domenica 6 agosto 2023

73)- SECONDO DIALOGO CON EGON KEY SUL RAPPORTO SEVERINIANO “ERRORE-VERITÀ”


Così ha replicato Egon Key (EK) a quanto da me scritto nel post 72:

<<Eccoci. Dunque, dicevamo, che sia l'Io del destino a sapere è, appunto, ciò che ho sempre sostenuto. Ma «sapere» qui significa, innanzitutto, «apparire». Nel senso che l'apparire può apparire solo a sé medesimo. Non si dà alcun apparire che «appaia a qualcuno». La tua posizione è, invece, quella di un «apparire a...». Ma se si parla di un "soggetto empirico", cioè di un "qualcuno" a cui una certo qualcosa debba apparire – si parla unicamente di regressus (o di un progressus, se preferisci) in indefinitum circa il fondamento dell'apparire e il suo perpetuo differimento; infatti: se "l'apparire è sempre un apparire «a un io», o «a una coscienza», allora l'apparire «a me» è l'apparire all'apparire a me, (dove l'«a me» determina il progressus in indefinitum). L'apparire autentico (secondo la struttura autoriflessiva che caratterizza l'apparire in senso severiniano) è dunque ciò che include sé stesso nel proprio contenuto. Ne segue, allora, che non si dà alcun "soggetto empirico" a cui qualcosa appaia>>.

Proviamo a concedere, per un momento, che sia VERO quanto appena scritto da EK.

Ossia, concediamo che quanto da lui scritto sia un tratto della verità del destino severiniano (ne riparlerò alla fine del post).

Ebbene, io, che sto leggendo tutto ciò, così come EK, che ha scritto quanto vado leggendo, siamo INNEGABILMENTE io empirici.

Quindi, siccome 

<<Si deve pertanto concludere che nel pensiero dell’isolamento un lampo di comprensione autentica [del destino] è IMPOSSIBILE (nello stesso senso e per lo stesso motivo per cui lo si deve escludere in relazione all’io dell’individuo): è necessario che, all’interno del suo isolamento dalla verità del destino, il pensiero mortale [dell’io individuale, dunque] FRAINTENDASEMPRE E INEVITABILMENTE, le tracce della Gioia. Se dunque “anche nell’isolamento della terra il destino lascia la propria traccia”, questa “non può non essere ambigua, sviante, cioè NON PUÒ CONDURRE GLI ABITATORI DELLA TERRA ISOLATA ALLA LUCE DEL DESTINO. ALTRIMENTI LA TERRA NON SAREBBE ISOLATA”>>. – (Nicoletta Cusano: Emanuele Severino. Oltre il nichilismo. Morcelliana 2011, pag. 447. Maiuscoli miei: RF),

allora, si dovrà altrettanto concludere con l’IMPOSSIBILITÀ che EK (ma poi qualsiasi altro io empirico) SAPPIA ( = gli APPAIA) quel tratto del destino secondo cui viene NEGATO che vi sia <<un "soggetto empirico", cioè di un "qualcuno" a cui una certo qualcosa debba apparire>>.

Giacché egli, per poter scrivere ciò, come di fatto ha scritto, DEVE ESSER CONSAPEVOLE ( = DEVE SAPERE; DEVE APPARIRGLI) che <<Non si dà alcun apparire che «appaia a qualcuno»>>. 

Ma ciò è precisamente quanto egli NON PUÒ SAPERE ( = NON PUÒ APPARIRGLI), appunto perché, in quanto è ERRORE, è IMPOSSIBILE <<CONDURRE GLI ABITATORI DELLA TERRA ISOLATA ALLA LUCE DEL DESTINO. ALTRIMENTI LA TERRA NON SAREBBE ISOLATA”>>.

Invece, quanto da lui scritto PRESUPPONE GIÀ la conoscenza ( = l’apparirgli) del destino, CONOSCENZA (nel senso più lato possibile) che però egli NON può avere, proprio in forza del suo essere errore, il quale <<è necessario che, all’interno del suo isolamento dalla verità del destino, […] fraintendasempre e inevitabilmente, le tracce della Gioia>>.

Si osserverà, però, che la consapevolezza di essere errore, presuppone l’apparire del destino in base al quale è possibile l’esserci dell’errore.

Ma, nuovamente, la consapevolezza dell’apparire del destino, unitamente alla consapevolezza di essere errore, consapevolezza che, secondo Severino, l’errore NON POSSIEDE, è indice che l’errore sappia / sia consapevole di ciò che, invece, non può sapere né esser consapevole.

