lunedì 6 febbraio 2023

22)- “LA VERITÀ È UNA SFIDA A SE STESSA. COLLOQUIO CON MASSIMO DONÀ”

 

riporto parte di un’intervista al filosofo Massimo Donà (19 luglio 2015), tratta dal sito:

https://ritirifilosofici.it/la-verita-e-una-sfida-a-se-stessa-colloquio-con-massimo-dona/.

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<<- Nella sua opera Dopo Nietzsche, Giorgio Colli parla di due modi d’intendere il divenire: quello eracliteo, per il quale il movimento degli enti rimane sempre interno all’essere e non riconosce alcun ruolo attivo al nulla; e quello hegeliano per cui invece il nulla costituisce un passaggio fondamentale. Cosa pensa lei di tale contrapposizione e quale delle due posizioni, eventualmente, ritiene sia più prossima al divenire pensato da Severino?

Le analisi di Colli del pensiero greco e del pensiero nietzscheano sono straordinarie, però a questo proposito risponderei parafrasando Severino che ha senz’altro ragione nell’affermare che la questione del nulla in Eraclito non si pone, perché non è ancora stato tematizzato il divenire in termini ontologici. Questo è il punto. Al di là del fatto che il divenire sia comunque pensato da Eraclito all’interno del principio intrascendibile, non viene esplicitato che ne è del senso ontologico del divenire. D’altro canto va anche detto che il modo in cui Hegel pensa il divenire, da questo punto di vista costituisce sì, un’esplicitazione ontologica del divenire, ma neanche lui pensa essere e nulla come liberi dal principio intrascendibile. Nelle prime pagine della Scienza della logica anzi, il divenire è ciò che si dà nella forma del Dasein, ciò che è determinato; non è l’oscillare tra essere e nulla. In realtà in Hegel l’essere è già passato nel nulla e il nulla è già passato nell’essere, quindi anche qui il divenire è compreso all’interno di un orizzonte intrascendibile che è la “quiete dell’essere determinato”; ed è in questa forma che appare come il “già stato” dell’essente. Hegel parla del divenire traducendolo in storia, ma la storia è la forma spazializzata del divenire stesso; quindi più che il filosofo del divenire – come molti lo vorrebbero – è il filosofo della storia. Il “suo” divenire infatti, è totalmente risolto nella quiete dell’eterno di matrice platonica; essere e nulla non sono svincolati dal principio, ma sono già da sempre risolti nel fondamento, perché il divenire volge ad un risultato che è l’inizio, già da sempre guadagnato, che la storia semplicemente dispiega. Certo, esso va pur sempre esplicitato perché altrimenti non si mostrerebbe come risultato, quanto accade nella storia però è già da sempre scritto. Tale esplicitazione comporta in Hegel la presa di coscienza della totale impossibilità delle determinazioni astratte essere e nulla. Ammesso infatti, che l’inizio, anzi, il cominciamento sia l’essere, l’essere è già da sempre risolto in quel risultato che è il vero inizio prima del cominciamento: l’essere determinato, il DaseinÈ in questo risultato che essere e nulla sono già da sempre tolti, negati, nella forma dell’Aufebung, non esclusi, non annichiliti, ma ricompresi nella forma del loro essere negati, perché in quanto determinazioni astratte sono tolte nella verità. Perciò essere e nulla per Hegel non sono altro che i predicati attribuiti astrattamente all’essente; ma in verità queste determinazioni sono tutte determinazioni dell’eterno. Da questo punto di vista dunque, ferma restando la grandezza di Colli, non vedo alcuna differenza strutturale tra Hegel ed Eraclito, essa semmai si dà a livello di formulazioneQuanto a Severino, egli intende la tendenza fondamentale dell’Occidente in termini un po’ curiosi, perché che l’essente passi dal nulla all’essere e dall’essere al nulla Hegel non l’ha mai pensato; egli pensa che l’opposizione originaria sia in sostanza l’impossibile e questa impossibilità fa sì che ad esserci sia sempre l’ente. Un Hegel rispetto al quale dunque Heidegger diventa una glossa; la differenza fra essere ed ente è già chiara ad Hegel perfettamente. Questa idea di Severino è curiosa dunque perché, nonostante gli abbia consentito di tracciare una linea rossa capace di riunire tutto l’Occidente – il che è un fatto di straordinaria potenza –, è davvero difficile da rinvenire nel pensiero occidentale; perché tutto sommato è un’idea solo severinianaNon c’è neppure nella grande teologia cristiana. Quando Sant’Agostino pensa il tempo non pensa che ci sia stato l’esser stato nulla, poi il presente, poi l’esser nulla di nuovo, per lui passato e futuro sono figure del presente, di un presente-passato e di un presente-futuro, rispetto ai quali il presente non è altro che l’apparire del passato e del futuro. Non c’è un presente che stia in mezzo al passato e al futuro, c’è solo il manifestarsi del non-esser-più e del non-essere-ancora; questo è il presente. Quando il passato è passato? Ora. Quando il futuro è futuro? Ora. Il non-esser-più è il modo in cui si rappresenta ora il passato, quindi, per dirla con Platone, se questo è il tempo, allora è il vero poietes, ossia colui che porta all’essere il non essere. Ma non perché ci sia stato prima un non essere; fa essere quello che non è. Questo è il tempo. Noi oggi non siamo altro che la memoria, direbbe Sant’Agostino, di tutta la nostra vita passata che non è più ora, ma questo che “non è più” è fatto essere nel presente dal nostro parlarne, dal nostro ricordarlo. Lo stesso vale per il futuro, ciò che non è ancora appare ora come ciò che non è ancora, quindi nel presente è mostrato dal suo non-essere-ancora. Ecco perché il vero poietes è Chronos, il Tempo, esso porta alla presenza il non essere, ma non nel senso astratto severiniano – quel nulla che circonda l’essere non l’ha pensato Sant’Agostino né Hegel, e nemmeno Platone, e chi l’ha pensato allora? Certo poi per il senso comune è così, però è strano che Severino, un gigante, uno dei pochi che rimarrà nella storia della filosofia italiana – ma come spesso capita ai giganti, rileggono il passato a proprio uso e consumosi sia limitato a rigorizzare il senso comune. Questo è senz’altro una follia, ma non ha riscontro nella storia della filosofia.

