venerdì 31 ottobre 2025

183)- E IL DIAVOLO SUSCITÒ L’ISLAM…

 

Il contenuto del presente post, già negativamente annunciato dal titolo, potrà senz’altro venir considerato, sbagliando, un ulteriore muro di odio innalzato laddove, invece, occorrerebbe COMPRENSIONE improntata al religiosamente corretto.

COMPRENSIONE, certo; ma è appunto in nome di essa che intendo rilevare _ dal mio punto di vista cristiano _ quel che ritengo essere LA DIFFERENZA TEOLOGICA FONDAMENTALE (tra molte altre) vigente tra Cristianesimo ed Islam, venendo meno la quale verrebbe meno il Cristianesimo stesso quale Redenzione dal peccato e Riconciliazione con Dio Padre tramite il Figlio incarnatosi in Gesù, crocifisso e risorto dalla morte. Quindi una comprensione volta ad evidenziare le differenze, anziché a sottacerle o a relativizzarle, come pare oggi di moda, SENZA che ciò debba comportare una qualsivoglia forma di odio...

Pertanto, il contenuto di questo mio scritto verterà esclusivamente su l’aspetto teo-soteriologico appena accennato, costituente l’ABISSALE DIFFERENZA tra Cristianesimo ed Islam: una sorta di breve confronto teologico in cui vi si gioca l’ESSENZA stessa del Cristianesimo.

Ma innanzitutto perché introduco il DIAVOLO in tutto ciò?

<<Il termine "diavolo" deriva dal latino tardo diabŏlus, traduzione fin dalla prima versione della Vulgata (fine IV - inizio V secolo d.C.) del termine greco Διάβολος, diábolos, ("dividere", "colui che divide", "calunniatore", "accusatore"; derivato dal greco - διαβάλλω, diabàllo, composizione di dia "attraverso" bàllo "getto, metto", indi getto, caccio attraverso, trafiggo, metaforicamente anche calunnio). Nell'antica Grecia διάβολος era un aggettivo denotante qualcosa, o qualcuno, calunniatore e diffamatorio; fu usato nel III secolo a.C. per tradurre, nella Septuaginta, l'ebraico Śāān ("avversario", "nemico", "colui che si oppone", "accusatore in giudizio", "contraddittore"; reso negli scritti cristiani come Satanas e qui inteso come "avversario, nemico di Dio")>> - (https://it.wikipedia.org/wiki/Diavolo#cite_ref-etp_3-0).

Infatti, sembrerebbe come minimo irriverente, da parte mia, attribuire al DIAVOLO la paternità dell’Islam, tanto più che <<Nell'Islam, Gesù è considerato un profeta al pari di Muammad>> (https://it.wikipedia.org/wiki/Ges%C3%B9_nell%27islam), ed <<il fatto che tutti i profeti menzionati nelle Sacre Scritture siano riconosciuti da noi musulmani e soprattutto che la Vergine Maria e suo figlio godano di una considerazione del tutto speciale rappresenta un fattore di incontro tra la teologia cristiana e quella musulmana. Ovviamente non mancano divergenze>> - (professor Niyazi Oktem dell’Università di Bilgi, Istanbul. https://www.30giorni.it/articoli_id_9497_l1.htm).

Ma il Gesù a cui l’Islam tributa un innegabile rispetto è LO STESSO Gesù di cui parla il Nuovo Testamento? Oppure è soltanto una mera omonimia tesa ad illudere sulla medesima identità?

Lasciamo che sia l’Islam a parlarci:

Gesù <<nell'islam non è il figlio di Dio, tantomeno Dio egli stesso, ma un profeta che ha preparato la venuta di Maometto: «Rifiutano fede a Dio quelli [i cristiani: nota mia] che dicono: "il Cristo, figlio di Maria, è Dio". Rispondi loro: "Nessuno potrebbe impedire a Dio, se Egli volesse annientare il Cristo figlio di Maria, e sua madre e tutti coloro che sono sulla terra"» (Cor., V:17)>> - (https://it.wikipedia.org/wiki/Ges%C3%B9_nell%27islam).

Quindi <<Gesù non è chiamato Dio né Figlio di Dio, ma figlio di Maria Vergine, creato da Allah: «In verità, per Allah Gesù è simile ad Adamo, che Egli creò dalla polvere e poi disse <<Sii>>, ed egli fu.» (Corano, Sura III, v. 59)>> - (https://it.wikipedia.org/wiki/Ges%C3%B9_nell%27islam).

Ed anche:

<<sebbene i musulmani non credano che Gesù sia il figlio di Dio - una distinzione criticamente importante tra la visione musulmana e cristiana di lui - i musulmani venerano Gesù come un profeta importante>> - (https://www.documentazione.info/cosa-pensano-i-musulmani-di-gesu).

Infine:

<<Un’altra divergenza che, forse, costituisce il più grande motivo di contrasto tra le due religioni è, per così dire, il concetto di trinità che sta alla base della fede cristiana secondo la quale Gesù Cristo è considerato Figlio di Dio. La fede musulmana ammette soltanto Dio, del quale non si può affermare né che è stato generato né che ha generato un figlio. Dio è Uno, e distinguerlo in tre sarebbe come attribuirgli dei simili, il che contraddice nettamente ai principi fondamentali del monoteismo […] I versetti 30-37 [della <<sura “Maria”>>] parlano di Gesù neonato. Egli è “parola della verità” e non figlio di Dio. Vorremmo insistere un po’ su questo concetto di “parola della verità”. Con uno sguardo esclusivamente teologico e senza ricorrere alla filosofia, e cioè identificando la “parola” con la sua fonte, si può facilmente cadere nell’errore di confondere l’essenza e l’esistenza; e chiamare Dio o figlio di Dio la “parola” che ne esprime di fatto l’essenza. Attribuire l’essenza divina a Gesù Cristo è, in effetti, la conseguenza di una tale interpretazione, quanto mai discussa, della teologia cristiana. L’islam, invece, fa questa distinzione dichiarando che Gesù è parola di Dio, ma per nulla Dio figlio di Dio>> - (Niyazi Oktem, cit.).

Le citazioni di parte islamica possono bastare, tanto è chiaro il punto cruciale.

