mercoledì 30 ottobre 2024

126)- CONTRADDITTORIETÀ DELL’ENTE: È SÉ-E-NON-È-SÉ


Ha scritto il filosofo Emanuele Severino:

<<Il nichilismo è il pensiero che, sin dall'inizio della storia dell'Occidente, isola le cose - le molteplici determinazioni del mondo - le une dalle altre, e cosi le isola perché le isola dal loro essere: isola, in 'ciò che è', nell'essente, il 'ciò che' dal suo 'è'. L'isolamento delle cose dal loro essere incomincia con Parmenide (col Parmenide quale è interpretato nella tradizione platonico-aristotelico-hegeliana): appunto sul fondamento di tale isolamento egli perviene all'affermazione della nullità del molteplice. Il mondo intero e l'intera storia dell'uomo sono cioè, per lui, soltanto 'dóxa', opinione, illusione, «nomi», cioè sono, in quanto tali, non-essere, 'nulla'>>. (Severino: "Intorno al senso del nulla", Adelphi, pp. 108).

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Ma sarà davvero necessario SEPARARE-ISOLARE _ come ritiene Severino _ <<in ‘ciò che è’, nell'essente, il ‘ciò che’ dal suo ‘è>>, per giungere alla contraddittorietà (la nullità) della determinazione ossia del <<ciò che>>?

E se invece bastasse la sola DISTINZIONE tra <<il ‘ciò che’ dal suo ‘è>>, per sancire l’intrinseca contraddittorietà non solo dell’essente tra sé, in quanto ciò che, e sé in quanto è, ma anche dell’essere ( = l’ è)?

Secondo Severino, OGNI essente ( = l’essente in quanto tale) è INTERAMENTE essere, è ovvio, altrimenti, qualora una parte di esso non fosse essere, sarebbe inevitabilmente NON-essere il quale è L’UNICO differente dall’essere, evenienza recisamente esclusa dal filosofo bresciano.

Quindi, OGNI essente è una sintesi (eterna, secondo Severino) tra due DISTINTI, che sono appunto la determinazione ( = ilciò cheo anche quiddità) ed il suoè( = l’essere che tutto informa di sé).

Ora, pur tenendo ferma tale sintesi, ciò NON TOGLIE la suddetta DISTINZIONE tra ilciò che ed il suoè, come anche lo stesso Severino mostra di tenere ben ferma ai fini della diagnosi del nichilismo.

È allora del tutto evidente che il ciò che, significando qualcosa di DISTINTO dal suo è, NON COINCIDE totalmente con quest’ultimo, altrimenti in tale coincidenza verrebbe meno la distinzione poiché, tra perfettamente identici, non sarebbe dato scorgere alcuna differenza: essa non apparirebbe tout court.

Tale DISTINZIONE comporta che l’ è sia l’ èdi ciò che NON significa l’ è, ossia del ciò che, della determinazione, e quindi tale DISTINZIONE comporta il DISTINGUERSI in seno allo stesso è, cioè tra sé in quanto èed in quanto DISTINTO da sé come ciò che.

Severino ammette che <<L'identità è dunque certamente identità di una differenza>> (“La struttura originaria”, Adelphi, pag. 189).

(1)- Se così, allora l’ente è UNO ( = identità), poiché è interamente essere, ed al contempo e sotto il medesimo punto di vista è DUE ( = differenza), poiché è DISTINTO in sé tra l’ è ed il suo ciò che.

In nome del principio di non-contraddizione, l’UNO ESCLUDE di essere DUE, e viceversa.

(2)- Per cui, stante la suddetta differenza, ogni ente è UNO, ed al contempo è NON-UNO;

(3)- ogni ente è identico a sé ( = è UNO) ed al contempo NON è identico a sé ( = è NON-UNO, cioè differente da sé);

(4)- ogni ente, in quanto è NON-UNO ( = poiché è sintesi distinguentesi tra ciò cheed il suoè), ESCLUDE di esser UNO, cioè è sé ESCLUDENDO di esser sé.

Tuttavia, Severino precisa che <<affermare che l'essere è essere significa appunto TOGLIERE OGNI DISTINZIONE o DIFFERENZA tra l'essere e sé medesimo>> (ibidem, maiuscoli miei: RF).

Ciò vuol dire TOGLIERE OGNI DISTINZIONE (nell’ente) tra il ciò cheed il suoè.

