Così ha replicato Egon Key (EK) a quanto da me scritto nel post 72:
<<Eccoci. Dunque, dicevamo, che sia l'Io del destino
a sapere è, appunto, ciò che ho sempre sostenuto. Ma «sapere» qui significa,
innanzitutto, «apparire». Nel senso che l'apparire può apparire solo a sé medesimo.
Non si dà alcun apparire che «appaia a qualcuno». La tua posizione è, invece,
quella di un «apparire a...». Ma se si parla di un "soggetto
empirico", cioè di un "qualcuno" a cui una certo qualcosa debba
apparire – si parla unicamente di regressus (o di un progressus,
se preferisci) in indefinitum circa il fondamento dell'apparire e il suo
perpetuo differimento; infatti: se "l'apparire è sempre un apparire «a un
io», o «a una coscienza», allora l'apparire «a me» è l'apparire all'apparire a
me, (dove l'«a me» determina il progressus in indefinitum). L'apparire
autentico (secondo la struttura autoriflessiva che caratterizza l'apparire in
senso severiniano) è dunque ciò che include sé stesso nel proprio contenuto. Ne
segue, allora, che non si dà alcun "soggetto empirico" a cui qualcosa
appaia>>.
Proviamo a concedere, per un momento, che sia VERO quanto
appena scritto da EK.
Ossia, concediamo che quanto da lui scritto sia un tratto
della verità del destino severiniano (ne riparlerò alla fine del post).
Ebbene, io, che sto leggendo tutto ciò, così come EK, che ha
scritto quanto vado leggendo, siamo INNEGABILMENTE io empirici.
Quindi, siccome
<<Si deve pertanto concludere che
nel pensiero dell’isolamento un lampo di comprensione autentica [del
destino] è IMPOSSIBILE
(nello stesso senso e per lo stesso motivo per cui lo si deve escludere in
relazione all’io
dell’individuo): è
necessario che, all’interno del suo isolamento dalla verità del destino, il
pensiero mortale [dell’io individuale, dunque] FRAINTENDA, SEMPRE E INEVITABILMENTE, le tracce della Gioia.
Se dunque “anche nell’isolamento della terra il destino lascia la propria
traccia”, questa “non può non essere ambigua, sviante,
cioè NON PUÒ
CONDURRE GLI ABITATORI DELLA TERRA ISOLATA ALLA LUCE DEL DESTINO. ALTRIMENTI LA TERRA
NON SAREBBE ISOLATA”>>. – (Nicoletta Cusano: Emanuele
Severino. Oltre il nichilismo. Morcelliana 2011, pag. 447. Maiuscoli miei:
RF),
allora, si dovrà altrettanto concludere con
l’IMPOSSIBILITÀ
che EK (ma poi qualsiasi altro io empirico) SAPPIA ( = gli APPAIA) quel tratto del destino secondo
cui viene NEGATO che vi sia <<un "soggetto empirico", cioè di un
"qualcuno" a cui una certo qualcosa debba apparire>>.
Giacché egli, per poter scrivere ciò, come di fatto ha
scritto, DEVE ESSER CONSAPEVOLE ( = DEVE SAPERE; DEVE APPARIRGLI) che <<Non si dà alcun apparire
che «appaia a qualcuno»>>.
Ma ciò è precisamente quanto egli NON PUÒ SAPERE ( = NON PUÒ APPARIRGLI),
appunto perché, in quanto è ERRORE, è IMPOSSIBILE <<CONDURRE
GLI ABITATORI DELLA TERRA ISOLATA ALLA LUCE DEL DESTINO. ALTRIMENTI LA TERRA NON SAREBBE
ISOLATA”>>.
Invece, quanto da lui scritto PRESUPPONE GIÀ la
conoscenza ( = l’apparirgli) del destino, CONOSCENZA (nel senso più lato possibile) che
però egli NON
può avere, proprio in forza del suo essere errore, il quale <<è
necessario che, all’interno del suo isolamento dalla verità del destino, […] fraintenda, sempre e inevitabilmente, le tracce della Gioia>>.