Adesso lasciamo parlare il Cristianesimo:

<<Figlioli, questa è l'ultima ora. Come avete udito che deve venire l'anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi. Da questo conosciamo che è l'ultima ora. 19 Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; ma doveva rendersi manifesto che non tutti sono dei nostri. […] Chi è il bugiardo se non colui che nega che Gesù è il Cristo? L’anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio. Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre>> - (1 Giovanni 2: 18, 22-23);

<<Per questo si manifestò il Figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo>> - (1 Giovanni 3: 8).

Questi versetti sono trasparenti, non necessitano di acrobazie esegetiche al fine di non sembrare fondamentalisti/letteralisti, giacché il Nuovo Testamento non è un testo esoterico accessibile soltanto dopo previa iniziazione rivolta a pochi degni.

Per cui è chiaro; per quanto importante possa apparire Gesù per i musulmani, in realtà Gesù, nell’Islam, costituisce l’esatta ANTITESI del Gesù del Nuovo Testamento.

Come s’è visto, l’Islam <<nega il Figlio>> e quindi l’Islam è <<bugiardo>> in forza di tale negazione.

Negando il Figlio, l’Islam è altresì l’<<anticristo>> quale <<oper[a] del diavolo>> destinato ad essere teologicamente distrutto dalla manifestazione del Figlio.   

Quindi, <<questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio. Chi non crede a Dio, fa di lui un bugiardo, perché non crede alla testimonianza che Dio ha dato riguardo al proprio Figlio. E la testimonianza è questa: Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. Chi ha il Figlio, ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita>> - (1 Giovanni 5: 9-12).

Sebbene i musulmani credano alla testimonianza di un Gesù quale <<“parola della verità”>>, NON lo ritengono <<per nulla Dio figlio di Dio>>, come ha ben precisato sopra Niyazi Oktem.

Il che vuol dire che l’Islam, oltre ad essere <<bugiardo>> perché <<nega il Figlio>>, fa anche <<di lui [di Dio] un bugiardo>> giacché, negando Gesù come Figlio di Dio, automaticamente nega anche la <<testimonianza che Dio ha dato riguardo al proprio Figlio>>.

Quindi l’Islam, misconoscendo il Figlio, NON possiede <<nemmeno il Padre>>!

Rifiutandolo come Figlio, segue che <<secondo un'interpretazione dell'Islam, egli [Gesù] non morì in croce e quindi nemmeno fu resuscitato da Dio, ma ascese direttamente al cielo, assunto in Paradiso e al cospetto di Allah in anima e corpo (III, 55: "O Gesù, ti porrò un termine e ti eleverò a me, e ti purificherò dai miscredenti"). L'Islam non conosce i dogmi tipicamente cristiani della Trinità e dell'Incarnazione, e molti passi del Corano mettono in guardia da queste dottrine, considerate empie e false, per ribadire che Dio è uno e uno solo, ed è assolutamente trascendente rispetto all'umanità>>.

Perciò nell’Islam <<Si nega […] la morte in croce di Gesù e la sua resurrezione: «Hanno detto: "Abbiamo ucciso il Cristo, Gesù figlio di Maria, messaggero di Dio", mentre lo uccisero lo crocifissero ma così parve loro... ma Iddio lo innalzò a sé, e Dio è potente e saggio.» (Cor., IV: 157-158)>> - (https://it.wikipedia.org/wiki/Ges%C3%B9_nell%27islam).

In un colpo solo, l’Islam toglie di mezzo il CUORE stesso del Cristianesimo, cosicché da tutto ciò derivi _ per i cristiani _ l’impossibilità della Redenzione, perché se Gesù NON è morto, NON è neppure resuscitato:

<<Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti>> - (1Corinzi 15, 14-18).

Il tentativo islamico di salvaguardare Gesù dall’obbrobriosa, infamante morte in Croce affermando che <<Iddio lo innalzò a sé>>, facendolo ascendere <<direttamente al cielo>>, può apparire un segno di rispetto, ma, in realtà, nell’Islam Gesù viene piegato alla logica della ragionevolezza puramente umana, come pienamente umana è la logica secondo la quale Gesù NON può essere ritenuto il Figlio di Dio perché <<Dio è uno e uno solo, ed è assolutamente trascendente rispetto all'umanità>>.

In tal modo, viene scavalcato lo SCANDALO d’esser Figlio coeterno di Dio e con esso anche Gesù quale <<primogenito dei morti>> il quale, perciò, NON <<ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue>> - (Apocalisse di Giovanni 1:5 NR 2006).

È sì vero che il <<Corano accetta i principali miracoli di Gesù, inclusa la resurrezione altrui dai morti>>, ma risparmia a Gesù ciò senza la quale Egli cessa di essere per i cristiani <<il primogenito dei morti>> nel cui nome <<ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre>> - (Filippesi 2, 10-11).

Pertanto, il rispetto tributato a Gesù dai musulmani costituisce la cortina fumogena della PIÙ RADICALE NEGAZIONE del Cristo testimoniato dal Nuovo Testamento il quale, perciò, non è rispettato per ciò che Egli è in quanto Figlio di Dio!

Ed è sempre sulla base della stessa logica <<umana, troppo umana>> (F. Nietzsche) che <<Anche la Trinità è negata dall'islam: «O Gente del Libro! non siate stravaganti nella vostra religione e non dite di Dio altro che la verità! Che il Cristo Gesù figlio di Maria non è che il Messaggero di Dio, il suo Verbo che egli depose in Maria, uno Spirito da lui esalato. Credete dunque in Dio e nei suoi messaggeri e non dite: Tre! Basta! E sarà meglio per voi! perché Dio è un Dio solo, troppo glorioso e alto per avere un figlio! A lui appartiene tutto quel ch'è nei cieli e quel ch'è sulla terra, Lui solo basta a proteggerci!» (Cor., IV:171)>>.

Anche qui è ribadito come Gesù NON possa essere il Figlio di Dio.

Peraltro, stante il modo di concepire Dio da parte dell’Islam, il mondo (la creazione tutta) non dovrebbe nemmeno esistere, anzi: NON POTREBBE affatto esistere, neppure come atto di volontà divina, perché, da un lato, anche la volontà di creare renderebbe l’Uno (Allah) intrinsecamente differenziato, come nella Trinità cristiana, rifiutata però dall’Islam; dall’altro lato, l’esistenza del mondo quale ALTRO da Dio farebbe dell’Uno un ALTRO dal mondo, quindi un uno-tra-i-molti, cioè un ente tra molti altri enti e perciò un NON-Uno, un NON-Dio.