(5)- Se così, allora ogni ente, in quanto è UNO ( = poiché è interamente è), ESCLUDE di essere NON-UNO ( = esclude di essere distinguentesi in ciò cheed il suoè), cioè è sé ESCLUDENDO di esser sé in quanto distinguentesi;

(6)- ogni ente, in quanto è UNO e perciò ESCLUDENTE di esser sintesi distinguentesi tra ciò cheed il suoè, non si distingue dal proprio altro, appunto perché in esso è TOLTA <<OGNI DISTINZIONE o DIFFERENZA tra l'essere e sé medesimo>>, cioè tra il ciò cheed il suoè.

 

Roberto Fiaschi

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mercoledì 23 ottobre 2024

125)- NĀGĀRJUNA, CARLO ROVELLI: «UNA METAFISICA FALLACE»


Riporto un lungo nonché interessante post scritto da Andrea Cecchetto ( = AC) e tratto dalla pagina Facebook: Le Corrispondenze universali.

Esso ha per titolo:   

<<CONSIDERAZIONI SUL LIBRO "HELGOLAND" DI CARLO ROVELLI>>.

Scrive AC:

<<Nel passo che segue, Rovelli loda la filosofia di Nāgārjuna (che in qualche modo ha anticipato l’aspetto relazionale del reale descritto della moderna fisica quantistica), opponendola alla cosiddetta metafisica occidentale, che invece svaluta in quanto vana ricerca di sostanzialità e di una causa prima. “Nessuna metafisica sopravvive” - scrive infatti - al confronto con il pensiero del filosofo indiano. Leggere Rovelli è una grande esperienza intellettuale, e lo consiglio a tutti. Però… ecco… su alcune cose - nel mio piccolo - non sono d’accordo, mentre altre le avrei dette in modo un po’ diverso. Intanto riporto il passo, seguito poi dalle mie considerazioni:

  • Se nulla ha esistenza in sé, tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro. Il termine tecnico usato da Nāgārjuna per descrivere la mancanza di esistenza indipendente è «vacuità» (śūnyatā): le cose sono «vuote» nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcosa d’altro […]. Non c’è nessuna essenza ultima o misteriosa da comprendere, che sia l’essenza vera del nostro essere. «Io» non è altro che l’insieme vasto e interconnesso dei fenomeni che lo costituiscono, ciascuno dipendente da qualcosa d’altro. Secoli di speculazione occidentale sul soggetto e sulla coscienza svaniscono come brina nell’aria del mattino. Nāgārjuna distingue due livelli, come fa tanta filosofia e tanta scienza: la realtà convenzionale, apparente, con i suoi aspetti illusori o prospettici, e la realtà ultima. Ma porta questa distinzione in una direzione inaspettata: la realtà ultima, l’essenza, è assenza, vacuità. Non c’è. Se ogni metafisica cerca una sostanza prima, un’essenza da cui tutto dipenda, il punto di partenza da cui poi derivare il resto, Nāgārjuna suggerisce che la sostanza ultima, il punto di partenza… non c’è. Ci sono timide intuizioni in direzioni simili nella filosofia occidentale. Ma la prospettiva di Nāgārjuna è radicale. L’esistenza convenzionale quotidiana non è negata; al contrario, è affermata in tutta la sua complessità, con i suoi livelli e sfaccettature. Può essere studiata, esplorata, analizzata, ridotta a termini più elementari. Ma non ha senso, suggerisce Nāgārjuna, cercarne il sostrato ultimo […]. Allora l’unica realtà è la vacuità? È questa la realtà ultima? No, scrive Nāgārjuna nel capitolo più vertiginoso del libro, ogni prospettiva esiste solo in dipendenza da altro, non è mai realtà ultima, e questo vale anche per la prospettiva di Nāgārjuna: anche la vacuità è vuota di essenza, è convenzionale. Nessuna metafisica sopravvive. La vacuità è vuota […]. Questo non chiude la possibilità di indagare. Al contrario, la libera. Nāgārjuna non è un nichilista che nega la realtà del mondo, e neppure uno scettico che dice che della realtà non possiamo sapere nulla. Il mondo dei fenomeni è un mondo che possiamo indagare e comprendere sempre meglio. Trovarne caratteristiche generali. Ma è un mondo di interdipendenze e di contingenze, non un mondo che valga la pena cercare di derivare da un Assoluto. (Carlo Rovelli; Helgoland, pp. 151-154).

