Riporto
un articolo del prof. Aldo Stella intitolato:
<<L’ORDINE DELLA SOSTANZA E L’ORDINE DELLE RELAZIONE
(iii)>> (https://ritirifilosofici.it/la-trinita-una-substantia-tres-personae-iii/) del 14 luglio 2024:
<<La nostra ipotesi ermeneutica è
che, per intendere il senso della coesistenza dell’Unità e
della Trinità, non si possa non fare ricorso alla distinzione di innegabile
e in evitabile, ossia si debba introdurre una doppia prospettiva:
la prospettiva dell’assoluto, che è una prospettiva “ideale” o “intenzionale”,
e la prospettiva di chi si pone nell’universo in cui vige la finitezza (la
prospettiva del relativo o “fattuale”). L’ipotesi della “doppia prospettiva”
trova espressione anche in Agostino e precisamente nella forma della differenza
tra il punto di vista della «sostanza» e quello della «relazione».
Scrive, infatti, Agostino nel De Trinitate:
«Dunque in Dio nulla ha significato accidentale, perché in
Lui non vi è accidente, e tuttavia non tutto ciò che di Lui si predica, si
predica secondo la sostanza. […] Infatti si parla a volte di Dio secondo
la relazione [corsivo nostro]; così il Padre dice relazione al Figlio
e il Figlio al Padre, e questa relazione non è accidente, perché l’uno è sempre
Padre, l’altro sempre Figlio. […] Se invece il Padre fosse chiamato Padre in
rapporto a se stesso e non in relazione al Figlio, e se il Figlio fosse
chiamato Figlio in rapporto a se stesso e non in rapporto al Padre, l’uno
sarebbe chiamato Padre, l’altro Figlio in senso sostanziale [corsivo
nostro]. Ma poiché il Padre non è chiamato Padre se non perché ha un Figlio ed
il Figlio non è chiamato Figlio se non perché ha un Padre, queste non sono
denominazioni che riguardano la sostanza [corsivo nostro]. Né
l’uno né l’altro si riferisce a se stesso, ma l’uno all’altro e queste sono
denominazioni che riguardano la relazione [corsivo nostro].
[…] Ecco perché, sebbene non sia la stessa cosa essere Padre ed essere Figlio,
tuttavia la sostanza non è diversa, perché questi appellativi non appartengono
all’ordine della sostanza, ma della relazione [corsivi
nostri]». (Agostino, De Trinitate, trad. it., p. 241).
Abbiamo citato quasi per intero il lungo passo di Agostino
perché ci sembra che ponga con estrema chiarezza – e lo ribadisca più volte –
che l’ordine della sostanza non è l’ordine della relazione. Ciò che
Agostino definisce «ordine della relazione» corrisponde all’ordine che noi definiamo
dell’inevitabile e cioè all’ordine empirico-formale, nel quale
appunto la relazione costituisce la struttura su cui l’ordine
poggia. In tale ordine, vige non l’unità, intesa come unità metafisica (ossia
come l’uno assoluto), ma la molteplicità.
Di contro, l’«ordine della sostanza» configura l’ordine in cui le tres personae si
risolvono nell’unità e questa risoluzione si esprime in un innegabile
atto: l’atto del togliersi della molteplicità, perché solo
l’unità è veramente intelligibile essendo autonoma e
autosufficiente. Se, pertanto, Padre e Figlio sono per la sostanza,
e cioè innegabilmente, Uno, per l’ordine della relazione,
invece, sono inevitabilmente distinti e cioè sono Due.
Ad ulteriore chiarimento Agostino aggiunge: «Il Figlio dunque
non può essere uguale che in senso assoluto. Ma tutto ciò che si afferma in
senso assoluto concerne la sostanza; perciò l’uguaglianza del Figlio non può
essere che in ordine sostanziale» (ivi, p. 243).
Il senso per il quale Padre e Figlio sono
Uno è il senso della sostanza, che coincide con il senso dell’assoluto:
se ci si pone idealmente dalla prospettiva (senso)
dell’assoluto, allora solo l’assoluto è, perché l’Uno è l’innegabile ragione del
togliersi del molteplice; meglio, l’Uno è l’innegabile ragione dell’essersi
da sempre tolto del molteplice.
Va inoltre specificato che, se tra Padre e Figlio v’è
identità (unità) nella sostanza, tra le cose create l’unità è il loro essersi
da sempre tolte come molteplici e tale unità può venire intesa se, e
solo se, esse vengono colte dal punto di vista dell’unità stessa, cioè
dell’assoluto, cioè dell’innegabile. Se, invece, si parla di unità, ma a
muovere dalla prospettiva del molteplice, allora si ha a che fare con l’unificazione,
non con la vera unità. L’unificazione è la sintesi che
mantiene la molteplicità. Di contro, l’unità si realizza solo nel perdersi
del
molteplice nell’Uno: «Dopo il Signore ci indica che egli è il Mediatore grazie
al quale siamo riconciliati con Dio, con queste parole: Io in essi e tu
in me, affinché siano consumati
nell’unità» (ivi, p. 197).
