<<Davide
Grossi: A proposito del contenuto dei Suoi scritti Lei utilizza
l’espressione “testimonianza” allo scopo di indicare ciò che non è il prodotto
di una volontà o il contenuto di una coscienza. Tuttavia anche la testimonianza
è una volontà. In che modo la volontà della testimonianza, pur essendo avvolta
dalla fede - dalla volontà di dire e quindi dall’errare -, riesce ad indicare
quell’assolutamente altro dall’errore che è il Destino? La verità non può non
apparire, perché fintanto che qualcosa appare, appare la sintassi del Destino;
ma il modo in cui appare il Destino alla testimonianza è diverso o no dal modo
col quale esso appare alla non testimonianza?
Severino: Dunque la domanda contiene molti temi. Cominciamo
a dire che il Destino della verità appare ovunque ci sia un ascolto, ovunque ci
sia una presenza del mondo laddove intendendo per presenza del mondo non
esclusivamente quel che si costituisce solo all’interno di quegli enti che
chiamiamo “uomini” o di quell’insieme di enti che chiamiamo “prossimi”. Allora,
l’apparire della verità costituisce anche l’esser uomo in quanto tale, ma non
ogni uomo è una testimonianza: non ogni uomo è unito al linguaggio che
testimonia questa presenza. Quando dico che anche il più semplice degli esseri
è in rapporto alla verità, penso che si debba distinguere questo essere in
rapporto tra presenza della verità, che costituisce l’esser uomo d’ogni uomo, e
testimonianza della verità, una testimonianza che si faccia capire - che
presumibilmente si faccia capire - cosa che è problematico che accada in quei
linguaggi che sono non temprati dalla tradizione linguistica. E cioè v’è l’uomo
che parla del Destino, del Destino della verità, secondo il linguaggio che si
fa capire e che quindi è un linguaggio “tecnico” capace di farsi capire nel
contesto della storia del pensiero filosofico, oppure v’è solo un tentativo di
testimonianza, e quindi direi una testimonianza fallita. In questa situazione
che la testimonianza del Destino sia una condizione necessaria perché tramonti il
velo che nasconde la verità al linguaggio - che nasconde il destino alla
testimonianza - rimane un problema: rimane un problema se il voler parlare
della verità sia una condizione necessaria affinché cada quel velo. E dico cada
il velo che nasconde la verità alla testimonianza, perché la verità non può
essere un che di nascosto, il Destino della verità non può essere qualcosa che
uscendo dall’ombra del nascondimento, del non apparire, ad un certo momento
occupi la mente dell’uomo e la riempia. No! Se ciò fosse si dovrebbe dire che
quell’occupazione, quell’ente in cui consiste l’occupazione, è un ente che esce
dal nulla, e cioè è un impossibile. Quindi per questo parlo di nascondimento
alla testimonianza: la verità appare, splende sempre. Non occorre uscire dalla
caverna della non verità per vedere finalmente la verità. E però la verità è
nascosta alla testimonianza: essa è nascosta, dunque, al linguaggio di quel che
chiamiamo prossimo, e non all’apparire. In questo senso il discorso che tenta
di indicare ciò che abbiamo chiamato Destino della Necessità è il tentativo di
indicare qualcosa che come tale non è un tentativo. Il linguaggio ha tentato di
indicare il non tentativo. Perché il tentativo può riuscire o non riuscire là
dove la scelta della parola “Destino” indica quella stabilità che non è
soggetta al fallimento, il Destino non è un tentativo anche se esso appare
nella dimensione in cui si manifesta ogni tentativo. Ossia ogni volontà, perché
ogni tentare è un tentare di realizzare una qualsiasi situazione nel mondo. Il
Destino non è un tentativo ma è l’orizzonte all’interno del quale appare ogni
tentativo, e ogni volontà, giacché non c’è tentativo senza volontà, e non c’è
volontà che non sia volontà di ottenere qualcosa, e dunque volontà di potenza.
E la radice della volontà di potenza e ciò che chiamiamo isolamento della
terra. Il destino è il non tentativo che include le forme crescenti della
volontà di potenza sempre più espandentesi che oggi costituiscono ciò che venne
chiamata civiltà della tecnica.
Davide
Grossi: Ma il non tentativo appare all’interno del tentativo cioè della
volontà di testimoniare il non-tentativo…
Severino: Certo, anche il linguaggio che testimonia il destino, è la
volontà che qualcosa sia linguaggio che testimonia il destino. Voler che
qualcosa sia parola di una cosa, dove qualcosa è il segno tracciato, voler che
un evento sia parola di una certa cosa, è un volere. Chi vuole questo fa
diventare l’evento altro da ciò che esso è, lo fa diventare parola. Volere che
un certo evento sia segno significa volere che qualcosa sia altro da sé. E
difatti l’essere parola è formalmente identico all’esser cosa, all’esser questo
evento qui che è fatto diventare parola>>.
Dunque, secondo Severino: <<il Destino della verità appare ovunque ci sia un ascolto>>, quindi <<la verità appare, splende sempre>>.
Tuttavia
_ precisa il filosofo bresciano _, <<la verità è nascosta alla testimonianza: essa è nascosta, dunque, al
linguaggio di quel che chiamiamo prossimo, e non all’apparire>>.