Provo ad analizzare il problema. Vero è che le singole cose, considerate in se stesse (separatamente dalle altre), non esistono, e che si manifestano solo ed esclusivamente nelle reciproche relazioni. L’esistenza è relazione. Nāgārjuna sostiene che esse sono “vuote”, prive di sostanzialità e quindi in un certo senso illusorie (vacuità, mâyâ) qualora considerate indipendentemente dalle loro relazioni, le quali, sole, le fanno esistere. E fino a qui siamo perfettamente d’accordo [con Nāgārjuna e Rovelli; nota mia: RF]. Ma questa rete di relazioni - considerata integralmente, nella sua totalità ed interezza - è comunque reale. Nemmeno Nāgārjuna nega la realtà del mondo. Dunque, se da un lato le cose non esistono separatamente ma solo nella relazione, dall’altro la rete delle loro interazioni è reale. Ecco, io direi che è la mente umana che, separando e distinguendo la realtà in molteplici cose (laddove essa è invece indivisa) non può che spiegare il divenire dei fenomeni in quanto relazioni fra le cose stesse. Ma si tratta già di una interpretazione: la realtà non è separata in molteplici cose: siamo noi che non possiamo che considerarla tale per convenienza. Lo scrive lo stesso Rovelli:

  • Non c’è nulla di misterioso in questo: il mondo non è diviso in entità a sé stanti. Siamo noi che lo separiamo in oggetti per nostra convenienza (Carlo Rovelli; Helgoland, p. 147).

Questa rete di relazioni, intesa nella sua totalità ed indivisione, non si relaziona con nulla, essendo la realtà totale: essa coincide quindi con l’Assoluto irrelato, o meglio, con l’unico modo che abbiamo per concettualizzare ciò che non è in sé concettualizzabile. Introduciamo una pluralità di possibilità in relazione laddove vi è solo pura indivisione. E questo Assoluto non è ciò da cui derivano le cose; questa è una metafisica fallace. Abbiamo detto che la realtà è indivisa: non c’è una causa e un causato; non c’è un creatore e una creatura; non c’è una sostanza prima da cui derivano le cose come se fossero altro. Ogni dualità e ogni alterità vanno respinte. L’Infinito non ha parti. L’Assoluto è tutto intero in ogni cosa, in ogni relazione, la quale è solo un aspetto, un punto di vista attraverso il quale l’Assoluto conosce se stesso. Assoluto, da ab-sulutum, significa “sciolto da tutto”, totalmente libero, ossia irrelato, non relativo, non dipendente da qualcos’altro. Noi, questo inconcepibile Assoluto, dobbiamo per forza immaginarcelo come relativo e molteplice, e quindi lo consideriamo come un insieme di cose; ma non è così.

È questa la metafisica che raggiunge il vertice del pensiero. E non ci è arrivato solo l’Oriente, ma anche l’Occidente platonico. Lo stesso Buddha (di cui Nāgārjuna è un seguace) dice questo:

  • Vi è, monaci, il non-nato, il non-divenuto, il non-fatto, il non-composto. Monaci, se questo non-nato, non-divenuto, non-composto non fossero, non si conoscerebbe modo di sfuggire a questo nato, divenuto, fatto, composto (Udāna, VIII, 3).

È questa l’essenza della mistica, e la metafisica (quella sana, intendo), lungi dall’essere distrutta dal pensiero di Nāgārjuna, è un tentativo di avvicinarsi per quanto possibile con il linguaggio discorsivo e con quello simbolico a questo Assoluto che - i metafisici ne sono consapevoli - è inconcepibile. Ma che senso ha parlare di una cosa di cui… non si può parlare?

  • Ma perché allora parliamo di Lui? Veramente, noi diciamo solo qualche cosa di Lui, ma non affermiamo nulla di Lui e non abbiamo di Lui né conoscenza né pensiero. E come dunque possiamo parlare di Lui se non lo possediamo? È vero, non lo possediamo con la conoscenza, né lo possediamo pienamente: lo possediamo però in tal modo da poter parlare di Lui senza però dirlo veramente. Noi diciamo infatti quello che Egli non è, ma non diciamo quello che è (Plotino; Enneadi, V, 3, 14)>>.

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Comincerei coi seguenti rilievi critici.

Scrive AC:

l’<<Assoluto non è ciò da cui derivano le cose; questa è una metafisica fallace>> giacché <<la realtà è indivisa: non c’è una causa e un causato; non c’è un creatore e una creatura; non c’è una sostanza prima da cui derivano le cose come se fossero altro>>.