Tra le cose create, insomma, si può configurare di
fatto solo un’unificazione, una sintesi, una relazione, che viene
intesa come comunanza nell’amore. L’amore, però, esprime una
riconciliazione con Cristo che non è solo relazionale: le diversità che
sussistono tra gli uomini vengono meno nell’unità del Cristo e l’unità di
Cristo con Dio toglie ogni residua distinzione (dualità).
Ciò viene confermato da quanto Agostino dice a proposito del
Cristo, il quale è costituito bensì di una duplice natura, umana e divina, ma
solo se lo si pensa a muovere dalla relazione e cioè dalla prospettiva
della finitezza. Se, invece, lo si pensa a muovere dalla sostanza,
ossia a muovere dall’assoluto, che è il punto di vista di Dio – che
l’uomo può intendere solo idealmente –, allora il Cristo in
quanto uomo si toglie nel Cristo in quanto Dio. Il Figlio, dice Agostino, è
«inferiore» a sé stesso in quanto uomo, oltre che «inferiore» a Dio e allo
Spirito Santo: «È inferiore anche a se stesso, poiché di lui è detto: Esinanì
se stesso; è inferiore allo Spirito Santo, perché egli stesso dice: Chiunque
parlerà contro il Figlio sarà perdonato, ma non sarà perdonato chi avrà parlato
contro lo Spirito Santo» (ivi, p. 45). Il Cristo-uomo è una determinazione,
laddove il Cristo che si risolve in Dio è il suo inverare il mondo
inverando sé stesso.
Ebbene, l’atto dell’inverarsi del Cristo è precisamente lo Spirito Santo,
il quale non va inteso come ipostasi, cioè come medio, ma appunto
come atto. Spirito è il trascendere ogni
finitezza, inclusa la finitezza che è del Dio fattosi uomo.
Riferimenti bibliografici: Agostino, De Trinitate,
trad. it. di G. Beschin, La Trinità, Città Nuova Editrice, Roma
1973>>.
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Da parte mia, ritengo che Sant’Agostino NON possa supportare
l’<<ipotesi ermeneutica>> proposta dal prof. Stella
<<per intendere il senso della coesistenza
dell’Unità e della Trinità>>, consistente nella <<distinzione
di innegabile e in evitabile>> cioè in una <<doppia
prospettiva: la prospettiva dell’assoluto, che è una prospettiva “ideale” o
“intenzionale”, e la prospettiva di chi si pone nell’universo in cui vige la
finitezza (la prospettiva del relativo o “fattuale”)>> che troverebbe
<<espressione anche in Agostino e precisamente nella forma della
differenza tra il punto di vista della «sostanza» e quello della «relazione»>>.
La ragione di questa <<doppia prospettiva>>,
cioè la <<distinzione di innegabile e inevitabile>>,
ha lo scopo di PRESERVARE l’unità dell’assoluto da qualsivoglia DISTINZIONE interna
ed esterna ad esso, quindi di preservarlo dall’<<ordine della relazione>>,
giacché all’assoluto spetterebbe soltanto <<l’ordine della sostanza>>.
Tuttavia, come anche Stella riporta, Agostino afferma che
<<in Dio nulla
ha significato accidentale,
perché in Lui non vi è accidente>>, sebbene <<non
tutto ciò che di Lui si predica, si predica secondo la sostanza>>.
Certo, però questo NON significa che il parlare <<a
volte di Dio secondo la relazione>> debba relegare quest’ultima al solo
piano dell’inevitabile e non dell’assoluto; ciò vorrebbe dire ESCLUDERE
<<le tres personae>> da Dio, per confinarle
unicamente nel nostro punto di vista, cioè nel piano dell’inevitabile (evocando
così una sorta di monarchianismo filosofico).
Infatti vedremo come la relazione costituisca L’ESSENZA stessa di
Dio.
L’<<ipotesi della “doppia prospettiva”>>
trova sì espressione anche in Sant’Agostino <<e precisamente
nella forma della differenza tra il punto di vista della «sostanza» e quello
della «relazione»>> ma, ricordiamolo ancora, siccome <<in
Dio nulla ha
significato accidentale,
perché in Lui non vi è accidente>>, allora per Agostino questa
differenza e quindi la stessa relazione sono IN Dio, anziché, come sostiene la prospettiva
di Stella, far coincidere con l’assoluto/Dio <<il punto di vista della
«sostanza»>> (in quanto <<solo l’assoluto è, perché l’Uno è
l’innegabile ragione del togliersi del molteplice>>,
e far coincidere con il relativo/molteplice (che, secondo Stella, mai è, in
quanto da sempre tolto) il punto di vista <<della «relazione»>>
o dell’inevitabile.
Partiamo dunque da quest’affermazione di Agostino:
<<tu vedi la Trinità, se vedi l’amore>> (De. Trin. 8:12),
perché
<<Dio
è amore>>
(1 Giovanni 4:8).