Pertanto, stante questa consapevolezza, si deve allora necessariamente concludere con la FALSITÀ della tesi severiniana, secondo la quale l’errore-io empirico,  

<<proprio perché è fede, è destinato a NON SENTIRE LA VERITÀ: in quanto ascoltata da “me”, cioè dalla fede in cui “io” come individuo mortale consisto, LA VERITÀ NON PUÒ ESSERE VERITÀ, e io sono destinato ad essere soltanto il desiderio, in indefinitum, della verità>>. - (La struttura originaria, pag. 89. Maiuscoli mei: RF).

Peraltro, questo brano di Severino mostra come all’io empirico-fede APPAIA qualcosa _ dice: <<in quanto ascoltata da “me”, cioè dalla fede in cui “io” come individuo mortale consisto>> _; per la precisione gli APPARE la terra isolata o la fede in tutto ciò in cui egli ha fede, SENZA SAPERE né che tale terra sia isolata né che ciò che gli appare sia fede, perché se <<io [empirico: Roberto, Gianni, Angelo…] sono destinato ad essere soltanto il desiderio, in indefinitum, della verità>>, vuol dire che sono SOGGETTO A CUI APPARE almeno il <<desiderio, in indefinitum, della verità>>, pur SENZA MAI USCIRE DALL’ERRORE cui sono, appunto perché, ripeto con Nicoletta Cusano:

<<Se dunque “anche nell’isolamento della terra il destino lascia la propria traccia”, questa “non può non essere AMBIGUA, SVIANTE, CIOÈ NON PUÒ CONDURRE GLI ABITATORI DELLA TERRA ISOLATA ALLA LUCE DEL DESTINO. Altrimenti la terra non sarebbe isolata”>>.

Proseguo perciò con la replica di EK:

<<Riallacciandoci poi al discorso dell'identità di identità (quello dell'Io che è includente il dolore come lo stesso dolore che è incluso nell'Io), senza però scordare quello dell'apparir-si dell'Io, va detto che l'Io del destino non incorre in un suo, per cosi dire, duplicato, bensì appare, nell'Io, l'essere-insieme-ad-altro da parte dell'Io, che è identico all'Io, e che proprio perché è identico appare di necessità nell'Io! Qui pertanto, non riduciamo a illusione l'io empirico, né diciamo che sia l'io empirico a sapere qualcosa. Esso è esistente, in quanto essente, ma come contraddizione che è però negata nella verità (ma per essere negata nella verità, tale contraddizione deve prima apparire ma, dicevamo, non può «apparire a...»>>.

Molto bene, ma siamo sempre punto e a capo.

Perché?

Perché ANCHE quanto appena qui scritto da EK, è il punto di vista dell’Io del destino-verità, NON dell’io empirico; punto di vista ( = apparire) che NON PUÒ ESSERE COMPRESO DA ( = NON PUÒ APPARIRE A) l’io empirico-errore (ed è INNEGABILE che qui ed ora, APPARE che sia l’io empirico-EK ad aver scritto, così come APPARE esser l’io empirico-Fiaschi Roberto a leggere e a replicare…).

Inoltre, che l’io empirico sia <<esistente, in quanto essente>>, siamo perfettamente d’accordo; che invece esso (o egli) esista <<come contraddizione che è però negata nella verità (ma per essere negata nella verità, tale contraddizione deve prima apparire ma, dicevamo, non può «apparire a...»>>, è un qualcosa che l’io empirico NON può sapere.

L’io empirico NON SA di essere errore, come già detto, SA, perciò, di esser contraddizione <<negata nella verità>>.

Chi SA tutto ciò è SOLTANTO l’Io del destino-verità, dal quale l’io empirico è ISOLATO;

ma chi SCRIVE tutto ciò (e quindi SA tutto ciò) è SOLTANTO l’io empirico…

A questo punto è del tutto ovvio aspettarsi, da parte severiniana, la NEGAZIONE che l’io empirico sia l’autore di quanto è stato qui scritto, ché, se così non si negasse, si dovrebbe prendere atto che l’io empirico sia UN SOGGETTO A CUI APPARE ‘QUALCOSA’.

Se, come precisa EK, <<per essere negata nella verità, tale contraddizione deve prima apparire ma, dicevamo, non può «apparire a...»>> l’io empirico, allora si dovrà concludere circa la COMPLETA INUTILITÀ della posizione dell’io empirico, perché se è impossibile un <<"soggetto empirico", cioè di un "qualcuno" a cui una certo qualcosa debba apparire>>, allora NON si capisce affatto il senso dell’esistenza dell’io empirico-errore, visto che costui NON ha parole da esprimere (cioè non scrive, non legge, non replica, etc…) poiché ad esso NULLA APPARE MAI

Cosicché, perciò, secondo EK vi sia soltanto ed esclusivamente il mono-protagonista cui è l’Io del destino-verità.

