<<A cosa serve la sofferenza?>>, domanda un critico ( = C) del Cristianesimo nel suo saggio:
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<<Non preoccupatevi troppo:>> _ rassicura! _ <<al peggio serve ad essere oltrepassata, consegnandosi, un frammento per volta, al passato>>.
Sì, avete letto bene: la sofferenza serve <<ad essere oltrepassata>>, ossia _ severinianamente _ ad uscir di scena (non: annullarsi!) rimanendo pur sempre ciò che essa è ab aeterno: sofferenza; e permanendo eternamente come sofferenza, seppur oltre-passata (perfectum) nel cuore della totalità dell’essere, come già indicato nel post n° 6.
È come se una mamma ( = il Tutto eterno) vivesse felice e contenta tutta la vita col proprio figlio morto ( = la sofferenza) in grembo!
Senonché, asserire che la sofferenza <<serve ad essere oltrepassata>> è un’ingenuità, giacché è identico a dire che la sofferenza serve per rimanere eternamente identica a se stessa!
<<Certamente, una parte rilevante di sofferenza ''non serve a nulla''>>, corre subito dopo ai ripari C, <<sia nel senso che essa esorbiti ogni decenza, sopportazione o possibilità di utilizzo, ed anche nel senso che essa ''non valga la pena'' quando sia talmente intensa o talmente lunga, che l'eventuale guadagno, conoscitivo od esistenziale, che si potrebbe trarre da essa non varrebbe affatto la candela. Certi tipi di sofferenza sono semplicemente un'incarnazione crudele del male, del negativo nelle nostre carni>>.
Sembrerebbe allora che per la sofferenza che <<serve ad essere oltrepassata>>, per la sofferenza che <<non serve a nulla>> in quanto <<incarnazione crudele del male>> così come per lo stesso <<autore del Male>> o <<Maligno>>, le possibilità ultime siano comunque soltanto due:
<<1)
Tutti gli essenti tranne l'autore del Male giungono ai porti sicuri del
Positivo. L'autore del Male rimane eternamente rinchiuso nel passato, inerte e
privo di qualsiasi ulteriore apprensione rispetto agli essenti, cristallizzato
nel suo oltrepassamento;
2) Tutti gli essenti, compreso l'autore del Male, giungono ai porti sicuri del Positivo.
La
prima tesi impedisce la pienezza del Positivo, mantenendo uno spazio
negativo nel mezzo del cuore dell'Essere, e precisamente quello
dell'irredimibilità della parte di Essere che è rappresentata dal Maligno.
La
seconda tesi, enunciata NELLA FORMA SUDDETTA, impedisce anch'essa la
pienezza del Positivo, in quanto l'immensità degli effetti della negazione è
talmente vasta da rendere impossibile ogni perdono sensato ed ogni
reintegrabilità, ogni possibile CON-VIVENZA futura con una Coscienza pienamente
e totalmente responsabile di tutte le atrocità e sofferenze causate da essa,
anche se con-vertita e purificata dal negativo>>.
Ma queste <<due alternative non sfuggono alla contraddizione>>, osserva giustamente C, perciò
<<la
seconda tesi va riformulata in questo modo: 2a) Tutti gli essenti,
compreso l'autore del male PROTOLOGICO giungono ai porti sicuri del Positivo.
Qual'è la differenza tra la tesi 2 e la tesi 2a? Questa: la Coscienza che per
prima è stata colpevole dell'insorgere del negativo, è colpevole solo dell'atto
immediato di autoposizione negatoria del Bene, ma non lo è VOLONTARIAMENTE di
tutti i nefasti effetti successivi, in quanto l'atto di autoposizione negatoria
E' ANCHE AUTONEGATORIO, e da tale autonegazione delle proprie perfezioni
ontologiche deriva l'apparire di una Coscienza ALIENATA da sè e dal Bene, una
Coscienza in preda ad una malattia, ad una follia che persiste ed insiste
unicamente nella negazione; follia che convive e contrasta vittoriosamente (in
modo provvisorio) l'identità benevola di tale Coscienza, isolandola. Il Maligno
è quindi, con una metafora imprecisa, come una persona che abbia compiuto
un'azione malvagia di limitata entità che però l'abbia fatta impazzire, e la
cui pazzia inarrestabile abbia accumulato stragi su stragi, come un meccanismo
impostato e privo di ogni altra direzionalità e controllo>>.