E prosegue Agostino:
<<Le persone divine non sono più di tre: la prima
che ama quella che nasce, la seconda che ama quella da cui nasce e la terza che
è lo stesso amore>>;
<<l’amore suppone uno
che ama e con l’amore
si ama qualcosa. Ecco tre cose: colui che ama, ciò che è amato, e l’amore stesso. Che è dunque
l’amore se non una vita che unisce, o che tende a che si uniscano due esseri,
cioè colui che ama e ciò che è amato?>> (Idem: 8, 10,
14).
E come dice l’ormai celebre nonché universalmente condivisa (in
ambito teologico) affermazione di Karl Rahner:
<<La Trinità economica è la Trinità immanente e viceversa>>.
Questo “assioma” mostra come Dio in sé ( = la Trinità immanente) _ ciò che Aldo
Stella chiama <<il punto di vista della «sostanza»>> o dell’innegabile
_, NON sia ALTRO rispetto al Dio per noi ( = la Trinità economica) _ ossia rispetto
alla <<prospettiva di chi si pone nell’universo in cui vige la
finitezza (la prospettiva del relativo o “fattuale”)>>, come invece è
previsto nella concezione su esposta di Aldo Stella, appunto perché
<<La Trinità economica È la Trinità immanente e viceversa>>, il
che vuol dire che la Trinità immanente è in sé DIFFERENZIATA tanto quanto lo è la Trinità economica.
Torniamo ad Agostino.
Cosa si evidenzia dal fatto che <<tu vedi la Trinità, se vedi l’amore>>?
Si evidenzia che Dio, in sé, è essenzialmente RELAZIONALITÀ quindi DISTINZIONE/MOLTEPLICITÀ
pur nell’inscalfibile UNITÀ.
È l’amore
(caritas, ἀγάπη: agápē) stesso a costituirsi come tale.
Se infatti <<colui che ama, ciò che è amato, e l’amore stesso>> non si distinguessero,
non vi sarebbe <<l’amore>> tout
court, giacché non vi sarebbe <<colui che ama>> e quindi non vi sarebbe
neppure <<ciò
che è amato>>; resterebbe un monolite incapace di EFFUSIVITÀ e
DINAMISMO assomigliante perciò ad un Ego assoluto, quindi assolutamente nonché
narcisisticamente ripiegato su sé stesso, per cui sarebbe follia ritener che
l’indistinto UNO parmenideo possa aver anche solo lontanamente a che fare con
l’amore (ἀγάπη).
Senonché, il prof. Stella precisa
che
<<l’unità si realizza solo nel perdersi
del
molteplice nell’Uno>>, e cita Agostino:
<<«Dopo il Signore ci indica che egli è il Mediatore grazie
al quale siamo riconciliati con Dio, con queste parole: Io in essi e tu
in me, affinché siano consumati nell’unità»>>.
Tenderei per un’interpretazione
diversa da quella offerta da Stella.
Se infatti ci consumassimo _ nel
senso di: ci perdessimo _ <<nell’Uno>>, allora IN Dio si
consumerebbe _ si perderebbe _ anche <<ciò che è amato>> (noi nel Figlio, nonché il
Figlio stesso), cosicché si consumerebbe/si perderebbe <<l’amore stesso>>
cioè Dio stesso in quanto tale!
Ma è lo stesso Sant’Agostino ad indirizzarci
sull’interpretazione a mio avviso corretta:
Cristo <<vuole che i suoi
siano una sola cosa, ma in
lui. Infatti in se stessi ne sarebbero incapaci, disuniti l'uno
dall'altro dalle opposte volontà, dalle passioni, dalle immondezze dei peccati.
Per questo sono purificati
dal Mediatore per essere una sola cosa in lui, non solo nell'unità della
natura, nella quale da uomini mortali diventano uguali agli Angeli, ma anche per l'identità di
una volontà che cospira in pieno accordo alla medesima beatitudine, fusa in
qualche modo in un solo spirito dal fuoco della carità>> (412,
95-97).
Divenendo <<uguali agli Angeli>>, NON perdiamo
l’individualità ( = la distinzione) ma la MORTALITÀ, giacché gli Angeli NON
sono Dio. Per cui, divenendo <<uguali agli Angeli>>
NON diveniamo uguali a Dio, ma saremo comunque <<una sola cosa in lui […] nell'unità
della natura>>.
Ugualmente, ritrovandoci ad essere
<<una sola cosa, ma
in lui>>, NON
perdiamo l’individualità, bensì la DISUNITÀ scaturente <<dalle opposte
volontà, dalle passioni, dalle immondezze dei peccati>>, sì che il
<<Mediatore>> ci PURIFICHI da tutto ciò ma sempre senza
perdere alcun tratto personale.
Tutto questo, per quanto riguarda
il supporto ermeneutico che Sant’Agostino avrebbe dovuto apportare all’<<ipotesi>> avanzata dal
prof. Aldo Stella.
Invece, per un’analisi strettamente metafisica, un prossimo
post…
Roberto Fiaschi
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