Il quale, tuttavia, si è sovente mostrato ERRANTE in alcuni snodi teoretici; la qual cosa NON si addice a ciò che Severino ritiene essere l’<<Io [finito] del destino – la struttura originaria del destino>> il quale, proprio per questo, <<Non crede in nulla perché [l’Io finito del destino] è l’apparire della verità>>. (Severino: Intorno al senso del nulla, pag. 211).

Inoltre, se <<Non si dà alcun apparire che «appaia a qualcuno»>>, se <<Non si dà>> alcun <<"soggetto empirico", cioè di un "qualcuno" a cui una certo qualcosa debba apparire>>, allora NON SI CAPISCE da dove derivi il linguaggio che testimonia il destino come <<linguaggio dell’errare>>.

Sì, perché se gli enti appaiono SOLTANTO all’Io del destino, NON SI CAPISCE perché a testimoniare SÉ STESSO sia proprio il <<linguaggio dell’errare>>:

<<Nel cerchio originario del destino _ quello cioè in cui appare la terra isolata che include il “mio esser uomo” _, il linguaggio che testimonia la terra isolata precede il sopraggiungere del linguaggio che testimonia il destino […]. Il linguaggio che testimonia la terra isolata è il linguaggio dell’errare. […] Per quanto compatto tale linguaggio si presenti nel suo testimoniare il destino e per quanto addietro nel tempo sia sopraggiunto il suo inizio, anche questo linguaggio è stato un errare. L’esempio più recente riguarda _ come si è mostrato nella prima parte di questo scritto [Intorno al senso del nulla] _ il modo in cui nella Morte e la terra è stata considerata l’aporia determinata dalla contraddizione del significato non è (la contraddizione Un)>>. (Severino: Intorno al senso del nulla, pag. 191 ss).

Leggiamo ancora EK:

<<Ogni essente è insieme alla totalità dell'altro, ed è appunto identico a questo suo essere insieme alla totalità dell'altro. Se non si desse questo «essere-insieme» non si darebbe «esser sé» da parte del qualcosa. L'io empirico , in quanto contraddittorietà', è un niente, cioè esiste soltanto come contenuto di una fede – come positività del contraddirsi da parte di una fede>>.

Ma ripeto:

se <<L'io empirico , in quanto contraddittorietà', è un niente, cioè esiste soltanto come contenuto di una fede – come positività del contraddirsi da parte di una fede>>,

allora perché l’Io del destino ( = la struttura originaria) è testimoniata dal (o mediante il) <<linguaggio dell’errare>>?

EK: <<Il problema (apparente) dell'aporeticità del rapporto tra Io del destino e io empirico, sorge perché si identifica ciò che la volontà interpretante nomina "individuo" con l'errore, e non come ciò che è l'apparire della contesa tra verità e l'errore (errore per l'apparire finito dell'infinito): la verità dell'essere è, infatti, lo sfondo di ogni apparire o dell'apparire in quanto tale>>.

Ma non è un’<<apparente>> aporeticità.

In Severino è detto in lungo ed in largo che l’errore è proprio l’<<"individuo">> cioè l’io empirico, la volontà, la fede:

<<l'individuo è errore. Se ci si rende conto che l'individuo è errore, allora la verità non ha il compito di rendere verità l'errore>>. (Severino: La legna e la cenere).

Altrove, EK mi aveva scritto:

<<ma tu identifichi tout court ciò che diciamo "individuo" con l'errore, e non come l'apparire della contesa tra verità ed errore>>.

Esatto, infatti l’errore NON è <<l'apparire della contesa tra verità e l'errore (errore per l'apparire finito dell'infinito)>> perché, la <<contesa tra verità e l'errore>> comporta che quest’ultimo sia UNA parte in causa nella contesa, e NON che la contesa stessa sia l’errore!

L’errore è quella parte inclusa nell’Io finito del destino rispondente al nome di “io empirico” o, appunto, errore.

Inoltre, tale contesa, perciò, è SAPUTA ( = APPARE) SOLTANTO da un unico protagonista, cioè dalla verità, NON dall’errore.