Quest’ultimo, infatti, concepito come puramente Uno ( = <<perché Dio è un Dio solo>>, dice il Corano IV:171), impone L’INESISTENZA DEL MOLTEPLICE ( = della creazione) o, nel miglior dei casi, la sua riduzione a PARVENZA, ILLUSIONE _ non a caso nella mistica islamica arabo-persiana il mondo è radicalmente NULLA _, proprio al fine di EVITAR di ridurre a molteplice ( = uno tra i molti) lo stesso Uno assoluto il quale, perciò, deve essere SOLO, appunto: Uno.

Infatti: <<Per l'islam, Dio è l'Entità Trascendente, eterno e assolutamente Uno. Incomparabile, non ha generato, né è stato generato ed esiste oltre lo spazio e il tempo. La concezione islamica di Dio è universale, non legata cioè a una tribù, un popolo o a una personalità, poiché "in verità Allah basta a Se stesso, non ha bisogno del creato" [Corano 29:6].>> - (https://it.wikipedia.org/wiki/Ges%C3%B9_nell%27islam).

Anche in quest’ultimo passaggio si evince come il Dio islamico sia un essere AUTOREFERENZIALE e SOLIPSISTICO, satollo e pago di se stesso, tutt’altro dal Dio trinitario che invece non basta a se stesso in quanto è eterna effusione di amore e perciò di ALTERITÀ.

Ma qui siamo già nel terreno teo-ontologico che non è quello trattato nel presente post… 


Roberto Fiaschi

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giovedì 29 maggio 2025

182)- L’“ASSOLUTO” PARMENIDEO-BACCHINIANO È ASSOGGETTATO AL PdNC (PUNTO).

Riprendo nuovamente il tema indicato dal titolo (vedi anche post n° 120) riportando due citazioni, la prima del prof. Aldo Stella, la seconda del suo allievo Marco Cavaioni:

(1)- <<Parmenide usa l’espressione “essere” per indicare la necessità di un fondamento che sia assoluto e, pertanto, emerga oltre ogni vincolo. L’essere, infatti, non solo costituisce la ragione del non essere del non-essere, ma, più radicalmente, del non essere della “relazione” tra essere e non-essere. [...] L’essere, proprio perché in relazione solo a sé stesso, a rigore non è in relazione affatto: se lo fosse, si dovrebbe ammettere una differenza nell’essere, perché solo così vi sarebbero i due termini che consentono di porre la relazione. Se non che, ciò che è differente dall’essere è non-essere, così che ogni differenza, sia interna all’essere sia esterna ad esso, non può non venire esclusa>>. – A. Stella, Riflessioni teoretiche, Morlacchi, 2023, p. 398.

(2)- Marco Cavaioni: <<Quanto osservato con rigorosa essenzialità da Stella è nient'altro che ciò che impone di pensare l'assolutezza dell'essere. Dicano, dunque, con onestà intellettuale i sedicenti "testimoni" della "verità dell'essere" [Severino e suoi estimatori] – per i quali l'essere è tale solo in relazione oppositiva al nulla – che il loro "essere" non è e non può essere assoluto, perché – di certo – non si può pretendere di avere un assoluto che sia tale ma, nel contempo, anche in relazione (opposizione). Dopodiché, vedremo se abbiano senso un essere ed una verità non assoluti>>.

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Giustamente, Marco Cavaioni ha sempre NEGATO che l’assoluto parmenideo, al quale egli ed il prof. Stella si riferiscono, debba assoggettarsi al principio di non-contraddizione (PdNC):

<<Sarebbe, in effetti, contraddittorio estendere all'assoluto (al vero, al fondamento) il pdnc>>.

Pertanto l’essere, come qui sopra afferma Stella sulla scia di Parmenide, deve emergere <<oltre ogni vincolo>>, ed il PdNC è precisamente IL vincolo per eccellenza da oltrepassare.

Ciò è comprensibile giacché, in tal caso, l’assoluto sarebbe non solo SUBORDINATO al nomos del PdNC (e un assoluto subordinato, non è più assoluto), ma altresì sarebbe DETERMINATO cioè, nuovamente, sarebbe non-assoluto in quanto esso, dovendo ESCLUDERE da sé ed in sé qualsivoglia DIFFERENZA/DISTINZIONE (quindi la stessa molteplicità degli enti) in conformità ai dettami del PdNC, se la ritroverebbe comunque in sé, contraddicendo perciò la propria pretesa semplicità ed indifferenziazione.

Quindi, la domanda è:

riescono i suddetti filosofi nell’intento di mantenere l’assoluto IMMUNE o SVINCOLATO (Ab-soluto = SCIOLTO-DA) dal PdNC?

Direi proprio di NO.

Qualora non vi riuscissero, la loro concezione di assoluto-indifferenziato si rivelerebbe teoreticamente insostenibile.

E sono proprio le parole di Aldo Stella e di Marco Cavaioni a PRECLUDERE la possibilità di ESCLUDERE l’assoluto parmenideo dal dominio del PdNC (e quindi della molteplicità).

Infatti, nel brano (1), Stella afferma esplicitamente l’ESCLUSIONE dall’essere di <<ogni differenza, sia interna all’essere sia esterna ad esso>>, e tale ESCLUSIONE è dettata proprio dal PdNC il quale ESCLUDE <<ogni differenza>> ( = ogni ente) dall’essere parmenideo, per la ragione secondo la quale un qualsiasi ente, differendo da ogni altro, funge da non-essere nei confronti del proprio altro (e viceversa), e questo è contraddittorio _ dice il PdNC _ per cui va ESCLUSO _ conclude sempre il PdNC _ che la differenza (e quindi il molteplice) abiti nell’essere, il quale sarà perciò un essere semplice ed indifferenziato.     

Lo stesso dicasi per il brano (2) di Marco Cavaioni ove egli, in modo ANCOR PIÙ ESPLICITO che in Stella, afferma che <<non si può pretendere di avere un assoluto che sia tale MA, NEL CONTEMPO, anche in relazione (opposizione)>> (maiuscoli tutti miei: RF), giacché <<NEL CONTEMPO>> è la riaffermazione letterale della parola ἅμα del testo aristotelico, che significa: <<nel medesimo tempo>>.

