In relazione al post
n° 69, così replica Angelo Santini (d’ora in poi AS):
<<Ciao
Roberto. Incomincio con il rispondere che dissento sul ritenerci Io empirici.
Chi sperimenta ciò che appare nel nostro Cerchio finito del Destino è il nostro
Io finito del Destino, non l'io empirico (che si potrebbe definire una sorta di
"avatar" che rappresenta la persona che appare nel nostro
cerchio finito del destino). L'io empirico non ha realtà propria ed esiste come
contenuto della fede (la fede che esista fisicamente la persona, anziché
l'insieme delle determinazioni che ne rappresentano il fittizio agire, ovvero
la persuasione di agire, secondo la filosofia sostenuta da Severino). Il nostro
Io finito del Destino può essere "persuaso" dell'errore solo nel
senso che in esso non appaiono ancora le configurazioni che ne mostrano
l'erroneità (e come ho detto in commenti precedenti, l'errore che appare
processualmente nel cerchio finito del Destino non solo è dovuto alla
contraddizione C, ma non è separato dal suo essere originariamente oltrepassato
dalla verità che lo nega, appunto, originariamente. Occorre sempre tener presente
che la realtà dell'apparire finito è l'apparire infinito e che dunque anche ciò
che appare processualmente nel cerchio finito del Destino è da sempre e per
sempre congiunto con il percorso infinito del cerchio finito dl Destino,
destinato ad apparirgli da sempre, che già appare da sempre nell'apparire
infinito). Secondo la filosofia di Severino non vi è in noi un soggetto che
abbia fede, pensi e si rappresenti la realtà, ma solo l'apparire di
configurazioni coscienziali in cui si inscena questo e la identificazione con
un io empirico calato in un presunto mondo esterno, creduto diveniente. Di
conseguenza l'apparire della persuasione nell'errore non intacca l'Io finito
del Destino, il quale non è che "creda" nell'errore quando gli appare,
quanto piuttosto è pervaso in quel momento principalmente da quella particolare
serie di configurazioni coscienziali che inscenano la persuasione dell'essere
un io empirico che ha fede in qualcosa, mentre l'oltrepassamento dell'errore
(già originariamente avvenuto nell'apparire infinito) è semplicemente
l'apparire di configurazioni coscienziali in cui è da sempre presente la
comprensione dell'errore in quanto errore, e della verità in quanto tale. L'unico
vero protagonista che esperisce tutto è sempre e solo l'apparire infinito che,
nel tratto del nostro cerchio finito del Destino, sperimenta soltanto alcune
sue porzioni coscienziali alla volta in cui la verità appare contrastata
dall'errore, in un percorso dialettico che è esattamente il progressivo
risolvimento della contraddizione C. Non è l'io empirico Severino ad aver
indicato la verità del Destino ai nostri io empirici o al nostro Io finito del
Destino, ma è l'Io Infinito del Destino che, in questo tratto di realtà della
terra isolata, appare processualmente e parzialmente in sé e a sé ospitando
solo alcuni tratti coscienziali di se stesso e che quindi autoappare a sé in
questo modo parziale, nel quale è inscenato un contrasto tra la verità e
l'errore che passa anche per equivoci come quelli secondo cui a testimoniare e
indicare il Destino sia un io empirico anziché l'Io finito del Destino (che è
una porzione dell'Io infinito del Destino). In altre parole, ad aver indicato
la verità del Destino è il Destino stesso a sé stesso e in se stesso (in questo
tratto della terra isolata, nella forma processuale inscenata dal contesto
stesso della terra isolata, quale contrasto tra la verità e l'errore e l'idea
che siano gli individui a testimoniare qualcosa. Il Destino, in questa parte
dell'apparire infinito che è la nostra esperienza attuale dell'apparire
processuale, mostra in se stesso la sua verità nella forma fittizia di un io
empirico che apparentemente la comunica ad altri, ma che in realtà è sempre e
solo Io del Destino in cui appare la persuasione nichilista del divenire, ma
anche il suo progressivo risolvimento). Se tenendo presente ciò si considerano
le precedenti osservazioni che ho esposto, dovrebbe risultare chiaro il perché
l'apparire delle "correzioni" nei testi di Severino sia semplicemente
l'apparire processuale della verità dell'Io finito del Destino in sé stesso,
attraverso il progressivo risolvimento della contraddizione C, senza che ciò
comporti le contraddizioni che ritieni di aver rilevato. Ricordo che secondo la
filosofia severiniana il concreto è l'intero, l'astratto è la parte e la
posizione astratta dell'astratto è il considerare la prospettiva della parte
come se fosse a sé stante (quando invece rispetto all'apparire infinito, la
parte è un suo momento, aspetto, non autosussistente in sé, sicché lo stesso Io
finito del Destino è in realtà una porzione dell'Io infinito del Destino in cui
appare tutta l'infinita serie di configurazioni coscienziali che lo
caratterizzano, ma non tutte quelle esistenti da sempre apparenti solo nell'Io
infinito del Destino>>.