Tuttavia, Severino, alla domanda:

<<Chi può dare testimonianza della verità?>>,

risponde:

<<Innanzitutto, non è l'individuo che testimonia, cioè pensa esplicitamente la verità. Se fosse l'individuo a testimoniare la verità, allora la testimonianza sarebbe per definizione individuale, cioè ridotta allo spazio, al tempo e ai limiti dell'individuo. Bisogna vedere l'errore del concetto che "Io vado verso la verità" e che "se mi va bene, a un certo momento la vedrò". No! Perché se "Io" è ad esempio il sottoscritto, con questa struttura fisica determinata, allora sarebbe come dire che un occhio cieco può vedere la verità. Perché un occhio cieco? Appunto in quanto dominato dai condizionamenti che costituiscono l'individuo. L'apparire della verità non è la mia coscienza della verità. All'opposto: io sono uno dei contenuti che appaiono. […] Invece dobbiamo dire che l'individuo è il non illuminabile. Perché l'individuo è errore. Se ci si rende conto che l'individuo è errore, allora la verità non ha il compito di rendere verità l'errore. […] All'opposto, la verità include me, e te, e gli altri come conformazioni specifiche dell'errore. […] L'apparire della verità non è un atto individuale, ma è il mostrarsi di ciò che appare. E il mostrarsi non è il mio atto di coscienza, perché il 'mio' atto di coscienza è esso stesso una delle cose che si mostrano>> (La legna e la cenere, parentesi quadre mie: RF).

Ma se <<non è l'individuo che testimonia, cioè pensa esplicitamente la verità>> del destino, allora dobbiamo sempre CAPIRE CHE COSA SIGNIFICHI che

<<A volte accade che il linguaggio dei mortali, pur dicendo cose il cui senso è essenzialmente diverso da quello al quale si rivolge il linguaggio (esso stesso mortale) che testimonia il destino della verità, risuoni in modo che sia possibile sentire nelle sue parole qualcosa di radicalmente diverso _ addirittura il destino della verità. Da che cosa sia reso possibile rimane un problema>>. (Brano di Severino tratto da Oltrepassare, pag. 302 da Nicoletta Cusano nel suo libro: Emanuele Severino. Oltre il nichilismo. Morcelliana 2011).

Infatti _ ENNESIMA CONTRADDIZIONE _, dapprima viene negato che sia l’individuo ( = il mortale, l’io empirico) a testimoniare il destino;

poi, TUTTO AL CONTRARIO, si afferma esplicitamente che nel <<linguaggio (esso stesso mortale) che testimonia il destino della verità>> possa risuonare <<addirittura il destino della verità>>!

Come non accorgersi di questa PALESE CONTRADDIZIONE?

Prosegue Egon Key:

<<Quanto poi al tema del rapporto col linguaggio, quando dici: "[...] il destino può apparire NON-ALTERATO soltanto se vi è un dirlo che NON si costituisce come un’ulteriore sua ALTERAZIONE, altrimenti, come potremmo veridicamente dirlo (ritenerlo) NON-ALTERATO?", occorre tenere presente la distinzione tra il linguaggio nascosto e il linguaggio manifesto (e questa distinzione ha a che fare con l'apparire della terra nella contesa tra il destino e l'isolamento): il "linguaggio nascosto", cioè quello parlato dal destino (che non è il linguaggio testimoniante il destino avvolto nella parola e quindi esso stesso isolamento) è il linguaggio ancora indecifrabile per la stessa testimonianza del destino: esso è cioè la "traccia" che la contesa lascia nel linguaggio parlato dai "mortali"(e a questo punto occorrerebbe ricordare cosa Severino intende per "traccia"; per il resto, la verità è necessario che sia in qualche modo presente nella non verità: la condizione della possibilità della contraddizione è l'apparire della contraddizione come negata - è per questo che l'apparire dell'esistenza dell'errare appartiene alla struttura originaria del destino: la fede non può che apparire nella verità). Ma su questi temi, qui, non possiamo che essere brachilogici. (P.s. non sostengo che occorra essere per forza "severiniani", ma che tale discorso è dotato di una sua coerenza interna)>>.

Ottima esposizione.

Tuttavia, se EK intende IDENTIFICARE ciò che chiamavo il dire o il testimoniare il destino che NON si costituisca a sua volta come un’ulteriore sua (del destino) ALTERAZIONE (vedasi post n° 68) con <<il "linguaggio nascosto", cioè quello parlato dal destino (che non è il linguaggio testimoniante il destino avvolto nella parola e quindi esso stesso isolamento) è il linguaggio ancora indecifrabile per la stessa testimonianza del destino>>,

allora, proprio perché tale linguaggio è <<nascosto>> ed <<ancora indecifrabile>>, ciò lascia intatto il mio rilievo critico (nel post 68) in base al quale     

il destino può apparire NON-ALTERATO soltanto se vi è un dirlo che NON si costituisca come un’ulteriore sua ALTERAZIONE, altrimenti, come potremmo veridicamente dirlo (ritenerlo) NON-ALTERATO?”