Finalmente i conti adesso tornano? ...No, affatto.
Nella prospettiva pan-eternista cui si colloca C _ secondo la quale ogni, qualsiasi essente è eterno e non diviene mai altro da sé _, l’<<oltrepassamento del male e del Maligno>> della riformulazione 2a ripropone le stesse contraddizioni delle tesi 1 e 2, scartate in quanto appunto <<non sfuggono alla contraddizione>>, giacché quella <<Coscienza ALIENATA da sè e dal Bene>> non è passibile di nessuna autentica <<liberazione>> né di alcuna <<Reintegrazione>>, in quanto ciò comporterebbe inevitabilmente quel diventare-altro-da-sé da parte della suddetta <<Coscienza ALIENATA>>, ovvero implicherebbe la negazione di quell’eternismo poggiandosi sul quale C riformula la tesi 2a.
L’oltrepassamento di tale <<Coscienza ALIENATA>> non può che conservarla eternamente come Coscienza alienata, proprio in virtù di quell’eternismo abbracciato da C. A nulla infatti giova precisare che <<da tale autonegazione delle proprie perfezioni ontologiche deriva l'apparire di una Coscienza ALIENATA da sè e dal Bene, una Coscienza in preda ad una malattia, ad una follia che persiste ed insiste unicamente nella negazione>>, perché tale derivazione non può consistere nel diventare-altro-da-sé da parte dell’<<autonegazione delle proprie perfezioni ontologiche>> subita dalla <<Coscienza che per prima è stata colpevole dell'insorgere del negativo>>, giacché questa è un altro ente, diverso dal successivo, ossia dalla <<Coscienza ALIENATA da sè e dal Bene>>.
Due essenti differenti, con una contiguità/prossimità esclusivamente diacronica ( = diveniente nel corso del tempo) ma senza che l’uno possa diventare l’altro, o senza che dall’uno possa derivare l’altro. Così essendo, la tesi 2a _ a dispetto della sua riformulazione creduta risolutiva _, non riesce ad evitare l’esito aporetico cui conducono sia la tesi 1 che e la tesi 2.
D’altronde è lo stesso C a confermare tutto ciò:
<<il divenire è il venire in luce ed il congedarsi della vitalità stessa degli spettacoli ontologici. In questo senso, ogni moto, ogni movimento sono parte dell'identità di questo o quell'altro ente che si muove (non diventando altro da sè, ma apparendo man mano lungo la sua identità)>>...
Salvo che, al fine di far tornare i propri conti, l’ETE ‘eterodosso’ consenta di svicolare dalle conseguenze che la logica severiniana invece imporrebbe con maggior serietà e consequenzialità. Severino ne gioirebbe...
Ciò detto, anche la sperata <<apocatastasi>> _ nell’accezione proposta da C _ si rivela del tutto irrealizzabile, poiché <<la reintegrazione finale di ogni cosa>> non può _ sempre in virtù dell’eternità di ogni essente _, farsi <<avanti come approdo di tutto e tutti ai porti sicuri e stabili del Positivo>>, dal momento che l’<<oltrepassamento del male e del Maligno>> prevede sì il loro divenir degli oltre-passati, ma ripeto, comunque conservati, eternamente conservati come male e Maligno, allora è pura fantasticheria affermare che <<l'autore del male protologico, […] giungerà al momento della sua stessa liberazione da parte di Dio, momento che coincide con il culmine della Reintegrazione di tutte le cose>>, giacché anche tale <<liberazione>> presuppone daccapo quel diventare-altro-da-sé (cioè divenire libero) da parte di un essente-non-libero, il che, secondo l’eternismo severiniano, è l’essenza dell’impossibilità.