Per
cui la verità appare sempre, non è mai nascosta; e però è nascosta a <<quegli
enti che chiamiamo “uomini”>>, nonostante <<l’apparire della
verità costituisc[a] anche
l’esser uomo in quanto tale>>.
A
questi essa è nascosta,
perché _ com’è noto _, per Severino l’uomo <<è destinato a non sentire la verità>>
(La struttura originaria, pag. 89), in quanto egli è strutturalmente <<errore>>, tale
da esser <<contraddittorio
che l'individuo sia cosciente della verità>> (Severino: La legna e
la cenere).
Come
ha ben esplicitato Nicoletta Cusano:
<<è
impossibile
che nel linguaggio della terra isolata [quindi nell’errore/individuo] ci
sia comprensione della verità del destino, anche se formalmente le sue parole
suonano identiche al linguaggio che testimonia il destino. È cioè necessario
che il linguaggio malato,
proprio in quanto tale, non
le possa comprendere. Anche se le parole del linguaggio malato suonano simili
a quelle del linguaggio che testimonia il destino, e simili in maniera così
impressionante da poter vedere in ciò una certa “problematicità”, si deve
affermare la necessaria formalità di quella identità>>. (Cusano: Emanuele
Severino. Oltre il nichilismo, pag. 446).
Rispetto
a questi brani appena letti (e a molti altri che ho omesso), nell’intervista in
oggetto curiosamente
Severino precisa:
<<l’apparire
della verità costituisce anche l’esser uomo in quanto tale, ma non ogni uomo è
una testimonianza: non ogni uomo è unito al linguaggio che testimonia questa
presenza>>.
Probabilmente
conscio della contraddittorietà rappresentata da un individuo-errore che
intenda testimoniare veritativamente il destino, qui, pare davvero che Severino
voglia ritagliare per sé (derogando alla sua tesi circa l’erroneità dell’individuo)
la possibilità di esser uno
di quegli uomini uniti
<<al linguaggio che testimonia questa presenza>>, visto che
_ a suo dire _ <<non ogni uomo è unito al linguaggio che testimonia
questa presenza>>, tranne lui
ed eventuali altri…
Ciò,
però, non
cambia affatto quanto detto sopra, cioè che sia <<contraddittorio che
l'individuo sia cosciente della verità>>, anche se <<unito
al linguaggio che testimonia questa presenza>>.
Già,
perché a quella testimonianza <<la verità è nascosta>> e quindi viene SMENTITO che <<il
Destino della verità appare ovunque ci sia un ascolto>>, perché s’è appena letto che
l’uomo <<è destinato a non sentire la verità>> cioè a non essere una forma
di <<ascolto>>
di essa, per cui la verità, all’uomo, non appare, è appunto <<nascosta>>
dal <<velo che nasconde la verità alla testimonianza>> dell’individuo
che dovrebbe testimoniarla, essendo al contempo <<contraddittorio che
l'individuo sia cosciente della verità>>!
Mi
pare perciò vano
precisare che <<la verità è nascosta alla testimonianza: essa è
nascosta, dunque, al linguaggio di quel che chiamiamo prossimo, e non
all’apparire>>, perché se davvero essa non fosse nascosta <<all’apparire>>,
la testimonianza dovrebbe scorgerla appunto perché appare; ma,
evidentemente, la verità non appare
all’individuo, per cui salvaguardare nell’apparire il non-nascondimento della
verità, serve poco o niente, se <<quel che chiamiamo prossimo>>
non può affatto scorgerla…
E
siccome la verità non
appare all’individuo
(o al linguaggio che vorrebbe testimoniarla), allora CHI sta testimoniando che <<la
verità appare, splende sempre>>?
Colui
(Severino) a cui è impossibile che essa appaia?
A
chi, o per chi <<la
verità appare, splende sempre>>, se chi deve testimoniare ciò non può esserne testimone?
Infine,
Severino osserva come <<il discorso che tenta di indicare ciò che abbiamo
chiamato Destino della Necessità è il tentativo di indicare qualcosa che come tale non è
un tentativo. Il linguaggio ha tentato di indicare il non tentativo. Perché il tentativo può
riuscire o non riuscire là dove la scelta della parola “Destino” indica quella
stabilità che non è soggetta al fallimento, il Destino non è un tentativo anche
se esso appare nella dimensione in cui si manifesta ogni tentativo>>.
Ma
se quel [2]<<qualcosa che come tale non è un tentativo>> è
stato indicato da un [1]<<tentativo>>, allora anche quel [2]<<qualcosa>>
sarà inevitabilmente soggetto alla riuscita o alla non-riuscita
di [1], e questo anche
se <<la scelta della parola “Destino” indica quella stabilità che non
è soggetta al fallimento>>, giacché se la parola “Destino” fosse
davvero non soggetta al fallimento, allora [1] non sarebbe affatto stato
un tentativo, bensì un’autentica, veridica testimonianza del destino, evenienza
preclusa, s’è
visto, dalla stessa ascosità della verità nei confronti di chi vorrebbe
testimoniarla ma che, invece, <<è destinato a non sentire
la verità>>.
Tutto
ciò tanto più _ secondo le parole di Severino _ che dove <<v’è
solo un tentativo
di testimonianza>>, egli la dichiarerebbe <<una
testimonianza fallita>>…
Roberto Fiaschi
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