Rispondo punto per
punto.
Scrive AS:
<<Ciao
Roberto. Incomincio con il rispondere che dissento sul ritenerci Io empirici. Chi sperimenta ciò che appare
nel nostro Cerchio finito del Destino è il nostro Io finito del Destino,
non l'io empirico (che si potrebbe
definire una sorta di "avatar" che rappresenta la persona che
appare nel nostro cerchio finito del destino)>>.
Temo che Severino NON sia d’accordo con
AS.
Vediamo. Scrive il
filosofo bresciano:
<<l'Io del
destino sperimenta il dolore e l'angoscia, MA LASCIA CHE SIA L'IO DELL'INDIVIDUO A PROVARE SCONCERTO, TURBAMENTO E LA FORMA DI DOLORE E
DI ANGOSCIA CHE NE CONSEGUONO; e vede in questa e in ogni altra forma
dell'affettivita' la conseguenza inevitabile dell'errare in cui l'io
dell'individuo consiste. Sa che tutto cioè che gli accade (ossia che appare,
entrando nel cerchio finito dell'apparire) è quello che è solo in quanto gli è
identico; e sa che l'angoscia
dell'individuo di fronte alla vita
è dovuta, da un lato, alla prevaricazione, nella solitudine della terra dove
l'individuo resta evocato, del linguaggio che testimonia la terra isolata, e,
dall'altro, all'assenza del linguaggio che testimonia il destino della verità e
della terra - ossia testimonia lo stesso Io del destino>> (Severino:
La Gloria, pag. 66. Maiuscoli miei: RF).
Dunque, è chiaro: ANCHE
l’io empirico PROVA
o SPERIMENTA
<<SCONCERTO, TURBAMENTO E LA FORMA DI DOLORE E DI ANGOSCIA CHE NE
CONSEGUONO>>, così come egli PROVA gioia e quant’altro…
Anche volendolo considerare
soltanto un <<avatar>>, l’io empirico rappresenta pur sempre
<<la persona
che appare nel nostro cerchio finito del destino)>> e, poiché appare,
essa è <<la persona>>
specifica che dice di essere.
D’altronde, se
davvero _ come sostiene AS _, dissentissimo dal <<ritenerci Io empirici>>,
dovremmo altresì dissentire
da quanto afferma lo stesso Severino, ove osserva che:
<<Nelle
pagine che precedono viene mostrata l’impossibilità di tener ferma la tesi,
sostenuta nella Gloria, che tutte le terre entrano nei cerchi della
costellazione infinita in un unico evento, non contenente in sé alcuna
successione di altri eventi. Il linguaggio che afferma di testimoniare il
destino nega cioè sé stesso. E non solo in questa circostanza. Accade sin dalla
Struttura originaria, rispetto ai precedenti scritti dello stesso
autore, e poi anche negli scritti successivi. Che il percorso da essi compiuto
risulti complessivamente compatto non esclude che al suo interno esso si
proponga più volte come negazione
di alcuni dei propri passi precedenti>>.