Lo stesso dicasi a proposito della <<Coscienza>> <<con-vertita e purificata dal negativo>>.
Pura impossibilità _ stante la premessa eternista _, poiché conversione e purificazione possono realizzarsi soltanto nei termini del divenire-altro-da-sé il quale, invece, è stato già escluso in quanto quintessenza del nichilismo.
Insomma, C fonda ed al contempo s-fonda le proprie tesi, af-fondandole…
Perciò, l’enfatizzato oltrepassamento della sofferenza in realtà consolida la sua conservazione (eterna), poiché essa _ come ogni altro ente _ è destinata a non divenire mai il proprio altro da sé, rimanendo sofferenza eternamente conservata, non importa dove, se nel ‘cuore’ o nella ‘periferia’ oscura e lontana della totalità dell’essere...
In
sostanza, il pan-eternismo eterodosso si limita a nascondere la polvere sotto
lo zerbino con l’illusione di averla definitivamente eliminata...
Tuttavia
C ritiene di
aver altre carte da giocare in suo favore, come le affermazioni tratte dalla
summenzionata discussione (Facebook, 8 agosto 2016) sembrerebbero
testimoniare:
<<L'oltrepassamento
delle cose negative deve
essere diverso da quello delle altre cose, cioè deve essere strutturato
in modo tale che il compimento di esse equivalga ad una specifica
positivizzazione, cioè il perfectum dei mali sarà per sempre vissuto
come un bene, e non come una macchia persistente ed ATTUOSA dell'Essere (uso il
termine per distinguere da attuale. Con attuoso intendo un senso peggiorativo
in cui il negativo non ancora oltrepassato tormenta i senzienti con il suo atto
negatorio delle perfezioni ontologiche)>>.
Domando:
perché
<<L'oltrepassamento delle cose negative deve essere diverso da quello delle
altre cose>>?
C si rende ben conto che, se così non
dicesse, ne deriverebbero tutte le obbrobriose conseguenze fin qui mostrate.
Egli sta cercando una disperata via di fuga. Ma è una mossa poco filosofica e
davvero molto poco incontrovertibile, per una filosofia che ha affermato
trionfalmente di porsi come <<incontrovertibile>> il quale,
<<una volta visto [...] non è più possibile ragionare
come se non lo si fosse visto>>.
In
realtà, tale <<incontrovertibile>> non lo vede né C né nessun altro,
giacché non c’è
in modo aproblematico.
Infatti,
affermare che l’oltrepassamento del negativo debba strutturarsi <<in
modo tale che il compimento di esse equivalga ad una specifica
positivizzazione, cioè il perfectum dei mali sarà per sempre vissuto
come un bene, e non come una macchia persistente ed ATTUOSA dell'Essere>>
significa ripristinare _ malgrado
le intenzioni contrarie di C _ la necessarietà de <<le sofferenze imposte di
una bambina abusata>> al fine di <<EDIFICARE IL PARADISO>> o,
che è lo stesso, equivale ad affermare quella <<Gioia dell'Essere>>
o <<suprema armonia>> per la quale vale <<STRUMENTALIZZARE
LA SOFFERENZA PER EDIFICARE IL PARADISO>>!
Non
a caso, relativamente all’<<oltrepassamento delle cose negative>>,
C usa i
termini da me evidenziati in giallo: <<deve essere strutturato in modo tale che il compimento di esse equivalga ad una
specifica positivizzazione>>; non a caso, perché se così non
affermasse, persisterebbe l’indesiderata <<macchia>> nella
<<Gioia dell'Essere>> cosicché esso non sarebbe più (e non
sarebbe mai stato) <<Gioia>> o <<armonia>>.
Sì,
tale <<Gioia>> non può ammettere alcuna <<macchia persistente
ed ATTUOSA dell'Essere>>, altrimenti, in termini dostoevskijani:
<<quale
armonia potrà
esserci se c'è l'inferno?>>;
e
nei termini di C:
quale
<<gioia dell’Essere>> potrà esserci, se c’è anche soltanto
<<una macchia>>?