Ritradotto nel nostro caso, abbiamo:

è impossibile che ciò-che-non-è-in-relazione ( = l’assoluto) sia <<NEL CONTEMPO>> ( =  ἅμα) anche in relazione!

 

Roberto Fiaschi

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domenica 25 maggio 2025

181)- LA DISTINZIONE NELL’UNO PARMENIDEO È INNEGABILE, OPPURE È INEVITABILE?

 

La filosofia di Giovanni Romano Bacchin nonché dei suoi prosecutori Aldo Stella e Marco Cavaioni, prevede una DISTINZIONE tra il piano dell’INNEGABILE o dell’assoluto-indifferenziato, ed il piano dell’INEVITABILE o piano del relativo differenziantesi. Il piano dell’inevitabile, però, esiste soltanto dal punto di vista dell’inevitabile stesso, NON dal punto di vista dell’innegabile, per cui, in realtà, secondo i suddetti filosofi esisterebbe SOLTANTO il piano dell’innegabile/assoluto.

Come ha osservato Marco Cavaioni:

<<nell'«uno senza distinzione» […] non tanto si toglie la distinzione, ma radicalmente […] essa mai c'è stata>>.

Bene, su queste premesse, chiedo:

dal punto di vista dell’INNEGABILE, la DISTINZIONE tra il piano dell’innegabile ed il piano dell’inevitabile è una DISTINZIONE INNEGABILE oppure è INEVITABILE?

1)- se essa fosse INNEGABILE, allora anche il piano dell’inevitabile sarebbe innegabile _ appunto perché esso, in virtù della DISTINZIONE innegabile, sarebbe INNEGABILMENTE DISTINTO dal piano dell’innegabile _ e perciò sarebbe pienamente ESSERE, poiché DISTINGUENTESI innegabilmente dal piano dell’innegabile, col risultato, però, che entrambi i piani sarebbero ugualmente innegabili e quindi INDISTINGUIBILI almeno sotto l’aspetto della loro innegabilità, pur restando innegabilmente DISTINTI tanto quanto è DISTINTO l’intero dalla parte o l’assoluto dal relativo e che perciò farebbe del piano dell’assoluto un’altra parte rispetto a ciò (il piano dell’inevitabile o relativo) da cui innegabilmente il primo si DISTINGUE.

Il che segna nell’assoluto stesso un’innegabile DISTINZIONE la quale, perciò, NEGA che esso sia privo di DISTINZIONI, per cui non può essere ritenuto indifferenziato.

Insomma, un’assoluto-indifferenziato inficiato da un’APORIA dietro l’altra…

2)- Se invece la DISTINZIONE fosse soltanto INEVITABILE, ebbene, cambierebbe ben poco, se non nulla, rispetto al punto 1 cioè all’essere innegabile.

Infatti, l’inevitabile è ciò che NON si può evitare, quindi NON si può negare che l’inevitabile sia inevitabile.

Poiché non si può negare che l’inevitabile sia inevitabile, non lo si può perciò evitare in nessun modo, per cui la DISTINZIONE-inevitabile dovrà essere INNEGABILMENTE-inevitabile, altrimenti sarebbe una DISTINZIONE-evitabile.

Ma, appunto, essendo innegabilmente inevitabile, la DISTINZIONE NON può evitare di essere inevitabilmente DISTINZIONE, quindi, innegabilmente essa NON può evitare ( = negare) la propria inevitabilità giacché, se potesse evitarla/negarla, NON sarebbe L’INEVITABILE bensì l’evitabile/negabile.

Conclusione:

in entrambi i punti 1 e 2, la DISTINZIONE risulta SEMPRE INNEGABILE, e perciò l’Uno parmenideo NON può mai risultare indistinto 

 

Roberto Fiaschi

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giovedì 22 maggio 2025

180)- LA DISTINZIONE (IN QUANTO TALE) È SOLO «PRESUPPOSTA»?

 

- O le differenze manifestate dal/nel mondo sono l’apparenza illusoria alle quali sottostà un assoluto MONISMO indifferenziato (concezione di Parmenide, a sx nella foto),

- oppure le differenze manifestate dal/nel mondo rinviano a (o sono espressione di) Dio che, in sé, MAI è privo di DISTINZIONI (concezione cristiana).

Il sostenitore della prima concezione, il filosofo Marco Cavaioni, ha scritto:

<<Bene, allora mi dirai dove si trova la fondazione (dimostrazione) incontrovertibile che i MOLTI "sono", ossia che l'essere è DISTINTO (anziché indistinto). Ovviamente, l'immediatezza fenomenologica non vale come dimostrazione>> (maiuscoli miei: RF) giacché, per lui, l’essere della DISTINZIONE (cioè la DISTINZIONE in quanto tale) è soltanto un presupposto, quindi è una non-verità cioè una ‘verità’ solo presupposta perciò soltanto creduta tale, insomma: essa sarebbe <<un "essere" solo preteso>> per cui _ sempre secondo Marco Cavaioni _, la distinzione-che-appare va dimostrata ricorrendo ad ALTRO rispetto all’<<immediatezza fenomenologica>>: si deve ricorrere al solo logos.

Tuttavia, cosa succede non appena tentiamo di avvalerci del solo logos al fine di dimostrare l’essere della distinzione?

Innanzitutto, poiché per Marco Cavaioni <<l'immediatezza fenomenologica non vale come dimostrazione>>, allora accade che egli abbia GIÀ DISTINTO tale immediatezza dal logos PRIMA ancora che esso dimostri l’essere della distinzione, cosicché chiedere la suddetta dimostrazione è come chiedere la dimostrazione che il logos sia distinto dall’<<immediatezza fenomenologica>>!

Avendola già distinta, egli dovrà ritenere REALE tale distinzione, anziché una semplice presupposizione, altrimenti sarebbe una semplice presupposizione anche la sua convinzione secondo la quale <<l'immediatezza fenomenologica non vale come dimostrazione>>!

Ciò perché la distinzione che si doveva dimostrare, presiede e dirige ‘a monte’ la stessa dimostrazione dell’essere della distinzione, REINTRODUCENDO (riconfermando come INNEGABILE) quella distinzione che Marco Cavaioni chiedeva di dimostrare unicamente mediante il logos!