Tale <<negazione>> non
è la semplice contraddizione C, negata progressivamente
dall’implemento del contenuto empirico nell’apparire finito, bensì è la contraddizione
normale, ossia quella dal contenuto NULLO.
Inoltre, nel libro: Intorno
al senso del nulla, pag. 191 ss., leggiamo ancora:
<<Nel
cerchio originario del destino _ quello cioè in cui appare la terra isolata che
include il “mio esser uomo”
_, il linguaggio che testimonia la terra isolata precede il sopraggiungere del
linguaggio che testimonia il destino […]. Il linguaggio che testimonia
la terra isolata è il linguaggio dell’errare. […] Per quanto compatto tale linguaggio si presenti
nel suo testimoniare il destino e per quanto addietro nel tempo sia
sopraggiunto il suo inizio, anche
questo linguaggio è stato un errare. L’esempio più recente riguarda _ come si è mostrato nella
prima parte di questo scritto [Intorno al senso del nulla] _ il
modo in cui nella Morte e la terra è stata considerata l’aporia
determinata dalla contraddizione del significato non è (la
contraddizione Un)>>.
Come appare
evidente, il linguaggio che testimonia il destino NON è il linguaggio dell’Io del
destino, bensì è <<il linguaggio che testimonia la terra isolata>>
cioè, appunto, il linguaggio dell’io empirico o <<linguaggio dell’errare>>.
Ma proseguiamo con
le pur sempre ottime osservazioni di AS:
<<L'io
empirico non ha realtà propria ed esiste come contenuto della fede (la fede che
esista fisicamente la persona, anziché l'insieme delle determinazioni che ne
rappresentano il fittizio agire, ovvero la persuasione di agire, secondo la
filosofia sostenuta da Severino). Il nostro Io
finito del Destino
può essere "persuaso" dell'errore solo nel senso che in esso
non appaiono ancora le configurazioni che ne mostrano l'erroneità (e come ho
detto in commenti precedenti, l'errore che appare processualmente nel cerchio
finito del Destino non solo è dovuto alla contraddizione C, ma non è separato
dal suo essere originariamente oltrepassato dalla verità che lo nega, appunto,
originariamente. Occorre sempre tener presente che la realtà dell'apparire
finito è l'apparire infinito e che dunque anche ciò che appare processualmente
nel cerchio finito del Destino è da sempre e per sempre congiunto con il
percorso infinito del cerchio finito dl Destino, destinato ad apparirgli da
sempre, che già appare da sempre nell'apparire infinito)>>.
Dissento, ma non
tanto io, bensì lo stesso Severino, in riferimento a ciò che AS afferma:
<<Il nostro
Io finito del Destino può essere "persuaso" dell'errore solo nel
senso che in esso non appaiono ancora le configurazioni che ne mostrano
l'erroneità>>, giacché l’Io finito del destino NON può persuadersi
di alcunché se non della verità che esso è.
A persuadersi,
infatti, è sempre e soltanto l’io empirico, il quale, essendo errore, non può
che errare, anche e soprattutto nel suo testimoniare il destino tramite il <<linguaggio
dell’errare>>.
Come avevo già indicato
nel post n° 69 dove
rispondevo ad AS, l’Io finito del destino NON può
MAI <<trovarsi a sperimentare la persuasione di credere vero un errore>>, non solo perché esso <<non crede in nulla>> tout
court (Severino: Intorno al senso del nulla, Adelphi 2013,
pag. 211), giacché l’Io
del destino <<non crede in nessuno dei
contenuti del destino che il linguaggio testimoniante il destino va indicando>> (idem),
quindi non può nemmeno <<credere vero un errore>>, ma altresì perché CHI crede vero un errore (senza
neppur sapere di esser errore) è soltanto l’io empirico, non a caso ritenuto errore, ossia
colui che tenta di testimoniare il destino.