Senonché,
l’inferno in terra c’è; la macchia c’è, ovvero la sofferenza c’è,
ed il prezzo ‘filosofico’ da pagare per l’escamotage attuato da C è l’arbitrarietà
ontologica della sua compagine eternista, giacché se _ come egli sostiene _
<<il perfectum dei mali sarà per sempre vissuto come un bene>>,
allora ne discendono per l’ETE le seguenti aporetiche conseguenze:
la
presenza della sofferenza (del male: ogni tortura, abominio...) nella
concezione di C
_ s’è visto _ è funzionale al/in vista del bene, quindi
è strumentalizzata <<PER
EDIFICARE IL PARADISO>>, in quanto essa <<serve ad essere
oltrepassata, consegnandosi, un frammento per volta, al passato>>, e
visto che serve per questo preciso scopo, la sofferenza è lo strumento per conseguirlo, consistente tale scopo nel
ristabilire o nel mantenere la <<Gioia dell'Essere>> senza
<<macchia>> che possa inficiarne la <<Gioia>>.
Pertanto suona oltremodo bizzarra la nota di C:
<<NB:
che il perfectum dei mali sia un bene non è da assimilare alla visione cristiana in cui Dio permette i mali onde ottenere un
bene più grande. Ritengo immorale un tale progetto, e ciò che intendo io è la
ripresa eterna e benevola che è tuttuno con l'Atto eterno di autoposizione>>.
Sebbene io pensi che sia maggiormente conforme
al TEC ritener che Dio permetta i mali non per ottenere da
o grazie ad essi un bene più grande bensì,
permettendo i mali (per ragione a noi ignote), riesce ad
ottenere un bene più grande nonostante
essi _ essendo tale bene più grande il procedere verso la
realizzazione escatologica del Regno di Dio o della Nuova Creazione, com’è ben
riassumibile nella frase di Jacques Bossuet: <<Dio scrive dritto anche sulle
righe storte degli uomini>> _, tuttavia, l’accusa di immoralità è
un’accusa bislacca, perché ricade proprio su C, poiché, se per lui <<L'oltrepassamento
delle cose negative [...] deve essere strutturato in modo tale
che il compimento di esse equivalga ad una specifica positivizzazione>> _ ovvero il
male si positivizzerebbe in bene _, allora ciò equivale in tutto e per tutto al
Dio che <<permette i mali onde ottenere un
bene più grande>>, poiché quel <<bene
più grande>> ottenuto da Dio è esattamente <<una specifica positivizzazione>> del
male pur presente nella concezione espressa da C, male tuttora presente e tollerato,
permesso; perciò anche l’ETE <<permette i mali onde
ottenere>> da essi <<una specifica positivizzazione>> ( =
l’equivalente del biblico <<bene più grande>>), di
modo che tra l’ETE e Dio (il quale <<permette i mali onde
ottenere onde ottenere un bene più grande>>) non
si dia nessuna differenza!
Emerge quanto l’argomentare di C sia inquadrabile nell’atteggiamento dei ‘due
pesi e due misure’, giacché, a parità di situazione ( = la
presenza del male), il Dio biblico viene ritenuto <<immorale>>,
l’altro (quello proposto da C) no!
Attribuire al TEC <<un tale progetto>>
è da lui decisamente stigmatizzato come <<immorale>>; se
invece è ritenuto intrinseco alla necessità dell’ETE, allora no, va tutto più
che bene! È salutato come fosse la quintessenza dell’eticità!
Infatti, chi non si domanderebbe:
se è <<immorale>> il
progetto che Dio permetta i mali <<onde ottenere un bene più grande>>,
perché allora non sarebbe altrettanto <<immorale>> il
progetto dell’ETE o del ‘dio’ <<Eminente>> che lo presiede,
dal momento che anch’esso/i permette/ono i mali, il compimento dei quali
consisterebbe nell’<<ottenere un bene più grande>>,
equivalente perciò ad una loro <<specifica positivizzazione>>? ‘Mistero’ ( =
da interpretarsi a piacimento come incoerenza? Ipocrisia? Faziosità? Ingenuità?