Infine, scrive EK:

<<Per concludere: se l'apparire, come è stato detto, può apparire solo a sé medesimo (se sei in disaccordo, ti chiedo la dimostrazione di un apparire che debba giocoforza configurarsi come un "apparire a... qualcuno"), a SAPERE è solo l'lo del destino (giacché l'io empirico può solo "credere"), ossia l'io del destino SPERIMENTA il dolore (o il piacere). Ma "sperimentare" il dolore (o il piacere) è lo stesso APPARIRE del dolore (o del piacere) nel cerchio finito del destino, dove essi appaiono per lo più "[...] in quel luogo che è l'io dell'individuo e che unisce in sé, in modi via via diversamente concepiti, l''anima' e il 'corpo'. L'Io del destino sperimenta il dolore dell'io dell'individuo, ossia il dolore in cui questo io si sente radicalmente estraniato da sé. L'Io del destino vede la non verità di questo sentirsi estraniati, ma, appunto, ne è l'apparire, ossia sperimenta e, in questo senso, "prova" il dolore in cui quel sentire consiste" (La Gloria, p. 67)>>.

EK chiede:

<<se l'apparire può apparire solo a sé medesimo (se sei in disaccordo, ti chiedo la dimostrazione di un apparire che debba giocoforza configurarsi come un "apparire a... qualcuno")>>.

Che l’apparire appaia <<solo a sé medesimo>> non dice nulla, se non si precisa che quel: <<a sé medesimo>> sia il soggetto incluso nell’apparire o nella consapevolezza di sé.

Non conosco, infatti, alcun <<apparire>> DISINCARNATO da un qualche apparire <<a sé medesimo>>…

Se EK non è d’accordo e perciò conosce tale forma di apparire disincarnata, gli chiederei di dimostrarmela, precisando che quanto egli ha scritto all’inizio derl post ma che riporto qui sotto, NON costituisce una dimostrazione.

Ebbene, quel <<a sé medesimo>> sono io, qui ed ora, e ciò non va dimostrato, perché è un immediato esperirsi, cioè non necessita di mediazioni (ossia di dimostrazioni mediante ALTRO da esso).

Sono conscio ( = mi appare) del computer che in questo istante osservo.

Se non si desse <<alcun apparire che «appaia a qualcuno»>>, perdendo i sensi ( = svenendo), questo computer dovrebbe continuare ad apparire all’Io trascendentale, visto e considerato che è lui l’autentico nonché UNICO/SOLO protagonista dell’apparire a sé, ossia è un ‘occhio’ sempre aperto, che non si spegne mai.

A nulla serve far notare che per poter parlare di svenimento cioè della perdita dei sensi, esso (lo svenimento) deve esser comunque apparso, perché tale rilievo è effettuato unicamente a posteriori, NON durante la perdita dei sensi…

Se infatti tale computer non appare A ME io empirico nel nome della teoria secondo la quale <<Non si dà alcun apparire che «appaia»>> A ME io empirico-Roberto, sarà irrilevante che io gli stia dinanzi da sveglio o da svenuto/privo di sensi.

All’inizio del post, EK ha osservato _ sulla scia di Severino _ come

<<se si parla di un "soggetto empirico", cioè di un "qualcuno" a cui una certo qualcosa debba apparire – si parla unicamente di regressus (o di un progressus, se preferisci) in indefinitum circa il fondamento dell'apparire e il suo perpetuo differimento; infatti: se "l'apparire è sempre un apparire «a un io», o «a una coscienza», allora l'apparire «a me» è l'apparire all'apparire a me, (dove l'«a me» determina il progressus in indefinitum). L'apparire autentico (secondo la struttura autoriflessiva che caratterizza l'apparire in senso severiniano) è dunque ciò che include sé stesso nel proprio contenuto. Ne segue, allora, che non si dà alcun "soggetto empirico" a cui qualcosa appaia>>.

Bene, se l’<<apparire autentico (secondo la struttura autoriflessiva che caratterizza l'apparire in senso severiniano) è dunque ciò che include sé stesso nel proprio contenuto>>, cosa impedisce che tale << stesso>> sia proprio l’io empirico INCLUDENTE il proprio esperirsi (il proprio << stesso>>)?

Non accade mai che io, esperendo, non esperisca anche me stesso come colui che è INCLUSO nell’esperire ciò che via via vado esperendo...

 

Roberto Fiaschi

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