Si osserverà, però, che la consapevolezza di
essere errore, presuppone l’apparire del destino in base al quale è possibile
l’esserci dell’errore.
Ma, nuovamente, la consapevolezza dell’apparire del destino,
unitamente alla consapevolezza di essere errore, consapevolezza che, secondo
Severino, l’errore NON POSSIEDE, è indice che l’errore sappia / sia
consapevole di ciò che, invece, non può sapere né esser consapevole.
Pertanto, stante questa consapevolezza, si deve allora
necessariamente concludere con la FALSITÀ della tesi severiniana, secondo la quale l’errore-io
empirico,
<<proprio perché è fede, è destinato a NON SENTIRE LA VERITÀ:
in quanto ascoltata da “me”, cioè dalla fede in cui “io” come individuo mortale
consisto, LA VERITÀ NON PUÒ
ESSERE VERITÀ, e io sono destinato ad essere soltanto il desiderio, in
indefinitum, della verità>>. - (La struttura originaria,
pag. 89. Maiuscoli mei: RF).
Peraltro, questo brano di Severino mostra come all’io empirico-fede
APPAIA qualcosa _ dice: <<in quanto ascoltata da “me”, cioè dalla fede in cui “io” come individuo mortale
consisto>> _; per la precisione gli APPARE la terra isolata o la fede
in tutto ciò in cui egli ha fede, SENZA SAPERE né che tale terra sia
isolata né che ciò che gli appare sia fede, perché se <<io [empirico:
Roberto, Gianni, Angelo…] sono destinato ad essere soltanto il desiderio, in
indefinitum, della verità>>, vuol dire che sono SOGGETTO A CUI
APPARE almeno il <<desiderio, in indefinitum, della verità>>,
pur SENZA MAI USCIRE DALL’ERRORE cui sono, appunto perché, ripeto con Nicoletta
Cusano:
<<Se dunque “anche nell’isolamento
della terra il destino lascia la propria traccia”, questa “non può non essere AMBIGUA, SVIANTE, CIOÈ NON PUÒ CONDURRE GLI
ABITATORI DELLA TERRA ISOLATA ALLA
LUCE DEL DESTINO. Altrimenti la terra non sarebbe
isolata”>>.
Proseguo perciò con la replica di EK:
<<Riallacciandoci poi al discorso dell'identità di
identità (quello dell'Io che è includente il dolore come lo stesso dolore che è
incluso nell'Io), senza però scordare quello dell'apparir-si dell'Io, va detto
che l'Io del destino non incorre in un suo, per cosi dire, duplicato, bensì
appare, nell'Io, l'essere-insieme-ad-altro da parte dell'Io, che è identico
all'Io, e che proprio perché è identico appare di necessità nell'Io! Qui
pertanto, non riduciamo a illusione l'io empirico, né diciamo che sia l'io empirico
a sapere qualcosa. Esso è esistente, in quanto essente, ma come contraddizione
che è però negata nella verità (ma per essere negata nella verità, tale
contraddizione deve prima apparire ma, dicevamo, non può «apparire a...»>>.
Molto bene, ma siamo sempre punto e a capo.
Perché?
Perché ANCHE quanto appena qui scritto da EK, è il punto di
vista dell’Io
del destino-verità, NON
dell’io empirico; punto di vista ( = apparire) che NON PUÒ ESSERE COMPRESO
DA ( = NON PUÒ APPARIRE A) l’io empirico-errore (ed è INNEGABILE che
qui ed ora, APPARE che sia l’io empirico-EK ad aver scritto, così come
APPARE esser l’io empirico-Fiaschi Roberto a leggere e a replicare…).