Dunque, un Io finito
del destino che fosse <<"persuaso" dell'errore
solo nel senso che in esso non appaiono ancora le configurazioni che ne
mostrano l'erroneità (e come ho detto in commenti precedenti, l'errore che
appare processualmente nel cerchio finito del Destino non solo è dovuto alla
contraddizione C, ma non è separato dal suo essere originariamente oltrepassato
dalla verità che lo nega, appunto, originariamente>>, implicherebbe
la sua (dell’Io del destino) NESCIENZA circa l’esser <<separato dal
suo [dell’errore] essere originariamente oltrepassato dalla verità che
lo nega, appunto, originariamente>>.
Invece, l’Io del
destino NON
ignora tale <<essere originariamente oltrepassato dalla verità che lo
nega>>, poiché esso NON è separato da sé, cioè dalla verità cui esso è…
Ripeterei: ad esser <<"persuaso" dell'errore>> è SOLTANTO
l’io empirico-errore, il quale è ERRORE senza nemmeno saperlo…
AS: <<Secondo
la filosofia di Severino non vi è in noi un soggetto che abbia fede, pensi e si
rappresenti la realtà, ma solo l'apparire di configurazioni coscienziali in cui
si inscena questo e la identificazione con un io empirico calato in un presunto
mondo esterno, creduto diveniente. Di conseguenza l'apparire della persuasione
nell'errore non intacca l'Io finito del Destino, il quale non è che
"creda" nell'errore quando gli appare, quanto piuttosto è pervaso in
quel momento principalmente da quella particolare serie di configurazioni
coscienziali che inscenano la persuasione dell'essere un io empirico che ha
fede in qualcosa, mentre l'oltrepassamento dell'errore (già originariamente
avvenuto nell'apparire infinito) è semplicemente l'apparire di configurazioni
coscienziali in cui è da sempre presente la comprensione dell'errore in quanto
errore, e della verità in quanto tale. L'unico vero protagonista che esperisce
tutto è sempre e solo l'apparire infinito che, nel tratto del nostro cerchio
finito del Destino, sperimenta soltanto alcune sue porzioni coscienziali alla
volta in cui la verità appare contrastata dall'errore, in un percorso
dialettico che è esattamente il progressivo risolvimento della contraddizione C>>.
Affermare: <<Secondo
la filosofia di
Severino non vi è in noi un soggetto
che abbia fede, pensi e si rappresenti la realtà>>, significa
affermare che secondo il <<soggetto>> Severino, <<non vi è in noi un soggetto>> di
nome Severino che <<abbia fede, pensi e si rappresenti la
realtà>> attraverso la sua filosofia.
Per cui tale
affermazione della <<filosofia di Severino>> cioè del <<soggetto>>
Severino, negando che vi sia <<un soggetto che abbia fede, pensi e si rappresenti la
realtà>> mediante la sua filosofia, nega che quest’ultima tesi appartenga
alla <<filosofia di
Severino>> cioè di un <<soggetto>>.
Il che vuol dire che
<<Secondo la filosofia di Severino>> NON vi è alcuna <<filosofia di Severino>>,
per cui non vi è neppure la negazione di <<un soggetto che abbia fede, pensi e si
rappresenti la realtà>> mediante ciò che è stata chiamata <<la
filosofia di
Severino>>:
non rimane nulla…
Poi, se <<Secondo
la filosofia di Severino non vi è in noi un soggetto che abbia fede, pensi e si
rappresenti la realtà>>, vi è però tale FEDE o SOGNO, al cui interno
noi (io, te, loro…) agiamo come io empirici.
Come dice
esplicitamente Severino, questa FEDE NON SA di esser tale, ossia di essere
ERRORE, ed a maggior ragione non può costitutivamente sapere alcunché circa la
verità del destino.
Tant’è vero che <<è
necessario che la FEDE
in cui consiste l'io empirico NON CAPISCA
CON VERITÀ il linguaggio testimoniante il destino, che tale fede crede di
capire>>. (E. Severino, La morte e la terra, pag. 138.
Maiuscoli miei: RF).
E siamo di nuovo
punto e a capo.
