Circa il
rapporto errore-verità
del destino severiniano, Sergio
Piccerillo ( = SP), nel gruppo Filosofia e
Destino (https://www.facebook.com/groups/189067592021847) ha scritto quanto segue:
<<Anche
la mia è una fede, anche il mio dire è errore, ma il principio di non
contraddizione non smette di valere se qualcuno pensa di ignorarlo. Come
si fa dalla condizione di errore, dalla condizione di mortale, a sapere che la
verità esiste? Innanzitutto perché se la verità non esistesse non si potrebbe
dire nulla di nessuna cosa, nemmeno che l’errore è errore, in seconda battuta
perché il linguaggio con cui si dice del principio “indica” qualcosa che non
può essere solo linguaggio, ma qualcosa che sta oltre il linguaggio. Questo
essere oltre il linguaggio è l’identità che ogni differenza appunto indica>>.
Passo per passo.
(1)- <<Anche
la mia è una fede, anche il mio dire è errore, ma il principio di non
contraddizione non smette di valere se qualcuno pensa di ignorarlo>>.
Poiché SP
riconosce esser, la sua, <<una fede>>, e poiché anche il suo <<dire è errore>>,
allora con quale pretesa di verità SP può asserire che <<il principio
di non contraddizione non smette di valere se qualcuno pensa di ignorarlo>>?
Infatti, tale
principio, interno all’orizzonte dell’errore, si presenta come un DIRE
circa il quale SP ha affermato essere <<errore>> e <<fede>>, sebbene
il suo presentarsi come errore venga appunto CREDUTO UNA VERITÀ proprio da colui che
ha ammesso che il proprio DIRE sia errore…
Pertanto, l’affermazione
(1) indica la FEDE
(nel senso NEGATIVO conferitole da Severino) di SP nei confronti del principio
da lui evocato.
Senonché, egli
precisa:
(2)- <<Come
si fa dalla condizione di errore, dalla condizione di mortale, a sapere che la
verità esiste? Innanzitutto perché se la verità non esistesse non si potrebbe
dire nulla di nessuna cosa, nemmeno che l’errore è errore>>.
Ma che <<dalla
condizione di errore, dalla condizione di mortale>> si possa affermare
<<che la verità esiste>>
è pacifico, non è questo il punto.
Il punto è che
la verità che l’errore ritiene esistere (e magari individuare), NON PUÒ MAI essere la
verità del destino
severiniano, bensì sarà inevitabilmente una delle tante ‘verità’ interne
all’ERRORE o al NICHILISMO
(che l’errore NON ha COSCIENZA di essere: tutto ciò, sempre
secondo Severino).
Invece, proprio
per quanto appena detto, il brano (2) di SP presuppone la COSCIENZA DI ESSERE ERRORE, la qual cosa
è una di quelle VERITÀ del destino che egli NON PUÒ conoscere o averne coscienza.
Quindi, ove SP
sostiene che <<se la verità non esistesse non si potrebbe dire nulla
di nessuna cosa, nemmeno che l’errore è errore>>,
sta parlando da NON-ERRORE, sta
parlando da conoscitore delle verità del destino, ossia sta smentendo
un punto cardine della teoresi severiniana, giacché egli può ritenersi errore, come
infatti riconosce al punto (1), soltanto perché è CONSCIO della verità del
destino, e quindi è CONSCIO di essere ERRORE, non essendolo affatto, perché la
coscienza dell’errore è OLTRE
l’errore, o, con le parole di Severino:
<<Per
indicare l’Errare è necessario esserne al di fuori>>,
cioè AL DI FUORI dell’Errare...
Infine, scrive SP:
(3)- <<in
seconda battuta perché il linguaggio con cui si dice del principio “indica”
qualcosa che non può essere solo linguaggio, ma qualcosa che sta oltre il
linguaggio. Questo essere oltre il linguaggio è l’identità che ogni differenza
appunto indica>>.
Anche qui, vige la stessa presupposizione
vista al punto (2).
Inoltre, osserverei che <<l’identità che ogni differenza appunto indica>> NON è affatto <<oltre il linguaggio>>, perché l’identità
indicata da ogni differenza è l’identità SIGNIFICANTE ( = linguaggio) identità,
indicata da ogni differente SIGNIFICANTE ( = linguaggio) come differenza
rispetto al SIGNIFICARE ( = linguaggio) come identità…
La filosofia di Severino è tutt’altro che
apofatica, e soltanto nell’apofatismo è possibile far tacere il
linguaggio al fine di far emergere l’indicibile…
Roberto Fiaschi
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