martedì 13 maggio 2025

177)- L’ASSOLUTO E LA TRINITÀ IN ALDO STELLA E SANT’AGOSTINO

Riporto un articolo del prof. Aldo Stella intitolato:

<<L’ORDINE DELLA SOSTANZA E L’ORDINE DELLE RELAZIONE (iii)>> (https://ritirifilosofici.it/la-trinita-una-substantia-tres-personae-iii/) del 14 luglio 2024:

<<La nostra ipotesi ermeneutica è che, per intendere il senso della coesistenza dell’Unità e della Trinità, non si possa non fare ricorso alla distinzione di innegabile e in evitabile, ossia si debba introdurre una doppia prospettiva: la prospettiva dell’assoluto, che è una prospettiva “ideale” o “intenzionale”, e la prospettiva di chi si pone nell’universo in cui vige la finitezza (la prospettiva del relativo o “fattuale”). L’ipotesi della “doppia prospettiva” trova espressione anche in Agostino e precisamente nella forma della differenza tra il punto di vista della «sostanza» e quello della «relazione».

Scrive, infatti, Agostino nel De Trinitate:

«Dunque in Dio nulla ha significato accidentale, perché in Lui non vi è accidente, e tuttavia non tutto ciò che di Lui si predica, si predica secondo la sostanza. […] Infatti si parla a volte di Dio secondo la relazione [corsivo nostro]; così il Padre dice relazione al Figlio e il Figlio al Padre, e questa relazione non è accidente, perché l’uno è sempre Padre, l’altro sempre Figlio. […] Se invece il Padre fosse chiamato Padre in rapporto a se stesso e non in relazione al Figlio, e se il Figlio fosse chiamato Figlio in rapporto a se stesso e non in rapporto al Padre, l’uno sarebbe chiamato Padre, l’altro Figlio in senso sostanziale [corsivo nostro]. Ma poiché il Padre non è chiamato Padre se non perché ha un Figlio ed il Figlio non è chiamato Figlio se non perché ha un Padre, queste non sono denominazioni che riguardano la sostanza [corsivo nostro]. Né l’uno né l’altro si riferisce a se stesso, ma l’uno all’altro e queste sono denominazioni che riguardano la relazione [corsivo nostro]. […] Ecco perché, sebbene non sia la stessa cosa essere Padre ed essere Figlio, tuttavia la sostanza non è diversa, perché questi appellativi non appartengono all’ordine della sostanza, ma della relazione [corsivi nostri]». (Agostino, De Trinitate, trad. it., p. 241).

Abbiamo citato quasi per intero il lungo passo di Agostino perché ci sembra che ponga con estrema chiarezza – e lo ribadisca più volte – che l’ordine della sostanza non è l’ordine della relazione. Ciò che Agostino definisce «ordine della relazione» corrisponde all’ordine che noi definiamo dell’inevitabile e cioè all’ordine empirico-formale, nel quale appunto la relazione costituisce la struttura su cui l’ordine poggia. In tale ordine, vige non l’unità, intesa come unità metafisica (ossia come l’uno assoluto), ma la molteplicità.
Di contro, l’«ordine della sostanza» configura l’ordine in cui le tres personae si risolvono nell’unità e questa risoluzione si esprime in un innegabile atto: l’atto del togliersi della molteplicità, perché solo l’unità è veramente intelligibile essendo autonoma e autosufficiente. Se, pertanto, Padre e Figlio sono per la sostanza, e cioè innegabilmente, Uno, per l’ordine della relazione, invece, sono inevitabilmente distinti e cioè sono Due.

Ad ulteriore chiarimento Agostino aggiunge: «Il Figlio dunque non può essere uguale che in senso assoluto. Ma tutto ciò che si afferma in senso assoluto concerne la sostanza; perciò l’uguaglianza del Figlio non può essere che in ordine sostanziale» (ivi, p. 243).

Il senso per il quale Padre e Figlio sono Uno è il senso della sostanza, che coincide con il senso dell’assoluto: se ci si pone idealmente dalla prospettiva (senso) dell’assoluto, allora solo l’assoluto è, perché l’Uno è l’innegabile ragione del togliersi del molteplice; meglio, l’Uno è l’innegabile ragione dell’essersi da sempre tolto del molteplice.

Va inoltre specificato che, se tra Padre e Figlio v’è identità (unità) nella sostanza, tra le cose create l’unità è il loro essersi da sempre tolte come molteplici e tale unità può venire intesa se, e solo se, esse vengono colte dal punto di vista dell’unità stessa, cioè dell’assoluto, cioè dell’innegabile. Se, invece, si parla di unità, ma a muovere dalla prospettiva del molteplice, allora si ha a che fare con l’unificazione, non con la vera unità. L’unificazione è la sintesi che mantiene la molteplicità. Di contro, l’unità si realizza solo nel perdersi del molteplice nell’Uno: «Dopo il Signore ci indica che egli è il Mediatore grazie al quale siamo riconciliati con Dio, con queste parole: Io in essi e tu in me, affinché siano consumati nell’unità» (ivi, p. 197).