Inoltre, che l’io empirico sia <<esistente, in
quanto essente>>, siamo perfettamente d’accordo; che invece esso (o
egli) esista <<come contraddizione che è però negata nella verità (ma
per essere negata nella verità, tale contraddizione deve prima apparire ma,
dicevamo, non può «apparire a...»>>, è un qualcosa che l’io empirico
NON può sapere.
L’io empirico NON SA di essere errore, come già detto, NÉ SA, perciò, di
esser contraddizione <<negata nella verità>>.
Chi SA
tutto ciò è SOLTANTO l’Io del destino-verità, dal quale l’io empirico è
ISOLATO;
ma chi SCRIVE
tutto ciò (e quindi SA
tutto ciò) è SOLTANTO l’io empirico…
A questo punto è del tutto ovvio aspettarsi, da parte
severiniana, la NEGAZIONE che l’io empirico sia l’autore di quanto è
stato qui scritto, ché, se così non si negasse, si dovrebbe prendere atto che
l’io empirico sia UN SOGGETTO A CUI APPARE ‘QUALCOSA’.
Se, come precisa EK, <<per essere negata
nella verità, tale contraddizione deve prima apparire ma, dicevamo, non può
«apparire a...»>> l’io empirico, allora si dovrà concludere circa la COMPLETA INUTILITÀ della
posizione dell’io empirico, perché se è impossibile un <<"soggetto
empirico", cioè di un "qualcuno" a cui una certo qualcosa debba
apparire>>, allora NON si capisce affatto il senso dell’esistenza
dell’io empirico-errore, visto che costui NON ha parole da esprimere
(cioè non scrive, non legge, non replica, etc…) poiché ad esso NULLA APPARE
MAI…
Cosicché, perciò, secondo EK vi sia soltanto ed
esclusivamente il mono-protagonista cui è l’Io del destino-verità.
Il quale, tuttavia, si è sovente mostrato ERRANTE in alcuni snodi
teoretici; la qual cosa NON si addice a ciò che Severino ritiene essere l’<<Io [finito]
del destino – la struttura originaria del destino>> il quale, proprio
per questo, <<Non crede in nulla perché [l’Io finito del destino]
è l’apparire della verità>>.
(Severino: Intorno al senso del nulla, pag. 211).
Inoltre, se <<Non si dà alcun apparire che «appaia a qualcuno»>>,
se <<Non
si dà>> alcun <<"soggetto empirico", cioè di un
"qualcuno" a cui una certo qualcosa debba apparire>>,
allora NON SI CAPISCE da dove derivi il linguaggio che testimonia il destino
come <<linguaggio dell’errare>>.
Sì, perché se gli enti appaiono SOLTANTO all’Io del destino, NON SI CAPISCE perché
a testimoniare SÉ STESSO sia proprio il <<linguaggio dell’errare>>:
<<Nel
cerchio originario del destino _ quello cioè in cui appare la terra isolata che
include il “mio esser uomo”
_, il linguaggio che testimonia la terra isolata precede il sopraggiungere del
linguaggio che testimonia il destino […]. Il linguaggio che testimonia
la terra isolata è il linguaggio dell’errare. […] Per quanto compatto tale linguaggio si presenti
nel suo testimoniare il destino e per quanto addietro nel tempo sia
sopraggiunto il suo inizio, anche
questo linguaggio è stato un errare. L’esempio più recente riguarda _ come si è mostrato nella
prima parte di questo scritto [Intorno al senso del nulla] _ il
modo in cui nella Morte e la terra è stata considerata l’aporia
determinata dalla contraddizione del significato non è (la
contraddizione Un)>>. (Severino: Intorno al senso del nulla,
pag. 191 ss).
Leggiamo ancora EK:
<<Ogni essente è insieme alla totalità dell'altro,
ed è appunto identico a questo suo essere insieme alla totalità dell'altro. Se
non si desse questo «essere-insieme» non si darebbe «esser sé» da parte del
qualcosa. L'io empirico , in quanto contraddittorietà', è un niente, cioè
esiste soltanto come contenuto di una fede – come positività del contraddirsi
da parte di una fede>>.