Distrazione? Pregiudizio?).
Inoltre, anche concedendo che sia attribuibile in
toto <<alla visione cristiana>> il fatto che <<Dio
permett[a] i mali onde ottenere un bene più grande>>, siamo davvero
sicuri che sia <<immorale
un tale progetto>>?
C
lo ritiene tale perché già la permissione del male sarebbe essa stessa male.
Certo, in ambito per lo più cattolico si suol
dire che <<Dio permette i mali onde ottenere un bene più grande>>.
Tuttavia, fermarsi qui, da parte di un critico,
mi sembra ancora troppo poco.
Infatti, non ci è dato saper perché,
per <<ottenere un bene più grande>>, sia indispensabile <<permettere
i mali>>. Soltanto se fossimo in grado di rispondere a questo
‘perché’, il critico potrebbe emettere un qualche verdetto definitivo.
C
potrebbe replicare che secondo il Cristianesimo, i mali devono permanere appunto/proprio
perché da essi si possa ottenere un bene più grande!
Ma perché per <<ottenere un bene più
grande>> è indispensabile <<permettere i mali>>,
dal momento che sarebbe possibile ottenere <<un bene più grande>>
da un bene minore e/o dall’assenza dei mali?
Ribadendo che <<Dio permette i mali
onde ottenere un bene più grande>>, C non ha ancora reso chiaro il perché
sia inevitabile che <<un bene più grande>> lo si
ottenga dai mali anziché dalla loro assenza...
Pertanto, la domanda si ripropone ad un livello
antecedente:
perché, per <<ottenere un bene più
grande>>, è indispensabile <<permettere i mali>>?
Non conoscendo la ragione di questo
‘perché’, dovremmo più opportunamente tornare a concludere (sempre con Dostoevskij)
che <<È del tutto
incomprensibile il motivo>> per il quale sarebbe
indispensabile permettere i mali onde ottenere...
Perciò
dovremmo sensatamente limitarci ad affermare che <<una tale verità non è di questo
mondo e io non la capisco>>.
A
quanto pare, invece, C
pare conoscerne la ragione, altrimenti non si limiterebbe a definir <<immorale>>
soltanto il <<progetto>> del Dio biblico bensì
estenderebbe tale giudizio anche a quello del suo ‘dio’ o del teismo coeternista.
Egli
però si guarda bene dal fare ciò; perché?
I
casi sono due:
-
o C conosce
soltanto le ragioni dell’indispensabilità della permissione del male da
parte del suo
‘dio’ ma non del Dio biblico;
-
o che il <<progetto>> del suo ‘dio’ non sia <<immorale>>
(appunto perché sfugge all’accusa di <<progetto immorale>>).
Sfortunatamente,
mancano precise ed inequivocabili delucidazioni ad entrambe le alternative...
Per usare un’immagine: data la persistenza del
male, la suddetta convinzione di C indirizzerebbe a ritenere <<immorale>>
l’<<ottenere
un bene più grande>> ( = la guarigione, il ripristino della
salute) dalla presenza della malattia...
Certo, non si può pensare che le malattie
debbano esserci affinché _ <<onde>> _ si possa da esse guarire ( =
trarre un bene più grande dai mali); ma, come detto, non conoscendo il perché
dell’indispensabilità di quella permissione, non si può non cercar di
ottenere la guarigione dalla malattia...
Non
sappiamo perché Dio consenta il persistere del male;
tuttavia, poiché il male c’è, allora permetterlo per ottenere da esso un bene
più grande, è il minimo strategico che ci si possa aspettare affinché il male
via via scompaia, sia combattuto, assunto e ‘fagocitato’, ripristinando così la
guarigione...
Risposta insoddisfacente/insufficiente/immorale?
Insoddisfacente ed insufficiente certamente sì;
immorale no, finché non comprenderemo le ragioni di
quella indispensabilità...
Roberto Fiaschi
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