- Nemmeno nei pensatori cristiani?

No, Sant’Agostino che ne è il simbolo, ossia colui che pensa il tempo in una maniera formidabile nel libro XI delle Confessioni, lo pensa in un modo assolutamente interessante da un punto di vista filosofico-metafisico. La stessa creazione dal nulla di Dio – a parte il fatto che è il risultato di una certa tradizione posteriore – come rispose Coda allo stesso Severino in un incontro, non c’è in nessun grande teologo cristiano. Questo poi è diventato un luogo comune, lo ha ripreso anche il suo allievo Galimberti: mentre il Dio cristiano crea dal nulla, il dio greco (demiurgos) “crea” dalla chora, cioè dà forma a un qualcosa di preesistente.  E come tutti i luoghi comuni passa indisturbato come se fosse indubitabile. Per questo bisogna rileggere i grandi testi e i grandi autori, per scoprire che queste storie sono sì comode, ma non hanno riscontro nella storia della filosofia. Allora io invito a pensare un nulla che non sia un “altro dall’essere” perché questo nulla è impossibile. Lo stesso Severino che cerca di risolvere il problema di un nulla così nel IV capitolo di La struttura originaria, a mio avviso, fallisce nel tentativo di risolverne l’aporia perché il suo sistema sta in piedi solo se riesce a dire il nulla, cosa che invece nel Sofista di Platone viene dichiarata impossibile e si fa valere il non essere come altro. Severino invece cerca di dire il nulla perché il suo essere eterno sta solo se riesce a contrapporsi ad esso, e allora cerca una soluzione distinguendo il “significare positivo del nulla” dal significato nulla. Senza entrare troppo nello specifico però, questa distinzione mi pare un po’ fragile perché alla fine, ciò che dovrebbe essere l’assolutamente altro dall’essere, essendo, comunque – e questo Fichte l’ha capito benissimo – determina la determinatezza stessa dell’essere che si contrappone ad un altro essere (rapporto io finito non-io finito) da cui viene l’essente. Il quale è parola del nulla nel senso che è il manifestarsi dell’impossibilità del nulla perché non riesce ad essere altro dall’essere. E quindi l’essere che non riesce ad essere essere, ma nemmeno a non essere perché non ha un nulla al quale contrapporsi, costituisce lo spettacolo dell’essente nel suo mostrarsi come impossibilità dell’opposizione radicale tra essere e nullaLa quale è poi rinvenibile come l’escaton finale di cui parla Paolo, e qui penso al bel libro di Cacciari Il potere che frena, dove il catecon che frena la parusia finale, l’escaton finale, continuerà a rimandare all’infinito il manifestarsi della parusia cioè della differenza tra bene e male. Ma questa differenza assoluta, che è ciò che non possiamo non dire e di cui dobbiamo pur sempre riconoscere il negarsi incessante, parimenti appare come ciò che non è tale (quella differenza assoluta). E allora noi ci chiediamo: ma cosa appare quando diciamo che non è mai tale? Cosa sono questi essere e nulla che pur nominandoli non sono mai tali? Sono ciò che non riesce mai ad essere ciò che è, essere e nulla appunto, ma che ciononostante deve esserci; il confine rimane questo. È per questo che il cristiano spera, perché la comprensione del negarsi di essere e nulla implica il doverci essere della negazione assoluta che è impossibile, quindi viene sperata perché “deve” esserci visto che razionalmente è l’impossibile. Ma questo impossibile non sarebbe se non fossero l’esser e il nulla di cui diciamo l’essere negati, sennò parliamo di niente. Se non fosse reale la loro realtà pur nell’impossibile, non sarebbe reale neppure il loro negarsi.