Per Nāgārjuna e Rovelli <<nulla ha esistenza in sé>> in quanto <<tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro>>, quindi, chiosa AC, <<Questa rete di relazioni, intesa nella sua totalità ed indivisione, non si relaziona con nulla, essendo la realtà totale: essa coincide quindi con l’Assoluto irrelato>>.

No, la <<rete di relazioni, intesa nella sua totalità ed indivisione>>, NON può costituire <<l’Assoluto irrelato>>.

Perché?

Consideriamo più da vicino.

AC sostiene che <<la realtà non è separata in molteplici cose>>.

Ma ecco che, affermando ciò, le <<molteplici cose>> _ e quindi la DISTINZIONE _ sono GIÀ PRESUPPOSTE, ossia APPAIONO come cose differenziantisi. Ciò è innegabile, altrimenti nessuno potrebbe rilevare/attestare la presenza di esse.

Tant’è vero che egli afferma altresì: <<questa rete di relazioni - considerata integralmente, nella sua totalità ed interezza - è comunque reale. Nemmeno Nāgārjuna nega la realtà del mondo>>.

Dopodiché, per rendere ragione del molteplice, AC osserva:

<<io direi che è la mente umana che, separando e distinguendo la realtà in molteplici cose (laddove essa è invece indivisa) non può che spiegare il divenire dei fenomeni in quanto relazioni fra le cose stesse>>.

Ora, com’è evidente, questo espediente non fa altro che ri-confermare l’innegabilità dell’apparir delle <<molteplici cose>> DISTINTE l’una dall’altra.

Infatti, se la scaturigine di ogni DISTINZIONE è <<la mente umana>>, allora, ALMENO ESSA, è DISTINTA da tutto il resto, altrimenti, in assenza di qualsivoglia distinzione, non potremmo neppure parlare di mente umana, giacché il parlarne implica che essa sia appunto quel ‘qualcosa’ che, a differenza di molti altri ‘qualcosa’, abbia la capacità di DISTINGUERE <<la realtà in molteplici cose>>, e ciò comporta che essa sia a sua volta DISTINTA da tutto il resto, cioè da tutto ciò che non sia siffatta mente umana.

Perché continuo a porre l’accento sulla DISTINZIONE fra le cose?

Perché _ contrariamente a quanto espresso da AC _ la <<rete di relazioni, intesa nella sua totalità ed indivisione>> NON può costituire <<l’Assoluto irrelato, e ciò discende dalla natura stessa dell’Assoluto, il quale, come afferma lo stesso <<Buddha (di cui Nāgārjuna è un seguace)>>, è <<il non-composto>> DI CONTRO a questo nostro mondo che è, invece, <<composto>> ( = molteplice, differenziato).

È chiaro: AC intende sbarazzarsi del <<creatore>> e della <<causa>>, assolutizzando il mondo che, invece, NON PUÒ essere assolutizzato, giacché, ripeto, esso è <<composto>>, cioè <<è un mondo di interdipendenze e di contingenze>>.

D’altronde, è lo stesso AC a riconoscere che l’<<Infinito non ha parti>> cioè _ come dice Buddha _ non è <<composto>>, salvo poi, però, SMENTIRE questa sua stessa tesi affermando che <<Questa rete di relazioni [ = il composto, le PARTI DISTINTE], intesa nella sua totalità ed indivisione, non si relaziona con nulla, essendo la realtà totale: essa coincide quindi con l’Assoluto [ = il non-composto] irrelato>> (parentesi quadre mie: RF).

Il composto, infatti, NON può coincidere con il non-composto ( = l’autentico Assoluto).

Lo stesso dicasi riguardo alla citazione di Plotino riportata da AC, ove il filosofo di Licopoli CONTRADDICE NETTAMENTE la convinzione che <<Questa rete di relazioni [ = il composto, le PARTI DISTINTE], intesa nella sua totalità ed indivisione>> sia <<la realtà totale>> che <<coincide quindi con l’Assoluto [ = il non-composto] irrelato>>.

Infatti:

<<L'Uno è la prima, totalmente trascendente ipostasi, cioè la prima realtà sussistente. Esso non può contenere alcuna divisione, molteplicità o distinzione; per questo è al di sopra persino di qualsiasi categoria di essere. Il concetto di "essere" deriva infatti dagli oggetti dell'esperienza umana, ed è un attributo di questi, ma l'infinito trascendente Uno è al di là di tali oggetti [ = la <<rete di relazioni>>; RF], quindi al di là dei concetti che ne deriviamo>> (https://it.wikipedia.org/wiki/Plotino#L'Uno).