Tra le cose create, insomma, si può configurare di fatto solo un’unificazione, una sintesi, una relazione, che viene intesa come comunanza nell’amore. L’amore, però, esprime una riconciliazione con Cristo che non è solo relazionale: le diversità che sussistono tra gli uomini vengono meno nell’unità del Cristo e l’unità di Cristo con Dio toglie ogni residua distinzione (dualità).

Ciò viene confermato da quanto Agostino dice a proposito del Cristo, il quale è costituito bensì di una duplice natura, umana e divina, ma solo se lo si pensa a muovere dalla relazione e cioè dalla prospettiva della finitezza. Se, invece, lo si pensa a muovere dalla sostanza, ossia a muovere dall’assoluto, che è il punto di vista di Dio – che l’uomo può intendere solo idealmente –, allora il Cristo in quanto uomo si toglie nel Cristo in quanto Dio. Il Figlio, dice Agostino, è «inferiore» a sé stesso in quanto uomo, oltre che «inferiore» a Dio e allo Spirito Santo: «È inferiore anche a se stesso, poiché di lui è detto: Esinanì se stesso; è inferiore allo Spirito Santo, perché egli stesso dice: Chiunque parlerà contro il Figlio sarà perdonato, ma non sarà perdonato chi avrà parlato contro lo Spirito Santo» (ivi, p. 45). Il Cristo-uomo è una determinazione, laddove il Cristo che si risolve in Dio è il suo inverare il mondo inverando sé stesso.
Ebbene, l’atto dell’inverarsi del Cristo è precisamente lo Spirito Santo, il quale non va inteso come ipostasi, cioè come medio, ma appunto come atto. Spirito è il trascendere ogni finitezza, inclusa la finitezza che è del Dio fattosi uomo.

Riferimenti bibliografici: Agostino, De Trinitate, trad. it. di G. Beschin, La Trinità, Città Nuova Editrice, Roma 1973>>. 

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Da parte mia, ritengo che Sant’Agostino NON possa supportare l’<<ipotesi ermeneutica>> proposta dal prof. Stella <<per intendere il senso della coesistenza dell’Unità e della Trinità>>, consistente nella <<distinzione di innegabile e in evitabile>> cioè in una <<doppia prospettiva: la prospettiva dell’assoluto, che è una prospettiva “ideale” o “intenzionale”, e la prospettiva di chi si pone nell’universo in cui vige la finitezza (la prospettiva del relativo o “fattuale”)>> che troverebbe <<espressione anche in Agostino e precisamente nella forma della differenza tra il punto di vista della «sostanza» e quello della «relazione»>>.

La ragione di questa <<doppia prospettiva>>, cioè la <<distinzione di innegabile e inevitabile>>, ha lo scopo di PRESERVARE l’unità dell’assoluto da qualsivoglia DISTINZIONE interna ed esterna ad esso, quindi di preservarlo dall’<<ordine della relazione>>, giacché all’assoluto spetterebbe soltanto <<l’ordine della sostanza>>.

Tuttavia, come anche Stella riporta, Agostino afferma che <<in Dio nulla ha significato accidentale, perché in Lui non vi è accidente>>, sebbene <<non tutto ciò che di Lui si predica, si predica secondo la sostanza>>.

Certo, però questo NON significa che il parlare <<a volte di Dio secondo la relazione>> debba relegare quest’ultima al solo piano dell’inevitabile e non dell’assoluto; ciò vorrebbe dire ESCLUDERE <<le tres personae>> da Dio, per confinarle unicamente nel nostro punto di vista, cioè nel piano dell’inevitabile (evocando così una sorta di monarchianismo filosofico).

Infatti vedremo come la relazione costituisca L’ESSENZA stessa di Dio.

L’<<ipotesi della “doppia prospettiva”>> trova sì espressione anche in Sant’Agostino <<e precisamente nella forma della differenza tra il punto di vista della «sostanza» e quello della «relazione»>> ma, ricordiamolo ancora, siccome <<in Dio nulla ha significato accidentale, perché in Lui non vi è accidente>>, allora per Agostino questa differenza e quindi la stessa relazione sono IN Dio, anziché, come sostiene la prospettiva di Stella, far coincidere con l’assoluto/Dio <<il punto di vista della «sostanza»>> (in quanto <<solo l’assoluto è, perché l’Uno è l’innegabile ragione del togliersi del molteplice>>, e far coincidere con il relativo/molteplice (che, secondo Stella, mai è, in quanto da sempre tolto) il punto di vista <<della «relazione»>> o dell’inevitabile.

Partiamo dunque da quest’affermazione di Agostino:

<<tu vedi la Trinità, se vedi l’amore>> (De. Trin. 8:12),

perché

<<Dio è amore>> (1 Giovanni 4:8).