- A proposito della difficoltà, per il mondo greco, di mettere in relazione il concetto di libertà con quello di ananke, ossia della predestinazione, in che misura – alla luce anche del carattere fondativo del non essere della contrapposizione fa essere e nulla per questo stesso ragionamento – il ruolo dell’eroe greco può essere ritenuto attivo?

Bella domanda, rispondo subito. Gli eroi greci sfidano ananke, Antigone sa che il nomos di Creonte, il nomos della polis vincerà, però lo sfida nonostante sappia di perdere; che significato ha questa sfida impossibile? Qui sta proprio il nocciolo di ciò che i Greci non hanno potuto teorizzare, ma che poi i cristiani hanno portato a galla: il problema della libertà. Il punto è che l’essere umano può volere l’impossibile e la libertà è questo fondamentalmente; prima ancora del pensarla come libero arbitrium, che è possibile solo post factum come persuasione che la realtà sarebbe potuta essere diversamente. La libertà è il fatto che pur riconoscendo il destino noi possiamo non volerlo; che a pensarci è la follia perché se riconosci la verità del destino come puoi non volerlo? È come quando i critici incalzano Severino affermando che l’Occidente, una volta scoperta la verità del destino, dovrebbe vivere in conformità ad essa. Il punto è però, che la verità, per quanto incontrovertibile, rende possibile un comportamento indifferente nei suoi confronti, perché infondo, il problema vero secondo me è che il principio stesso della necessità rende possibile questo atteggiamento. E qui dentro si vede la sfida dell’eroe greco, insensata e però importante perché ci dice qualcosa che riguarda nel profondo la nostra natura, capace di contraddire ciò che è incontrovertibile. Se qualcosa in tutta evidenza si mostra incontrovertibile, sembrerebbe di dover dire che ci costringe, che è tale da non poterci far agire che conformemente ad essa, e invece no. Questo è il problema di quanto successo dopo Socrate, lì sembrava che bastasse conoscere il bene per farlo, invece anche se lo conosciamo – Kant lo sa benissimo –  possiamo ciononostante non farlo il bene, questo è il punto. La risposta sta nel fatto che la potenza dell’incontrovertibile è una potenza ambigua, intrinsecamente contraddittoriaSe vediamo come si articola l’incontrovertibile in Severino, ma prima ancora in Aristotele, ciò che è incontrovertibile, è tale perché nulla e nessuno lo può negare, il negatore non c’è, c’è la persuasione di potersi contrapporre alla verità, ma questa possibilità non c’è perché è incontrovertibileMa questa verità cosa dice? Dice il principio di tutte le cose, ossia il principio d’identità e non contraddizione che è il distinguersi di tutte le cose, dice che ogni cosa è se stessa e non è altro da sé, e per Severino ogni cosa è eternamente uguale a se stessa. Ma, fate bene attenzione, se la verità è incontrovertibile e il negatore non si dà, ciò è in contraddizione con il contenuto della verità che dice “tutto si distingue”, perché ciò che non ha una negazione al di fuori di sé non si distingue. Non ha un errore rispetto al quale determinarsi come verità, quindi la possibilità di contraddire la verità nasce dalla verità stessa: la verità è l’errore. È questo il punto che bisogna esplicitare: il fondamento della non contraddizione è la contraddizione, contrapporre la verità alla non contraddizione sarebbe patetico perché per distinguersi dovrebbe servirsi del principio, l’elenchosMa una volta che tu riconosci l’assenza dell’errore la verità non è più distinguibile, è essa errore a sé perché è la verità stessa a non conformarsi a sé in quanto, nonostante essa dica che tutto si distingue, essa non può distinguersi. Quindi, nel suo trionfo perfetto, incontrovertibile, la verità manifesta il suo naufragio, che non è un naufragio contrapposto al trionfo, bensì il naufragio che si consuma nel suo stesso trionfare. L’erranza della verità sta nel suo trionfo, perde vincendo perché essa stessa non può corrispondere al proprio nomos; l’unico errore è la verità. Ecco perché è impossibile sfidare il destino, perché la verità è una sfida a se stessa. Adesso forse possiamo avvicinarci a comprendere meglio queste figure eroiche, che ci invitano a pensare l’erranza, la digressione rispetto al destino, la libertà come non contrapposte alla necessità ma come il suo cuore profondo.

