domenica 19 gennaio 2025

146)- «COME PUÒ SEVERINO CHE, IN QUANTO IO EMPIRICO NON PUÒ ESSERE NELLA VERITÀ, INDICARE LA VERITÀ?»


<<Di seguito riporto un passo, per me fondamentale e sul quale sto ulteriormente meditando, per rispondere in parte alla giusta domanda di molti critici : come può Severino, che a suo stesso dire, in quanto io empirico non può essere nella Verità, indicare la Verità?

Consiglio, nella lettura di ciò che segue, a porre attenzione anche alle negazioni (spesso doppie) che l'autore usa in abbondanza.

Da La Gloria (Adelphi) pag 475:

"[...] un significato può distinguersi dalla parola, e oltrepassarla, solo in quanto esso è il destino della verità, ossia la dimensione semantica la cui negazione è autonegazione. L'affermazione che nel linguaggio della testimonianza del destino il destino non possa apparire non mostra che, nel linguaggio, quella negazione non sia autonegazione, ma mostra che, nonostante l'autonegazione della negazione del destino, nonostante cioè l'incontrovertibilità del destino, che viene indicata dal linguaggio, è impossibile che un contenuto del linguaggio (cioè della volontà, della fede) riesca ad essere il destino della verità. Tuttavia, proprio perché quell'autonegazione, pur manifestandosi nel linguaggio, appare come l'incontrovertibile (e appunto in questo apparire consiste l'élenchos), è necessario che appaia tutto ciò senza di cui l'incontrovertibile non sarebbe tale, ossia è necessario che appaia la totalità della sintassi del destino - la totalità delle costanti sintattiche del destino, la totalità della persintassi dell'essente -, ossia è necessario che questa concretezza sintattica del destino appaia già da sempre al di là dell'isolamento della terra, al di là del linguaggio, al di là del linguaggio che testimonia il destino e dunque al di là dello stesso linguaggio che, qui, ora, sta affermando la necessità che la totalità della sintassi del destino appaia oltre il linguaggio">>.

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Orbene, temo che NEPPURE questo brano di Severino, del resto già noto, riesca a risolvere l’APORIA riassunta da Alessandro Tuzzato nella domanda: <<come può Severino, che a suo stesso dire,in quanto io empirico non può essere nella Verità, indicare la Verità?>>.

Anzi, la precisazione apportata qui sopra da Severino a me pare ergersi come l’ultimo DISPERATO tentativo di ‘ricucire’ ciò che, per il suo stesso statuto ontologico, si è ‘strappato’ ab origine, giacché non può che ‘stare insieme’ in modo, appunto, APORETICO.

A guisa di premessa, giova sempre ricordare la concezione teoretica esplicitata da Severino e espressa (anche) in queste tre (tra molte altre) citazioni:

(1)- <<è contraddittorio che l’individuo sia cosciente della verità del destino>> -  (Severino: La legna e la cenere);

(2)- l’<<io individuale NON PUÒ PENSARE la verità del destino, anche se questa è, come inconscio dell’inconscio, la verità del suo apparire ed essere: l’io dell’individuo NON È e NON PUÒ essere COSCIENTE del proprio essere veritativo. Tale coscienza appartiene SOLO all’Io del destino>> - (Nicoletta Cusano: Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, pag. 434. Maiuscoli miei: RF);

(3)- <<[…] per vedere che il destino sia nella parola è cioè necessario che la volontà [ = l’io empirico-errore] veda il destino; ma, si è rilevato, è impossibile che ciò che appare all’interno di una fede sia il destino della verità. Ma questo non significa che, dunque, la verità sia impossibile. Infatti la volontà [ = l’io empirico-errore] può voler  assegnare la parola al destino – e, innanzitutto, può isolare la terra – solo in quanto il destino appare già da sempre al di fuori dell’isolamento della terra e del linguaggio>> - (Severino: La Gloria, Pag. 475. Parentesi quadre mie: RF; corsivo nel testo).

Possono bastare.

L’individuo-Severino ha scritto tutto ciò che abbiamo appena letto mediante il linguaggio della terra isolata ossia dell’ERRORE; ciò è difficilmente contestabile, anche perché lo afferma lui stesso...

Egli _ l’individuo-Severino _ ha perciò dichiarato che la testimonianza del destino, <<pur manifestandosi nel linguaggio>>, <<non mostra che, nel linguaggio, quella negazione [ = l’élenchos, ossia l’auto-negazione della negazione del destino: RF] non sia autonegazione, ma mostra che, nonostante l'autonegazione della negazione del destino, nonostante cioè l'incontrovertibilità del destino, che viene indicata dal linguaggio, è impossibile che un contenuto del linguaggio (cioè della volontà, della fede) riesca ad essere il destino della verità>>.

Senonché, affermando ciò, allora sarà altrettanto IMPOSSIBILE che l’élenchos, cioè l’auto-negazione della negazione del destino, <<riesca ad essere>> almeno una parte, seppur la più importante, della testimonianza del <<destino della verità>>!

Se è _ e poiché è _ <<impossibile che un contenuto del linguaggio (cioè della volontà, della fede) riesca ad essere il destino della verità>>, allora NON potrà essere o indicare <<il destino della verità>> NEPPURE quel <<contenuto del linguaggio>> costituito dall’élenchos!

Infatti, se tale élenchos riuscisse ad essere quel <<contenuto del linguaggio>> in grado di testimoniare (l’incontrovertibilità de) il destino, allora NON avrebbe più alcun senso ribadire continuamente l’impossibilità <<che un contenuto del linguaggio (cioè della volontà, della fede) riesca ad essere il destino della verità>>.

Una volta posto l’élenchos, la testimonianza del destino della verità seguirebbe senza ostacoli, e così CADREBBE anche la tesi severiniana secondo la quale <<è contraddittorio che l’individuo sia cosciente della verità del destino>>.

Per cui NULLA IMPORTA che <<quell'autonegazione [della negazione del destino: RF], pur manifestandosi nel linguaggio, appa[ia] come l'incontrovertibile>>, perché a questa incontrovertibilità (all’élenchos) vi era giunto anche Aristotele, pur NON avendo affatto, egli, testimoniato alcun destino.

Certo, l’individuo-Severino _ il quale, in quanto individuo, è impossibilitato a <<PENSARE la verità del destino>> poiché è situato, come tutti noi <<all’interno di una fede>> _, nel su riportato brano PENSA che sia

<<necessario che APPAIA la totalità della sintassi del destino - la totalità delle costanti sintattiche del destino, la totalità della persintassi dell'essente -, ossia è necessario che questa concretezza sintattica del destino APPAIA già da sempre al di là dell'isolamento della terra, al di là del linguaggio, al di là del linguaggio che testimonia il destino e dunque al di là dello stesso linguaggio che, qui, ora, sta affermando la necessità che la totalità della sintassi del destino APPAIA oltre il linguaggio">> (maiuscoli miei: RF).

Ma se tutto ciò è <<necessario che APPAIA>>, allora, daccapo, NON HA PIÙ ALCUN SENSO ( = è FALSA) la tesi circa l’impossibilità <<che ciò che APPARE all’interno di una fede sia il destino della verità>>!

Queste due tesi sono incomponibili, quindi, RECIPROCAMENTE CONTRADDICENTISI…

 

Roberto Fiaschi

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