Per cui <<Questa rete di relazioni>> NON è <<la realtà totale>> <<coincide quindi con l’Assoluto irrelato>>, bensì è realtà DERIVATA da esso.

Perché è realtà DERIVATA?

Vediamo.

Poiché _ secondo Rovelli e AC _ <<nulla ha esistenza in sé>> in quanto <<tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro>>, allora ANCHE la totalità delle relazioni tra cose _ la quale, come abbiamo appena visto, NON è l’Assoluto trascendente e non-composto _ rimanderà necessariamente <<a qualcosa d’altro>> come alla propria CAUSA, <<qualcosa d’altro>> che non sia, però, analogo al precedente <<qualcosa d’altro>> tutto INTERNO alla serie di cose costituenti il mondo, altrimenti NULLA di tutto ciò esisterebbe <<in dipendenza da qualcosa d’altro>>, perché nell’infinità di un dipendente-da un altro dipendente-da, niente verrebbe mai a configurarsi (ad apparire) in atto, nel o come presente, bensì resterebbe un infinito procrastinare il REALIZZARSI come <<mondo di interdipendenze e di contingenze>> il quale, perciò, NON apparirebbe MAI.  

Senza l’Altro cioè l’Assoluto ( = Dio) non rinviante ad alcunché, 

non solo

sarebbe FALSO affermare che <<tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro>>, perché, in questo caso, NON TUTTO esisterebbe in tale dipendenza, appunto perché almeno la totalità delle relazioni tra cose NON potrebbe mai essere <<in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro>>,

ma altresì

sarebbe FALSO sostener _ come sostiene Rovelli _ che questo mondo sia <<un mondo […] di contingenze>>, perché la totalità (o la somma) di tutte le contingenze (che egli vorrebbe Assoluta) NON realizza affatto l’Assoluto, bensì sempre e soltanto un (altro) mondo di contingenze!

Ed un tale mondo di contingenze, per ottemperare davvero al proprio statuto ontologico secondo cui ciò che lo costituisce <<esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro>>, dovrà ANCH’ESSO, ripeto, esistere <<solo in dipendenza da altro>>, poiché il mondo di contingenze <<non è mai realtà ultima>>.

Proprio perché, ripeterei, la somma di tutte le cose contingenti non costituisce l’Assoluto, essa necessita del vero Assoluto.

È perciò impossibile che ciò che rimanda sempre ad altro non rimandi ad un Altro il quale, perciò, non dovrà assolutamente rimandare ad (un) altro!

Pertanto, la totalità dei dipendenti <<da qualcosa d’altro>> ( = il nostro mondo) deve dipendere da ciò _ da un Altro assoluto _ che non dipenda da alcunché ma che sia, appunto absolutus: sciolto-da (ogni dipendenza).

Sì che la frase di Rovelli secondo cui il nostro <<è un mondo di interdipendenze e di contingenze, non un mondo che valga la pena cercare di derivare da un Assoluto>>,

vada rovesciata in quest’altra:

proprio perché il nostro <<è un mondo di interdipendenze e di contingenze>>, esso DEVE <<derivare da un Assoluto>>!

Spero di aver evidenziato quale sia davvero la <<metafisica fallace>> e quale la <<metafisica sana>>…

 

Roberto Fiaschi

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lunedì 21 ottobre 2024

124)- RELIGIONE E (È) VIOLENZA

 

Spero che il seguente articolo di Raymond Ibrahim possa contribuire a mettere in chiaro le DIFFERENZE vigenti tra «religione e violenza» e tra «religione è violenza».


Roberto Fiaschi
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Original Article: Are Judaism and Christianity as Violent as Islam? By: Raymond Ibrahim

https://www.meforum.org/middle-east-quarterly/ebraismo-cristianesimo-violenti-come-islam

Translated by: Paolo Mantellini

“C’è molta più violenza nella Bibbia che nel Corano; l’idea che l’islàm si sia imposto con la spada è una fantasia Occidentale, inventata al tempo delle Crociate, quando, in realtà, furono i Cristiani dell’Occidente a scatenare una brutale “guerra santa” contro l’islàm”.

Così dichiara la ex suora che si definisce “monoteista indipendente”, Karen Armstrong.