Ma ripeto:
se <<L'io empirico , in quanto contraddittorietà', è
un niente, cioè esiste soltanto come contenuto di una fede – come positività
del contraddirsi da parte di una fede>>,
allora perché l’Io del destino ( = la struttura originaria) è
testimoniata dal (o mediante il) <<linguaggio dell’errare>>?
EK: <<Il problema (apparente) dell'aporeticità del
rapporto tra Io del destino e io empirico, sorge perché si identifica ciò che
la volontà interpretante nomina "individuo" con l'errore, e non come ciò che è l'apparire della
contesa tra verità e l'errore (errore per l'apparire finito dell'infinito): la verità
dell'essere è, infatti, lo sfondo di ogni apparire o dell'apparire in quanto
tale>>.
Ma non è un’<<apparente>> aporeticità.
In Severino è detto in lungo ed in largo che l’errore è proprio
l’<<"individuo">>
cioè l’io empirico, la volontà, la fede:
<<l'individuo è errore.
Se ci si rende conto che l'individuo è errore, allora la verità non ha il compito di rendere verità
l'errore>>. (Severino: La legna e la cenere).
Altrove, EK mi aveva scritto:
<<ma
tu identifichi tout court ciò che diciamo "individuo" con l'errore, e non come l'apparire
della contesa tra
verità ed errore>>.
Esatto, infatti l’errore NON è <<l'apparire della contesa tra verità e
l'errore (errore per l'apparire finito dell'infinito)>> perché, la
<<contesa
tra verità e l'errore>> comporta che quest’ultimo sia UNA parte in
causa nella contesa, e NON che la contesa stessa sia l’errore!
L’errore
è quella parte inclusa nell’Io finito del destino rispondente al nome di “io
empirico” o, appunto, errore.
Inoltre, tale contesa, perciò, è SAPUTA ( = APPARE) SOLTANTO da un unico protagonista,
cioè dalla verità, NON dall’errore.
Tuttavia, Severino, alla domanda:
<<Chi può dare testimonianza della verità?>>,
risponde:
<<Innanzitutto, non è l'individuo
che testimonia, cioè pensa esplicitamente la verità. Se fosse l'individuo a
testimoniare la verità, allora la testimonianza sarebbe per definizione
individuale, cioè ridotta allo spazio, al tempo e ai limiti dell'individuo.
Bisogna vedere l'errore del concetto che "Io vado verso la verità" e
che "se mi va bene, a un certo momento la vedrò". No! Perché se
"Io" è ad esempio il sottoscritto, con questa struttura fisica determinata,
allora sarebbe come dire che un occhio cieco può vedere la verità. Perché un occhio
cieco? Appunto in quanto dominato dai condizionamenti che costituiscono
l'individuo. L'apparire della verità non è la mia coscienza della verità.
All'opposto: io sono uno dei contenuti che appaiono. […] Invece dobbiamo
dire che l'individuo è il non illuminabile. Perché l'individuo è errore. Se ci
si rende conto che l'individuo è errore, allora la verità non ha il compito di
rendere verità l'errore. […] All'opposto, la verità include me, e te, e
gli altri come conformazioni specifiche dell'errore. […] L'apparire
della verità non è un atto individuale, ma è il mostrarsi di ciò che appare. E
il mostrarsi non è il mio atto di coscienza, perché il 'mio' atto di coscienza
è esso stesso una delle cose che si mostrano>> (La legna e la
cenere, parentesi quadre mie: RF).