E prosegue Agostino:

<<Le persone divine non sono più di tre: la prima che ama quella che nasce, la seconda che ama quella da cui nasce e la terza che è lo stesso amore>>;

<<l’amore suppone uno che ama e con l’amore si ama qualcosa. Ecco tre cose: colui che ama, ciò che è amato, e l’amore stesso. Che è dunque l’amore se non una vita che unisce, o che tende a che si uniscano due esseri, cioè colui che ama e ciò che è amato?>> (Idem: 8, 10, 14).

E come dice l’ormai celebre nonché universalmente condivisa (in ambito teologico) affermazione di Karl Rahner:

<<La Trinità economica è la Trinità immanente e viceversa>>.

Questo “assioma” mostra come Dio in ( = la Trinità immanente) _ ciò che Aldo Stella chiama <<il punto di vista della «sostanza»>> o dell’innegabile _, NON sia ALTRO rispetto al Dio per noi ( = la Trinità economica) _ ossia rispetto alla <<prospettiva di chi si pone nell’universo in cui vige la finitezza (la prospettiva del relativo o “fattuale”)>>, come invece è previsto nella concezione su esposta di Aldo Stella, appunto perché

<<La Trinità economica È la Trinità immanente e viceversa>>, il che vuol dire che la Trinità immanente è in DIFFERENZIATA tanto quanto lo è la Trinità economica.

Torniamo ad Agostino.

Cosa si evidenzia dal fatto che <<tu vedi la Trinità, se vedi l’amore>>?

Si evidenzia che Dio, in , è essenzialmente RELAZIONALITÀ quindi DISTINZIONE/MOLTEPLICITÀ pur nell’inscalfibile UNITÀ.

È l’amore (caritas, ἀγάπη: agápē) stesso a costituirsi come tale.

Se infatti <<colui che ama, ciò che è amato, e l’amore stesso>> non si distinguessero, non vi sarebbe <<lamore>> tout court, giacché non vi sarebbe <<colui che ama>> e quindi non vi sarebbe neppure <<ciò che è amato>>; resterebbe un monolite incapace di EFFUSIVITÀ e DINAMISMO assomigliante perciò ad un Ego assoluto, quindi assolutamente nonché narcisisticamente ripiegato su sé stesso, per cui sarebbe follia ritener che l’indistinto UNO parmenideo possa aver anche solo lontanamente a che fare con l’amore (ἀγάπη).

Senonché, il prof. Stella precisa che

<<l’unità si realizza solo nel perdersi del molteplice nell’Uno>>, e cita Agostino:

<<«Dopo il Signore ci indica che egli è il Mediatore grazie al quale siamo riconciliati con Dio, con queste parole: Io in essi e tu in me, affinché siano consumati nell’unità»>>.

Tenderei per un’interpretazione diversa da quella offerta da Stella.

Se infatti ci consumassimo _ nel senso di: ci perdessimo _ <<nell’Uno>>, allora IN Dio si consumerebbe _ si perderebbe _ anche <<ciò che è amato>> (noi nel Figlio, nonché il Figlio stesso), cosicché si consumerebbe/si perderebbe <<l’amore stesso>> cioè Dio stesso in quanto tale!

Ma è lo stesso Sant’Agostino ad indirizzarci sull’interpretazione a mio avviso corretta:

Cristo <<vuole che i suoi siano una sola cosa, ma in lui. Infatti in se stessi ne sarebbero incapaci, disuniti l'uno dall'altro dalle opposte volontà, dalle passioni, dalle immondezze dei peccati. Per questo sono purificati dal Mediatore per essere una sola cosa in lui, non solo nell'unità della natura, nella quale da uomini mortali diventano uguali agli Angeli, ma anche per l'identità di una volontà che cospira in pieno accordo alla medesima beatitudine, fusa in qualche modo in un solo spirito dal fuoco della carità>> (412, 95-97).

Divenendo <<uguali agli Angeli>>, NON perdiamo l’individualità ( = la distinzione) ma la MORTALITÀ, giacché gli Angeli NON sono Dio. Per cui, divenendo <<uguali agli Angeli>> NON diveniamo uguali a Dio, ma saremo comunque <<una sola cosa in lui […] nell'unità della natura>>.   

Ugualmente, ritrovandoci ad essere <<una sola cosa, ma in lui>>, NON perdiamo l’individualità, bensì la DISUNITÀ scaturente <<dalle opposte volontà, dalle passioni, dalle immondezze dei peccati>>, sì che il <<Mediatore>> ci PURIFICHI da tutto ciò ma sempre senza perdere alcun tratto personale.

Tutto questo, per quanto riguarda il supporto ermeneutico che Sant’Agostino avrebbe dovuto apportare all’<<ipotesi>> avanzata dal prof. Aldo Stella.

Invece, per un’analisi strettamente metafisica, un prossimo post…

 

Roberto Fiaschi

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