Egli osserva, però, che tutto ciò non dimostra la non-presuppositività della distinzione, bensì che quest’ultima viene soltanto RESTITUITA come presupposizione iniziale e quindi come non-verità.

Ma, se fosse così, allora, come detto poc’anzi, verrebbe altresì RESTITUITO il carattere di presupposto/non-verità della sua stessa negazione che l’immediatezza fenomenologica possa valere <<come dimostrazione>> nonché della distinzione tra logos ed immediatezza fenomenologica!

Per cui il suo invito a dimostrare che la distinzione non sia una mera parvenza, si è rivelato essere un invito AUTO-CONTRADDITTORIO…  

 

Roberto Fiaschi

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lunedì 19 maggio 2025

179)- «DIMOSTRAZIONE DELL'ESISTENZA DI DIO» DEI «FANTASIOSI TOMISTI»?

Premesso che diffido dalle cosiddette ‘prove’ filosofiche dell’esistenza di Dio, tuttavia mi preme riportare la critica che il filosofo Marco Cavaioni, allievo di Giovanni Romano Bacchin, rivolge alla dimostrazione tomista di Dio a partire dalla positività (o dalla posizione) del mondo:

<<ogni dimostrazione cosmologica (a posteriori) dell'esistenza di Dio – ma sarebbe più corretto dire: di Dio come esistere necessario – è una dimostrazione contraddittoria, perché muove da (poggia su) ciò che è fondato da Dio, cioè appunto muove da quel mondo (fatto, esserci) che in sé è nullo, perché il "CONDIZIONATO" (l'ORIGINATO) in sé è contraddittorio, NON HA ALCUNA SUSSISTENZA AUTONOMA.
Pertanto, l'unico senso in cui esso [il mondo] proverebbe l'esistenza di Dio è il suo [del mondo, del condizionato] TOGLIERSI – e non il suo PORSI, come asseriscono i fantasiosi tomisti – in Dio. Cioè la restituzione che solo Dio è>>. (Maiuscoli e parentesi quadre miei: RF).

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Al netto della questione se il mondo (gli enti) sia POSTO o TOLTO, in questo post interessa soltanto mostrar come la critica di Marco Cavaioni contro la <<dimostrazione cosmologica (a posteriori) dell'esistenza di Dio>> da parte dei <<fantasiosi tomisti>> gli si ritorca contro.

Infatti, ciò che ha scritto nel suo post, AUTO-CONTRADDICENDOSI, equivale a:

“il mondo ( = gli enti), che è condizionato, che non ha alcuna sussistenza autonoma e che perciò dipende ( = è originato) da Dio (o dallessere), NON può fungere da dimostrazione a posteriori dell’esistenza di Dio”!

In pratica, Marco Cavaioni NEGA la <<dimostrazione cosmologica (a posteriori) dell'esistenza di Dio>> proprio nel mentre che la RIAFFERMA!

E, a questo punto, poco o nulla importa che sia il TOGLIMENTO del mondo piuttosto che la sua POSIZIONE a costituirsi come ciò che <<proverebbe l'esistenza di Dio>>:

in entrambi i casi il risultato è il medesimo, giacché egli, contro le proprie intenzioni, ha già comunque VALIDATO ciò che ha criticato, ossia la <<dimostrazione cosmologica (a posteriori)>> nel momento stesso in cui ha fornito la ragione per la quale il mondo (posto o tolto che sia) NON può essere il “trampolino di lancio” per tale dimostrazione.


Roberto Fiaschi

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giovedì 15 maggio 2025

178)- «FASCISMO» METAFISICO

Il titolo che ho dato al presente post NON vuole affatto essere OFFENSIVO , quindi, tacciare di <<fascismo>> nessuno, men che meno Marco Cavaioni, autore del post.

Tuttavia, parresìa vuole che non me ne esima…

il post di Marco Cavaioni è intitolato:

<<25 APRILE METAFISICO>>.

Esso recita:

<<Premesso che io sarei stato senza esitazione tra i partigiani (sebbene di una inesistente brigata metafisica, tipo "Brigata Parmenide" o qualcosa del genere), e questo per una semplicissima ragione: la consapevolezza che la mia vita non è il valore ( = la verità, che rende vera anche la libertà a cui aspiro) e, quindi, non posso non essere sempre pronto a sacrificarla, facendomi "funzione" del valore. Peraltro, mettere in pratica questo atteggiamento (cioè per essere davvero liberi, per liberarsi in vista della libertà) non c'è bisogno di avere sopra la testa un regime politico illiberale. Nondimeno, ciò detto, mi sento di dover fare un paio di rilievi, nel tentativo di non fermarsi a ciò su cui non si può che essere tutti d'accordo (salvo i cretini, il cui disaccordo va benissimo), guardando, se possibile, al cuore delle questioni, domandandosi cioè quale ne sia la radice, l'essenza. Ebbene, la radice del "fascismo" a me sembra sia il dogmatismo. E dogmatico non può non essere qualsiasi sistema, chiaramente anche politico. Ogni sistema si fonda su (meglio: postula) premesse indiscusse e indiscutibili: discuterle sarebbe la sua morte, la sua dissoluzione. Il sistema, per sopravvivere, deve "uccidere" la stessa possibilità di questionarlo, di revocarne in dubbio le basi. Potere è esercizio di potere ed è tale – ed opera con efficacia – proprio perché e se non tollera opposizione, cioè critica. Discuterlo sarebbe esserne già usciti, rendendolo così impotente. Per questo l'ideale del potere è di non apparire tale: il potere è essenzialmente dissociazione tra essere (imposizione) e apparire (necessità, idealmente natura, legge fisica, evidenza: tutto ciò, insomma, che non avrebbe senso mettere in discussione). Il dogmatico è un problema in sé, indubbiamente, ed è ogni presupposto o pretesa di sottrarsi a discussione, dunque di avere ragione, dunque di farsi intero da parte che si è. Ma il vero è solo l'intero, che non ha parti. Il dogmatico è, oltre che "in sé", più tangibilmente un problema "in me" (in ciascuno di noi). Di più: sono io (ciascuno di noi), che non essendo l'intero o la verità, sono un problema, sono problematico. Ed è precisamente questo il punto: riconoscere che ciò che è problematico non può mai venire scambiato per improblematico (appunto dogmatico), assunto come vero senza che lo sia. Lo spazio, il luogo di ogni fascismo, è allora da individuarsi proprio qui: nel non-intero e nella tendenza naturale di ciò che non è l'intero (la parte) a farsi intero, a "totalizzare" tutto il resto. In conclusione: sono certamente gli uomini e gli uomini di valore a liberare (liberarsi e liberare gli altri), ma lo possono fare veramente solo in virtù del riconoscimento di non essere portatori di libertà, ma solo suoi strumenti. Con tutto quello che ciò comporta. Confido di non aver detto cose sbagliate. Il che, poi, significa non credere di aver mai completato definitivamente la "liberazione" dalle pretese di aver ragione: una ragione "posseduta" non è ragione, ma estensione di sé, prolungamento del primo fra i dogmi e fra le certezze: l'ego del soggetto>>.