Ma se <<non è l'individuo
che testimonia, cioè
pensa esplicitamente la verità>> del destino, allora dobbiamo sempre CAPIRE
CHE COSA SIGNIFICHI che
<<A volte accade che il linguaggio dei mortali, pur dicendo cose il cui senso è essenzialmente diverso da
quello al quale si rivolge il linguaggio (esso stesso mortale) che testimonia il destino della
verità, risuoni in modo che sia possibile sentire nelle sue parole
qualcosa di radicalmente diverso _ addirittura il destino della verità. Da che
cosa sia reso possibile rimane un problema>>. (Brano di Severino tratto
da Oltrepassare, pag. 302 da Nicoletta Cusano nel suo libro: Emanuele
Severino. Oltre il nichilismo. Morcelliana 2011).
Infatti _ ENNESIMA CONTRADDIZIONE _, dapprima viene negato
che sia l’individuo
( = il mortale, l’io empirico) a testimoniare il destino;
poi, TUTTO AL CONTRARIO, si afferma esplicitamente che nel <<linguaggio
(esso stesso mortale) che
testimonia il destino della verità>>
possa risuonare <<addirittura il destino della verità>>!
Come non accorgersi di questa PALESE CONTRADDIZIONE?
Prosegue
Egon Key:
<<Quanto poi al tema del rapporto col linguaggio,
quando dici: "[...] il destino può apparire NON-ALTERATO soltanto se vi
è un dirlo che NON si costituisce come un’ulteriore sua ALTERAZIONE,
altrimenti, come potremmo veridicamente dirlo (ritenerlo) NON-ALTERATO?",
occorre tenere presente la distinzione tra il linguaggio nascosto e il
linguaggio manifesto (e questa distinzione ha a che fare con l'apparire della
terra nella contesa tra il destino e l'isolamento): il "linguaggio
nascosto", cioè quello parlato dal destino (che non è il linguaggio
testimoniante il destino avvolto nella parola e quindi esso stesso isolamento)
è il linguaggio ancora indecifrabile
per la stessa testimonianza del destino: esso è cioè la "traccia" che
la contesa lascia nel linguaggio parlato dai "mortali"(e a questo
punto occorrerebbe ricordare cosa Severino intende per "traccia"; per
il resto, la verità è necessario che sia in qualche modo presente nella non
verità: la condizione della possibilità della contraddizione è l'apparire della
contraddizione come negata - è per questo che l'apparire dell'esistenza dell'errare
appartiene alla struttura originaria del destino: la fede non può che apparire
nella verità). Ma su questi temi, qui, non possiamo che essere brachilogici.
(P.s. non sostengo che occorra essere per forza "severiniani", ma che
tale discorso è dotato di una sua coerenza interna)>>.
Ottima esposizione.
Tuttavia, se EK intende IDENTIFICARE ciò che chiamavo il dire
o il testimoniare il destino che NON si costituisca a sua volta come
un’ulteriore sua (del destino) ALTERAZIONE (vedasi post n° 68) con <<il
"linguaggio nascosto", cioè quello parlato dal destino (che non è il
linguaggio testimoniante il destino avvolto nella parola e quindi esso stesso
isolamento) è il linguaggio ancora indecifrabile per la stessa testimonianza
del destino>>,
allora, proprio perché tale linguaggio è <<nascosto>> ed
<<ancora indecifrabile>>,
ciò lascia intatto il mio rilievo critico (nel post 68) in base al quale
“il destino può apparire NON-ALTERATO soltanto se vi è un
dirlo che NON si costituisca come un’ulteriore sua ALTERAZIONE, altrimenti,
come potremmo veridicamente dirlo (ritenerlo) NON-ALTERATO?”
Infine, scrive EK:
<<Per concludere: se l'apparire, come è stato detto,
può apparire solo a sé medesimo (se sei in disaccordo, ti chiedo la dimostrazione
di un apparire che debba giocoforza configurarsi come un "apparire a...
qualcuno"), a SAPERE è solo l'lo del destino (giacché l'io empirico può
solo "credere"), ossia l'io del destino SPERIMENTA il dolore (o il
piacere). Ma "sperimentare" il dolore (o il piacere) è lo stesso
APPARIRE del dolore (o del piacere) nel cerchio finito del destino, dove essi
appaiono per lo più "[...] in quel luogo che è l'io dell'individuo e che
unisce in sé, in modi via via diversamente concepiti, l''anima' e il 'corpo'.
