all’essere è impossibile, giacché l’unico <<assolutamente altro>>, sempre a suo dire, è soltanto il nihil absolutum.

(4)- <<Fino a quando possiamo assumere il punto di vista di chi la pensa diversamente da noi?>>

Fino al punto in cui tale <<punto di vista>> viene proposto in via filosofico-argomentativa accessibile a tutti coloro che lo leggono.

(5)- <<Se arriviamo al punto di poterlo confutare possiamo pensare di esserci immedesimati abbastanza? O lo possiamo confutare perché non ci siamo immedesimati abbastanza?>>

Opterei per la prima prospettiva, ma non escludo la seconda.

(6)- <<Da dove parla Roberto Fiaschi quando articola le diverse ipotesi in cui Severino sarebbe quasi ingabbiato?>>

Parlo dal medesimo punto di vista in cui parla Severino allorquando egli ci spiega la contraddizione C e l’apparire infinito, se non altro perché le sue spiegazioni MI appaiono qui, cioè nella stessa ‘dimensione’ nella quale esse sono state concepite da Severino.

(7)- <<Un severiniano potrebbe domandare a Fiaschi se parla stando nell’apparire finito o nell’apparire infinito e se l’impasse severiniana che egli denuncia non sia condizionata da questo punto di partenza (che sarebbe quello dell’apparire finito)>>.

A tale domanda, rispondo di parlare esattamente nel luogo in cui Severino stesso sta parlando, dal momento che anch’egli è un individuo che, come me, parla e vive nel medesimo mondo in cui parlo e vivo io.

(8)- <<Un severiniano potrebbe dire che, stando dal punto di vista dell’apparire finito, le alternative poste da Fiaschi non rispecchiano la reale situazione di chi parla dal punto di vista dell’apparire infinito>>.

Avevo precisato nel mio post su riportato:

<<vi è allora da domandarsi COME l’indiveniente apparire infinito ‘veda’ (esperisca, sia cosciente de) il diveniente ente-x libero (risolto) dalla contraddizione C>>.

Quindi sì, le mie critiche sorgono <<dal punto di vista dell’apparire infinito>>, FINGENDO, cioè, di pormi in esso, come FINGE anche Severino ed ogni severiniano, poiché l’individuo è FINITO e si colloca _ scrive, parla _ NELL’apparire FINITO, e ciò rende IMPOSSIBILE parlare <<dal punto di vista dell’apparire infinito>>, ANCHE DA PARTE DI Severino!

(9)- <<[I]l severiniano potrebbe dire che, non stando nell’apparire infinito, non si può sapere se e cosa si vede dal punto di vista dell’apparire infinito>>.

NEMMENO il severiniano sta <<nell’apparire infinito>> per poter affermare che in esso ogni contraddizione sia da sempre tolta e che perciò ogni ente appaia nella sua concretezza.

(10)- <<Perché infatti dal punto di vista dell’apparire infinito la x astratta e la x concreta dovrebbero essere alternative tra loro?>>

Non sono alternative, anzi, come detto nel post, esse DEVONO ESSERE ENTRAMBE PRESENTI nell’apparire infinito.

(11)- <<Perchè, se vedi sia la x astratta che la x concreta dovresti vedere due enti?>>

Perché <<Il “concetto astratto dell’astratto” è l’apparire della determinazione particolare dell’originario, come determinazione che non solo è distinta, ma è separata dalle altre determinazioni dell’originario. Ogni concetto astratto dell’astratto è una negazione dell’originario, appunto perché esso è, esplicitamente o implicitamente, negazione del nesso necessario in cui la struttura originaria consiste>>. (Emanuele Severino: La struttura originaria; Introduzione, pag. 43).

Per cui è chiaro che il medesimo ente non possa apparire, al contempo, come concreto e come negazione di tale concretezza.

(12)- <<Perché se vediamo la x concreta non vediamo anche la x astratta, essendo esse lo stesso ente?>>

Infatti io sostengo che nell’apparire infinito DEVONO vedersi AMBEDUE le x.

(13)- <<Certo Severino contesta che la legna sia cenere perché sarebbe a suo dire una contraddizione e contesta che la legna diventi cenere perché ciò implicherebbe a suo dire che la legna sia cenere. Egli contesta anche che qualsiasi cosa che duri nel tempo sia qualcosa di unitario e di identico a se stesso. Ma negherebbe che lo stesso ente possa essere visto da prospettive diverse? Se lo nega effettivamente Fiaschi lo ha messo nei guai. Ma se non lo nega si potrebbe adottare la terza alternativa ipotizzata da Fiaschi per cui nell’apparire infinito si vede la x concreta che è la stessa x astratta che si vedeva nell’apparire finito>>.

L’astratto ed il concreto NON sono due semplici <<prospettive diverse>>, bensì sono reciprocamente ESCLUDENTISI (vedasi il brano di Severino al punto 11).

(14)- <<Se cioè legna e cenere sono due, se la legna che si vorrebbe diventi cenere rimangono sempre due, se l’ente che dura nel tempo è in realtà una serie di un certo numero di enti, tuttavia l’x astratto e l’x concreto sono lo stesso ente, visto sbiadito e isolato nell’apparire finito e concreto e interrelato con tutto il resto nell’apparire infinito>>.

Ma, ben appunto, <<l’x astratto e l’x concreto sono lo stesso ente, visto sbiadito e isolato nell’apparire finito e concreto e interrelato con tutto il resto nell’apparire infinito>>, pertanto SIA l’esser <<visto sbiadito e isolato>> CHE l’esser <<concreto e interrelato>> debbono essere ENTRAMBI presenti nell’apparire infinito, cosicché l’x astratto dell’apparire finito NON sia mai libero dalla contraddizione C e dall’isolamento, NEPPURE nell’apparire infinito, proprio perché in quest’ultimo, l’x libero dalla contraddizione C ossia l’x concreto appare come ALTRO dall’x finito e isolato.

(15)- <<Oppure, sempre scegliendo la terza alternativa, si potrebbe dire che nell’apparire infinito si vede la x concreta perché la x astratta è da sempre tolta essendo contraddittoria. E almeno nel Severino che nel pensier mi fingo, un ente contraddittorio non deve essere necessariamente conservato anche nella prospettiva dell’apparire infinito>>.

Sebbene la x astratta sia, nell’apparire infinito, <<da sempre tolta essendo contraddittoria>>, essa, nell’apparire finito, appare ANCHE come AFFERMATA, altrimenti non potrebbe mai liberarsi diacronicamente dalla propria astrattezza, per cui la x astratta, COSÌ COME ESSA APPARE nell’apparire finito, DEVE altresì apparire (come AFFERMATA) nell’apparire infinito.


Roberto Fiaschi

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 [1] www.gianfrancobertagni.it/materiali/zen/migi.pdf