- Ritiri filosofici è molto vicina a Spinoza, quindi, rispetto all’ebraismo viene da interrogarsi su come questo abbia permeato anche una grande fetta della filosofia occidentale.

Assolutamente, ma non fermiamoci alla modernità, arriviamo fino al contemporaneo, fino a Derridà. C’è tutta una serie di pensatori che non sarebbero comprensibili senza il riferimento all’ebraismo. Anzi è proprio questa radice a consentire a certi autori di non farsi ingabbiare da quello schema greco che domina fino a Severino. È lo schema della destinalità che si contrappone a quello della libertà, dove la libertà non è quella in senso libertario bensì il pensare in altro modo il mondo, la sua struttura ontologica; non tanto le vicende personali. Razionalmente è impossibile dimostrare che siamo liberi, ma la libertà non ha a che fare con ciò che si dimostra, è un’istanza che sfida ogni logos, infatti, se essa fosse oggetto di dimostrazione, sarebbe un oggetto di necessità. La libertà è quel buco nero che il logos non riesce a dominare, perché ne è il cuore inassimilabile, quel nucleo profondo che contiene l’errore stesso dal quale vuole difendersi; ma è proprio in quell’errore che sta la sua radice. Qui la verità non può essere consapevole. Per come dice Severino, la verità continuerà sempre a percepire l’errore come fuori da sé, come altro da sé, ma in realtà agisce nel profondo della sua struttura, è il logos, è la verità stessa. La verità dunque, si delinea come questo fondo inassimilabile, ingiustificabile, indimostrabile, che mette in crisi il logos che vuole sempre dimostrazioni, che vuole λόγον διδόναι (logon didonai) cioè rendere ragione di tutto. Quindi è il fondamento stesso della verità ad essere ciò di cui non si può rendere ragione; d’altro canto, se il fondamento fosse fondabile non sarebbe fondamento. Il fondamento è palesemente infondato, e noi che vogliamo fondare tutto non ci rendiamo conto che il fondamento è il massimamente infondato.

- Questo potrebbe anche aiutarci a comprendere la difficoltà di Severino a fondare un’etica del finito.

Ma sai, in Severino non può esserci alcuno spazio per l’etica, tutto è già da sempre nell’eternità dell’essente per cui non ha senso nemmeno porselo il problema. Un ethos può aver luogo solo se mettiamo in questione il logos che lo esclude, perché esso è radicalmente messo in questione da sé; altrimenti ha ragione Severino. Peccato poi che il vero problema del discorso di Severino, sia nel suo discorso stesso>>.

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