Ossia: siccome tutti
noi siamo (la FEDE di esser) venuti a conoscenza del destino di cui parla
Severino tramite i suoi libri/conferenze, ma se tale destino è testimoniato
SOLTANTO dall’Io
del destino, allora non ha alcun senso sostener <<che la FEDE in cui consiste l'io
empirico NON CAPISCA CON VERITÀ il
linguaggio testimoniante il destino>>, perché se a testimoniare il
destino fosse davvero l’Io
del destino (anziché noi io empirici), allora noi, in quanto io empirici-FEDE, NON potremmo SAPERLO
NÉ CAPIRLO,
NÉ potremmo
saper di esser FEDE, perché per saperlo, dovremmo aver già presente la verità
del destino.
Non solo, MA NON
POTREBBE MAI REALIZZARSI l’evenienza in cui <<Per quanto compatto tale
linguaggio si presenti nel suo testimoniare il destino e per quanto addietro
nel tempo sia sopraggiunto il suo inizio, anche questo linguaggio
è stato un errare>>.
Il che vuol dire che
il linguaggio che testimonia il destino NON può essere ‘opera’ dell’Io del destino, ma
soltanto dell’io empirico-errore, altrimenti, se fosse diretta testimonianza
del primo, sarebbe allora FALSO
- o (AUT)
che <<che la FEDE in cui consiste l'io empirico NON CAPISCA CON
VERITÀ il linguaggio testimoniante il destino>>, visto che i testi
dai quali siamo venuti a conoscenza del destino sono dell’io
empirico-errore-Severino,
- oppure (AUT)
sarebbe FALSO
che l’Io del
destino sia la stessa VERITÀ
del destino ( = la struttura originaria).
Senonché, AS osserva
che:
<<Non è l'io empirico
Severino ad aver indicato la verità del Destino ai nostri io empirici o al
nostro Io finito del Destino, ma è l'Io Infinito del Destino che, in questo tratto di
realtà della terra isolata, appare processualmente e parzialmente in sé e a sé
ospitando solo alcuni tratti coscienziali di se stesso e che quindi autoappare a
sé in questo modo parziale, nel quale è inscenato un contrasto tra la verità e
l'errore che passa anche per equivoci come quelli secondo cui a testimoniare e
indicare il Destino sia un io empirico anziché l'Io finito del Destino (che è
una porzione dell'Io infinito del Destino). In altre parole, ad aver indicato
la verità del Destino è il Destino stesso a sé stesso e in se stesso (in questo
tratto della terra isolata, nella forma processuale inscenata dal contesto
stesso della terra isolata, quale contrasto tra la verità e l'errore e l'idea
che siano gli individui a testimoniare qualcosa. Il Destino, in questa parte
dell'apparire infinito che è la nostra esperienza attuale dell'apparire
processuale, mostra in se stesso la sua verità nella forma fittizia di un io
empirico che apparentemente la comunica ad altri, ma che in realtà è sempre e
solo Io del Destino in cui appare la persuasione nichilista del divenire, ma
anche il suo progressivo risolvimento)>>.
Nel precedente
intervento, AS aveva sostenuto
<<che sia
l'Io [finito] del Destino il solo a poter
comprendere la verità del Destino stesso>>.
Adesso, però,
subentra un altro protagonista, ossia <<l'Io Infinito del Destino>>.