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Dunque, stante il titolo del presente post, non sarà azzardato accostare il fascismo (ma poi qualsiasi totalitarismo) ad una determinata metafisica, cioè due ordini di realtà completamente diversi?

Mi riferisco all’intero ( = totalità, essere, assoluto…) della metafisica parmenidea, che Marco Cavaioni ha ben compendiato così:

<<il vero è solo l'intero, che non ha parti>>.

In esso la PARTE ( = ogni determinazione) è NULLA, INESSENTE, INESISTENTE, meramente APPARENTE/ILLUSORIA.

Perciò quale valore assegneremo a ciò che neppure ha dignità di ESSERE?

<<[...] per il fascista tutto è nello Stato e nulla di umano e spirituale esiste e tantomeno ha valore fuori dallo Stato. In tal senso il fascismo è totalitario...>>. – (Giovanni Gentile: Enciclopedia Italiana, voce "Fascismo (dottrina del)", Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1932, vol. XIV, pp. 835-840);

trasponiamo ciò alla metafisica parmenidea:

per il metafisico parmenideo tutto (ma in realtà NIENTE) è nell’intero-senza-parti (cioè senza individui) e perciò nulla di umano e di spirituale esiste e tantomeno ha valore IN (e FUORI da) esso. In tal senso l’intero metafisico parmenideo è totalitario

Ed anche:

<<il punto centrale della dottrina fascista è che "lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo">>. - (Arturo Marpicati, Benito Mussolini, Gioacchino Volpe: “Fascismo”, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1932).

Traduciamolo sempre in termini metafisici:

il punto centrale della metafisica parmenidea è che l’intero-senza-parti è l’assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo; relativo, però, nell’accezione PEGGIORE:

relativo = non-essere/illusione, appunto perché, ricordiamolo ancora, <<il vero è solo l'intero, che non ha parti>>.

Pertanto, l’intero-senza-parti TOTALIZZA ontologicamente, ovvero impone-sé (si è da sempre imposto) e ha da sempre TOLTO le parti cioè gli individui che solo illusoriamente ritengono di ESSERE.

A mio parere, il luogo metafisico <<di ogni fascismo>> è da ravvisarsi NON tanto <<nel non-intero e nella tendenza naturale di ciò che non è l'intero (la parte) a farsi intero, a "totalizzare" tutto il resto>>, giacché la parte totalizza sempre parzialmente e si può sempre porvi rimedio, bensì nello stesso intero che è totalitario PER ESSENZA e che perciò NON può tollerare PER SUA NATURA in sé fuori di sé alcuna ALTERITÀ.

Altrove, Marco Cavaioni ebbe a scrivere: <<"Negare" si sa viene da "necare": uccidere. Chi crede di detenere il criterio del vero, non solo si sente legittimato ma, anzi, si sente in dovere di "negare" la negazione del vero (di quel che egli crede sia il vero), cioè di sopprimere l'errore intollerabile>>.

Siccome <<il vero>> a cui egli si riferisce consiste proprio nell’intero parmenideo, ecco che quest’ultimo ha già da sempre METAFISICAMENTE UCCISO/NEGATO ogni DISSENSO ( = ogni parte) a guisa dell’Apeiron anassimandreo che abbandona al proprio destino di nascita/morte-inessenza la parte in quanto tale, perché rea di aver osato infrangere (dissentire da) la sua pura indeterminatezza-senza-parti.

 

Roberto Fiaschi

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martedì 13 maggio 2025

177)- L’ASSOLUTO E LA TRINITÀ IN ALDO STELLA E SANT’AGOSTINO

Riporto un articolo del prof. Aldo Stella intitolato:

<<L’ORDINE DELLA SOSTANZA E L’ORDINE DELLE RELAZIONE (iii)>> (https://ritirifilosofici.it/la-trinita-una-substantia-tres-personae-iii/) del 14 luglio 2024:

<<La nostra ipotesi ermeneutica è che, per intendere il senso della coesistenza dell’Unità e della Trinità, non si possa non fare ricorso alla distinzione di innegabile e in evitabile, ossia si debba introdurre una doppia prospettiva: la prospettiva dell’assoluto, che è una prospettiva “ideale” o “intenzionale”, e la prospettiva di chi si pone nell’universo in cui vige la finitezza (la prospettiva del relativo o “fattuale”). L’ipotesi della “doppia prospettiva” trova espressione anche in Agostino e precisamente nella forma della differenza tra il punto di vista della «sostanza» e quello della «relazione».

Scrive, infatti, Agostino nel De Trinitate:

«Dunque in Dio nulla ha significato accidentale, perché in Lui non vi è accidente, e tuttavia non tutto ciò che di Lui si predica, si predica secondo la sostanza. […] Infatti si parla a volte di Dio secondo la relazione [corsivo nostro]; così il Padre dice relazione al Figlio e il Figlio al Padre, e questa relazione non è accidente, perché l’uno è sempre Padre, l’altro sempre Figlio. […] Se invece il Padre fosse chiamato Padre in rapporto a se stesso e non in relazione al Figlio, e se il Figlio fosse chiamato Figlio in rapporto a se stesso e non in rapporto al Padre, l’uno sarebbe chiamato Padre, l’altro Figlio in senso sostanziale [corsivo nostro]. Ma poiché il Padre non è chiamato Padre se non perché ha un Figlio ed il Figlio non è chiamato Figlio se non perché ha un Padre, queste non sono denominazioni che riguardano la sostanza [corsivo nostro]. Né l’uno né l’altro si riferisce a se stesso, ma l’uno all’altro e queste sono denominazioni che riguardano la relazione [corsivo nostro]. […] Ecco perché, sebbene non sia la stessa cosa essere Padre ed essere Figlio, tuttavia la sostanza non è diversa, perché questi appellativi non appartengono all’ordine della sostanza, ma della relazione [corsivi nostri]». (Agostino, De Trinitate, trad. it., p. 241).