L'Io del destino sperimenta il dolore dell'io dell'individuo, ossia il dolore
in cui questo io si sente radicalmente estraniato da sé. L'Io del destino vede la non verità di questo
sentirsi estraniati, ma, appunto, ne è l'apparire, ossia sperimenta e, in
questo senso, "prova" il dolore in cui quel sentire consiste" (La
Gloria, p. 67)>>.
EK chiede:
<<se l'apparire può apparire solo a sé medesimo (se
sei in disaccordo, ti chiedo la dimostrazione di un apparire che debba
giocoforza configurarsi come un "apparire a... qualcuno")>>.
Che l’apparire appaia <<solo a sé medesimo>>
non dice nulla, se non si precisa che quel: <<a sé medesimo>>
sia il soggetto incluso nell’apparire o nella consapevolezza di sé.
Non conosco, infatti, alcun <<apparire>> DISINCARNATO
da un qualche apparire <<a sé medesimo>>…
Se EK non è d’accordo e perciò conosce tale forma di apparire
disincarnata, gli chiederei di dimostrarmela, precisando che quanto egli ha
scritto all’inizio derl post ma che riporto qui sotto, NON costituisce una
dimostrazione.
Ebbene, quel <<a sé medesimo>> sono io, qui ed ora, e ciò
non va dimostrato, perché è un immediato esperirsi, cioè non necessita di
mediazioni (ossia di dimostrazioni mediante ALTRO da esso).
Sono conscio ( = mi appare) del computer che in questo
istante osservo.
Se non si desse <<alcun apparire che «appaia a
qualcuno»>>, perdendo i sensi ( = svenendo), questo computer dovrebbe
continuare ad apparire all’Io trascendentale, visto e considerato che è lui l’autentico
nonché UNICO/SOLO protagonista dell’apparire a sé, ossia è un ‘occhio’
sempre aperto, che non si spegne mai.
A nulla serve far notare che per poter parlare di svenimento
cioè della perdita dei sensi, esso (lo svenimento) deve esser comunque apparso,
perché tale rilievo è effettuato unicamente a posteriori, NON
durante la perdita dei sensi…
Se infatti tale computer non appare A ME io empirico nel nome della teoria
secondo la quale <<Non
si dà alcun apparire che «appaia»>> A ME io empirico-Roberto, sarà irrilevante che
io gli stia dinanzi da sveglio o da svenuto/privo di sensi.
All’inizio del post, EK ha osservato _ sulla scia di Severino
_ come
<<se si parla di un "soggetto empirico",
cioè di un "qualcuno" a cui una certo qualcosa debba apparire – si
parla unicamente di regressus (o di un progressus, se preferisci)
in indefinitum circa il fondamento dell'apparire e il suo perpetuo
differimento; infatti: se "l'apparire è sempre un apparire «a un io», o «a
una coscienza», allora l'apparire «a me» è l'apparire all'apparire a me, (dove
l'«a me» determina il progressus in indefinitum). L'apparire autentico
(secondo la struttura autoriflessiva che caratterizza l'apparire in senso
severiniano) è dunque ciò che include sé stesso nel proprio contenuto. Ne
segue, allora, che non si dà alcun "soggetto empirico" a cui qualcosa
appaia>>.
Bene, se l’<<apparire autentico (secondo la
struttura autoriflessiva che caratterizza l'apparire in senso severiniano) è
dunque ciò che include sé stesso nel proprio contenuto>>, cosa
impedisce che tale <<sé stesso>>
sia proprio l’io empirico INCLUDENTE il proprio esperirsi (il proprio <<sé stesso>>)?
Non accade mai che io, esperendo, non esperisca anche me
stesso come colui che è INCLUSO nell’esperire ciò che via via vado esperendo...
Roberto Fiaschi
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