Ma ciò AGGRAVA INFINITAMENTE L’APORIA
da me indicata, perché se fosse davvero <<l'Io Infinito del Destino>> <<ad
aver indicato la verità del Destino ai nostri io empirici>>, allora
esso sarebbe ancor MENO ‘scusabile’ o giustificabile per gli ERRORI apparsi in
tale testimonianza (notare: una testimonianza DI SÉ SU DI SÉ), senza neppure poter addurre
la scusante della contraddizione C, giacché nell’Io infinito, <<le
configurazioni che ne
mostrano l'erroneità (e come ho detto in commenti precedenti, l'errore che appare
processualmente nel cerchio finito del Destino non solo è dovuto alla
contraddizione C, ma non è separato dal suo essere originariamente oltrepassato
dalla verità che lo nega, appunto, originariamente)>> sono da sempre già
tutte presenti cioè compiute-risolte, e quindi l’ERRORE è da sempre
visto-risolto-negato…
Per cui, se si
sostiene _ come sostiene AS _ che <<ad aver indicato la verità del
Destino è il Destino
stesso a sé stesso e in se stesso>>, mostrando <<in
se stesso la sua verità nella forma fittizia di un io empirico che
apparentemente la comunica ad altri, ma che in realtà è sempre e solo Io del
Destino in cui appare la persuasione nichilista del divenire, ma anche il suo
progressivo risolvimento)>>,
allora non solo _
come già visto _ è il <<Destino stesso>> ( = l’apparire
infinito) il responsabile degli errori SU DI SÉ, appunto perché <<Non è l'io empirico
Severino ad aver indicato la verità del Destino ai nostri io empirici o al
nostro Io finito del Destino, ma
è l'Io Infinito del
Destino>>,
ma allora, ciò rende
FALSA la
tesi severiniana secondo la quale
<<la FEDE in cui consiste l'io
empirico NON CAPISCA CON VERITÀ il
linguaggio testimoniante il destino>>,
e che
<<proprio perché è fede, è destinato a non sentire la verità:
in quanto ascoltata da “me”, cioè dalla fede in cui “io” come individuo mortale
consisto, la verità non può
essere verità, e io sono destinato ad essere soltanto il desiderio, in
indefinitum, della verità>>. - (La struttura originaria,
pag. 89),
appunto perché, se
davvero fosse <<l'Io Infinito
del Destino>>
ad indicare <<la verità del Destino ai nostri io empirici o al nostro
Io finito del Destino>>, esso avrebbe dovuto sapere che l’io empirico
è IMPOSSIBILITATO A CAPIRE <<CON VERITÀ il linguaggio
testimoniante il destino>>, per cui sarebbe del tutto VANO indicar
loro tale verità.
Come infatti
conferma il filosofo bresciano:
<<l'individuo è il non illuminabile.
Perché l'individuo è errore>>. -
Severino: La legna e la cenere).
Perciò, ripeto, è del tutto INUTILE indicare
la verità agli io empirici: essi NON sono illuminabili…
Col che, l’Io
infinito del destino si troverebbe nuovamente in errore, proprio nell’indicare <<la
verità del Destino ai nostri io empirici>> i quali sono
costitutivamente impossibilitati a CAPIRLA <<CON VERITÀ>>.
Non solo, ma se
davvero <<Non
è l'io empirico Severino ad aver indicato la verità del Destino ai nostri io
empirici o al nostro Io finito del Destino, ma è
l'Io Infinito del Destino>>,
allora non si
capisce perché egli ( = l’Io
infinito del
destino) ‘utilizzi’ <<il linguaggio dell’errare>>, come lo chiama Severino, ossia dal
linguaggio che <<nega
cioè sé stesso>> in quanto <<al suo interno esso si propon[e]
più volte come negazione
di alcuni dei propri passi precedenti>>.
Qui, <<negazione>>,
vuol dire: contraddizione normale…
D’altronde, è ovvio
che se il destino è testimoniato dal <<linguaggio dell’errare>>, risulta
impossibile ritener che tale testimonianza sia ascrivibile alla verità o all’Io infinito del destino.
Poiché, perciò, il
destino è testimoniato dal <<linguaggio dell’errare>>, allora, inevitabilmente, il
destino è testimoniato dall’errore-io
empirico, e NON
dall’Io del destino…
Infine, conclude AS:
<<Se
tenendo presente ciò si considerano le precedenti osservazioni che ho esposto,
dovrebbe risultare chiaro il perché l'apparire delle "correzioni" nei
testi di Severino sia semplicemente l'apparire processuale della verità dell'Io
finito del Destino in sé stesso, attraverso il progressivo risolvimento della
contraddizione C, senza che ciò comporti le contraddizioni che ritieni di aver
rilevato>>.