Abbiamo citato quasi per intero il lungo passo di Agostino perché ci sembra che ponga con estrema chiarezza – e lo ribadisca più volte – che l’ordine della sostanza non è l’ordine della relazione. Ciò che Agostino definisce «ordine della relazione» corrisponde all’ordine che noi definiamo dell’inevitabile e cioè all’ordine empirico-formale, nel quale appunto la relazione costituisce la struttura su cui l’ordine poggia. In tale ordine, vige non l’unità, intesa come unità metafisica (ossia come l’uno assoluto), ma la molteplicità.
Di contro, l’«ordine della sostanza» configura l’ordine in cui le tres personae si risolvono nell’unità e questa risoluzione si esprime in un innegabile atto: l’atto del togliersi della molteplicità, perché solo l’unità è veramente intelligibile essendo autonoma e autosufficiente. Se, pertanto, Padre e Figlio sono per la sostanza, e cioè innegabilmente, Uno, per l’ordine della relazione, invece, sono inevitabilmente distinti e cioè sono Due.

Ad ulteriore chiarimento Agostino aggiunge: «Il Figlio dunque non può essere uguale che in senso assoluto. Ma tutto ciò che si afferma in senso assoluto concerne la sostanza; perciò l’uguaglianza del Figlio non può essere che in ordine sostanziale» (ivi, p. 243).

Il senso per il quale Padre e Figlio sono Uno è il senso della sostanza, che coincide con il senso dell’assoluto: se ci si pone idealmente dalla prospettiva (senso) dell’assoluto, allora solo l’assoluto è, perché l’Uno è l’innegabile ragione del togliersi del molteplice; meglio, l’Uno è l’innegabile ragione dell’essersi da sempre tolto del molteplice.

Va inoltre specificato che, se tra Padre e Figlio v’è identità (unità) nella sostanza, tra le cose create l’unità è il loro essersi da sempre tolte come molteplici e tale unità può venire intesa se, e solo se, esse vengono colte dal punto di vista dell’unità stessa, cioè dell’assoluto, cioè dell’innegabile. Se, invece, si parla di unità, ma a muovere dalla prospettiva del molteplice, allora si ha a che fare con l’unificazione, non con la vera unità. L’unificazione è la sintesi che mantiene la molteplicità. Di contro, l’unità si realizza solo nel perdersi del molteplice nell’Uno: «Dopo il Signore ci indica che egli è il Mediatore grazie al quale siamo riconciliati con Dio, con queste parole: Io in essi e tu in me, affinché siano consumati nell’unità» (ivi, p. 197).

Tra le cose create, insomma, si può configurare di fatto solo un’unificazione, una sintesi, una relazione, che viene intesa come comunanza nell’amore. L’amore, però, esprime una riconciliazione con Cristo che non è solo relazionale: le diversità che sussistono tra gli uomini vengono meno nell’unità del Cristo e l’unità di Cristo con Dio toglie ogni residua distinzione (dualità).

Ciò viene confermato da quanto Agostino dice a proposito del Cristo, il quale è costituito bensì di una duplice natura, umana e divina, ma solo se lo si pensa a muovere dalla relazione e cioè dalla prospettiva della finitezza. Se, invece, lo si pensa a muovere dalla sostanza, ossia a muovere dall’assoluto, che è il punto di vista di Dio – che l’uomo può intendere solo idealmente –, allora il Cristo in quanto uomo si toglie nel Cristo in quanto Dio. Il Figlio, dice Agostino, è «inferiore» a sé stesso in quanto uomo, oltre che «inferiore» a Dio e allo Spirito Santo: «È inferiore anche a se stesso, poiché di lui è detto: Esinanì se stesso; è inferiore allo Spirito Santo, perché egli stesso dice: Chiunque parlerà contro il Figlio sarà perdonato, ma non sarà perdonato chi avrà parlato contro lo Spirito Santo» (ivi, p. 45). Il Cristo-uomo è una determinazione, laddove il Cristo che si risolve in Dio è il suo inverare il mondo inverando sé stesso.
Ebbene, l’atto dell’inverarsi del Cristo è precisamente lo Spirito Santo, il quale non va inteso come ipostasi, cioè come medio, ma appunto come atto. Spirito è il trascendere ogni finitezza, inclusa la finitezza che è del Dio fattosi uomo.

Riferimenti bibliografici: Agostino, De Trinitate, trad. it. di G. Beschin, La Trinità, Città Nuova Editrice, Roma 1973>>. 

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Da parte mia, ritengo che Sant’Agostino NON possa supportare l’<<ipotesi ermeneutica>> proposta dal prof. Stella <<per intendere il senso della coesistenza dell’Unità e della Trinità>>, consistente nella <<distinzione di innegabile e in evitabile>> cioè in una <<doppia prospettiva: la prospettiva dell’assoluto, che è una prospettiva “ideale” o “intenzionale”, e la prospettiva di chi si pone nell’universo in cui vige la finitezza (la prospettiva del relativo o “fattuale”)>> che troverebbe <<espressione anche in Agostino e precisamente nella forma della differenza tra il punto di vista della «sostanza» e quello della «relazione»>>.

La ragione di questa <<doppia prospettiva>>, cioè la <<distinzione di innegabile e inevitabile>>, ha lo scopo di PRESERVARE l’unità dell’assoluto da qualsivoglia DISTINZIONE interna ed esterna ad esso, quindi di preservarlo dall’<<ordine della relazione>>, giacché all’assoluto spetterebbe soltanto <<l’ordine della sostanza>>.

Tuttavia, come anche Stella riporta, Agostino afferma che <<in Dio nulla ha significato accidentale, perché in Lui non vi è accidente>>, sebbene <<non tutto ciò che di Lui si predica, si predica secondo la sostanza>>.