Ho tenuto sì
presente le precedenti osservazioni di AS, ma esse NON giustificano gli errori teoretici commessi
(ed ammessi) dallo stesso Severino (vedasi post n° 70), ossia tali ERRORI (AS scrive: "correzioni"
ma non scrive: ERRORI, sebbene Severino definisca il linguaggio
testimoniante il destino come il <<linguaggio dell’errare>>) NON SONO <<semplicemente
l'apparire processuale della verità dell'Io finito del Destino in sé stesso,
attraverso il progressivo risolvimento della contraddizione C>>, giacché
tali errori sono rappresentati da contraddizioni normali, la cui
risoluzione impone la negazione
del loro contenuto, NON già l’incremento o la processualità di
ulteriori essenti come vuole la contraddizione C.
Dunque, posto il
nostro (di noi io empirici) essere ERRORI interni al SOGNO-ERRORE, ma,
al contempo, posto anche questo nostro SAPERE di essere errori interni
al sogno-errore che, in realtà, dice Severino, NON POSSIAMO AFFATTO SAPERLO
giacché l’errore NON
SA di essere
tale, allora abbiamo l’io empirico che è errore ma, SAPENDO DI ESSERLO, NON
è errore, appunto perché, che egli sia errore, sarebbe una verità del
destino che l’io empirico NON può sapere…
Concludendo.
Se <<Non è l'io empirico
Severino ad aver indicato la verità del Destino ai nostri io empirici>>,
men che meno può essere <<l'Io Infinito
del Destino>>, non solo perché avrebbe trovato un ‘terreno’ ( = l’io
empirico) INCAPACE
di recepirla, ma soprattutto perché l’<<Io [finito] del destino
– la struttura originaria del destino – non crede di essere l’apparire del
destino della verità, non crede in nessuno dei contenuti del destino che il
linguaggio testimoniante il destino va indicando […]. Non crede in nulla
perché [l’Io finito del destino] è l’apparire della
verità>>,
senza dover perciò scomodare l’Io infinito
(Severino: Intorno al senso… Op. cit., pag. 211).
Ciò vuol dire che l’Io
finito del destino, essendo <<l’apparire della verità>>, NON
può mai indicare ERRORI, altrimenti NON sarebbe <<l’apparire della verità>> il
quale, perciò, può indicare soltanto verità.
Dall’altro lato, <<la
fede in cui consiste l'io empirico NON CAPISC[E]
con verità il linguaggio testimoniante il destino>>, cosicché a nulla
servirebbe che l’Io finito (ma anche l’Io infinito) del destino possa indicare
la verità
<<ai nostri io empirici>>: questi NON la capirebbero…
Altrettanto APORETICA
è perciò la tesi secondo la quale il <<Destino>> debba mostrare <<in
se stesso la sua verità nella forma fittizia di un io empirico che apparentemente la comunica ad altri, ma che in realtà è sempre e solo
Io del Destino>>, perché se il protagonista è sempre e
soltanto quest’ultimo, allora tra l’io empirico-ERRORE e l’Io del destino-VERITÀ
NON sussiste
più alcuna differenza, giacché l’io empirico sarebbe capace di (saprebbe la) verità,
e l’Io del destino sarebbe capace dell’ERRORE (come appare negli scritti di
Severino), indistinguibilmente, sì da far venir meno la loro differenza, cioè
la differenza tra verità ed errore, tra Io del destino ed io empirico.
Inoltre, mostrare <<in
se stesso la sua [dell’Io del destino] verità nella forma fittizia di un io empirico>>,
significa mostrare una NON-verità, perché la <<forma fittizia di un io empirico>>
non può altro che errare attraverso il <<linguaggio dell’errare>>, cosicché dovremmo
credere che l’Io del destino mostri la propria verità ATTRAVERSO L’ERRORE!
Insomma, vi
sarebbero da scrivere ancora fiumi di righe, ma per ora termino qui.
Roberto Fiaschi
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