Certo, però questo NON significa che il parlare <<a volte di Dio secondo la relazione>> debba relegare quest’ultima al solo piano dell’inevitabile e non dell’assoluto; ciò vorrebbe dire ESCLUDERE <<le tres personae>> da Dio, per confinarle unicamente nel nostro punto di vista, cioè nel piano dell’inevitabile (evocando così una sorta di monarchianismo filosofico).

Infatti vedremo come la relazione costituisca L’ESSENZA stessa di Dio.

L’<<ipotesi della “doppia prospettiva”>> trova sì espressione anche in Sant’Agostino <<e precisamente nella forma della differenza tra il punto di vista della «sostanza» e quello della «relazione»>> ma, ricordiamolo ancora, siccome <<in Dio nulla ha significato accidentale, perché in Lui non vi è accidente>>, allora per Agostino questa differenza e quindi la stessa relazione sono IN Dio, anziché, come sostiene la prospettiva di Stella, far coincidere con l’assoluto/Dio <<il punto di vista della «sostanza»>> (in quanto <<solo l’assoluto è, perché l’Uno è l’innegabile ragione del togliersi del molteplice>>, e far coincidere con il relativo/molteplice (che, secondo Stella, mai è, in quanto da sempre tolto) il punto di vista <<della «relazione»>> o dell’inevitabile.

Partiamo dunque da quest’affermazione di Agostino:

<<tu vedi la Trinità, se vedi l’amore>> (De. Trin. 8:12),

perché

<<Dio è amore>> (1 Giovanni 4:8).

E prosegue Agostino:

<<Le persone divine non sono più di tre: la prima che ama quella che nasce, la seconda che ama quella da cui nasce e la terza che è lo stesso amore>>;

<<l’amore suppone uno che ama e con l’amore si ama qualcosa. Ecco tre cose: colui che ama, ciò che è amato, e l’amore stesso. Che è dunque l’amore se non una vita che unisce, o che tende a che si uniscano due esseri, cioè colui che ama e ciò che è amato?>> (Idem: 8, 10, 14).

E come dice l’ormai celebre nonché universalmente condivisa (in ambito teologico) affermazione di Karl Rahner:

<<La Trinità economica è la Trinità immanente e viceversa>>.

Questo “assioma” mostra come Dio in ( = la Trinità immanente) _ ciò che Aldo Stella chiama <<il punto di vista della «sostanza»>> o dell’innegabile _, NON sia ALTRO rispetto al Dio per noi ( = la Trinità economica) _ ossia rispetto alla <<prospettiva di chi si pone nell’universo in cui vige la finitezza (la prospettiva del relativo o “fattuale”)>>, come invece è previsto nella concezione su esposta di Aldo Stella, appunto perché

<<La Trinità economica È la Trinità immanente e viceversa>>, il che vuol dire che la Trinità immanente è in DIFFERENZIATA tanto quanto lo è la Trinità economica.

Torniamo ad Agostino.

Cosa si evidenzia dal fatto che <<tu vedi la Trinità, se vedi l’amore>>?

Si evidenzia che Dio, in , è essenzialmente RELAZIONALITÀ quindi DISTINZIONE/MOLTEPLICITÀ pur nell’inscalfibile UNITÀ.

È l’amore (caritas, ἀγάπη: agápē) stesso a costituirsi come tale.

Se infatti <<colui che ama, ciò che è amato, e l’amore stesso>> non si distinguessero, non vi sarebbe <<lamore>> tout court, giacché non vi sarebbe <<colui che ama>> e quindi non vi sarebbe neppure <<ciò che è amato>>; resterebbe un monolite incapace di EFFUSIVITÀ e DINAMISMO assomigliante perciò ad un Ego assoluto, quindi assolutamente nonché narcisisticamente ripiegato su sé stesso, per cui sarebbe follia ritener che l’indistinto UNO parmenideo possa aver anche solo lontanamente a che fare con l’amore (ἀγάπη).

Senonché, il prof. Stella precisa che

<<l’unità si realizza solo nel perdersi del molteplice nell’Uno>>, e cita Agostino:

<<«Dopo il Signore ci indica che egli è il Mediatore grazie al quale siamo riconciliati con Dio, con queste parole: Io in essi e tu in me, affinché siano consumati nell’unità»>>.

Tenderei per un’interpretazione diversa da quella offerta da Stella.

Se infatti ci consumassimo _ nel senso di: ci perdessimo _ <<nell’Uno>>, allora IN Dio si consumerebbe _ si perderebbe _ anche <<ciò che è amato>> (noi nel Figlio, nonché il Figlio stesso), cosicché si consumerebbe/si perderebbe <<l’amore stesso>> cioè Dio stesso in quanto tale!

Ma è lo stesso Sant’Agostino ad indirizzarci sull’interpretazione a mio avviso corretta:

Cristo <<vuole che i suoi siano una sola cosa, ma in lui. Infatti in se stessi ne sarebbero incapaci, disuniti l'uno dall'altro dalle opposte volontà, dalle passioni, dalle immondezze dei peccati. Per questo sono purificati dal Mediatore per essere una sola cosa in lui, non solo nell'unità della natura, nella quale da uomini mortali diventano uguali agli Angeli, ma anche per l'identità di una volontà che cospira in pieno accordo alla medesima beatitudine, fusa in qualche modo in un solo spirito dal fuoco della carità>> (412, 95-97).

Divenendo <<uguali agli Angeli>>, NON perdiamo l’individualità ( = la distinzione) ma la MORTALITÀ, giacché gli Angeli NON sono Dio. Per cui, divenendo <<uguali agli Angeli>> NON diveniamo uguali a Dio, ma saremo comunque <<una sola cosa in lui […] nell'unità della natura>>.   

Ugualmente, ritrovandoci ad essere <<una sola cosa, ma in lui>>, NON perdiamo l’individualità, bensì la DISUNITÀ scaturente <<dalle opposte volontà, dalle passioni, dalle immondezze dei peccati>>, sì che il <<Mediatore>> ci PURIFICHI da tutto ciò ma sempre senza perdere alcun tratto personale.

Tutto questo, per quanto riguarda il supporto ermeneutico che Sant’Agostino avrebbe dovuto apportare all’<<ipotesi>> avanzata dal prof. Aldo Stella.

Invece, per un’analisi strettamente metafisica, un prossimo post…

 

Roberto Fiaschi

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