Questa citazione riassume il principale e più autorevole argomento usato per rintuzzare le accuse che l’islàm sia intrinsecamente violento e intollerante. Tutte le religioni monoteiste, e non solamente l’islàm – sostengono i propugnatori di questa tesi – hanno la loro quota di scritture violente e intolleranti, e condividono storie cruente. Così, ogni qual volta le sacre scritture dell’islàm – in primo luogo il Corano, seguito dai racconti delle parole e delle azioni di Maometto (gli ahadith) – vengono utilizzate come dimostrazione della innata aggressività di questa religione, scatta l’immediata risposta che anche altre sacre scritture, specialmente quelle Giudeo-Cristiane, sono infarcite di episodi violenti.

Purtroppo, troppo spesso questa affermazione interrompe ogni ulteriore discussione sul problema se violenza e intolleranza siano connaturate all’islàm. E quindi, la risposta normale diventa che non è l’islàm ad essere violento per sé, ma sono piuttosto le rimostranze e la frustrazione dei musulmani – sempre aggravate da fattori economici, politici e sociali – a scatenare la violenza. La perfetta aderenza di questa opinione con la gnoseologia laica e “materialista” dell’Occidente, la rende immune da ogni critica.

Pertanto, prima di condannare il Corano e le parole e le azione storiche del profeta dell’islàm, Maometto, come istigatori di violenza e intolleranza, si dovrebbe consigliare agli Ebrei di considerare le atrocità storiche commesse dai loro antenati Israeliti, così come sono state registrate dalle loro stesse scritture; bisognerebbe poi raccomandare ai Cristiani di considerare i cicli di brutali violenze compiute dai loro antenati nel nome della loro fede sia contro non Cristiani che contro Cristiani. In altre parole bisogna ricordare ad Ebrei e Cristiani che chi abita case di vetro deve evitare di scagliare pietre.

Ma questa è proprio la verità? L’analogia con le altre scritture è proprio legittima? E’ possibile confrontare la violenza degli Ebrei dell’antichità e la violenza dei Cristiani nel Medio Evo con la persistenza della violenza musulmana nell’era moderna?

La violenza nella storia di Ebrei e Cristiani

In accordo con la Armstrong, un gran numero di eminenti scrittori, storici e teologi hanno sostenuto questa tesi “relativista”. Per esempio, John Esposito, direttore del Centro del Principe Alwaleed bin Talal per la Comprensione Cristiano-islamica, all’Università di Georgetown, si domanda:

“Ma come mai continuiamo a porci la stessa domanda [a proposito della violenza nell’islàm] e invece non ce la facciamo a proposito di Ebraismo e Cristianesimo? Sia Ebrei che Cristiani hanno compiuto atti di violenza. Tutti noi possediamo un lato trascendente, ma anche un lato oscuro … Pure noi abbiamo la nostra teologia dell’odio. Sia nel Cristianesimo che nell’Ebraismo tradizionale, tendiamo ad essere intolleranti; aderiamo ad una teologia esclusiva: noi contro loro”.

Il Professore di scienze umane dell’Università Statale della Pennsylvania, Philip Jenkins, in un articolo, “Dark Passages (Brani oscuri)”, spiega più a fondo questa tesi. E tenta di dimostrare che la Bibbia è più violenta del Corano:

“In tema di istigazione alla violenza e ai massacri, ogni semplicistica pretesa di superiorità della Bibbia nei confronti del Corano sarebbe totalmente sbagliata. Infatti, la Bibbia trabocca di “testi di terrore” per usare la frase coniata dalla teologa Americana Phyllis Trible. La Bibbia contiene molti più versetti che apprezzano o spingono al massacro di quanti non ne contenga il Corano, e la violenza biblica è spesso molto più estrema e caratterizzata da una ferocia molto più indiscriminata … Se i testi fondamentali caratterizzano tutta la religione, allora Ebraismo e Cristianesimo meritano la condanna massima come religioni di efferatezza”.

Molti episodi della Bibbia, come pure della storia Giudeo-Cristiana illustrano la tesi di Jenkins, ma due in particolare – uno probabilmente rappresentativo dell’Ebraismo, l’altro del Cristianesimo – sono quasi sempre ricordati e quindi meritano un esame più attento.

La conquista militare della terra di Canaan da parte degli Ebrei, circa nell’anno 1200 AC è spesso definita come “genocidio” ed è diventata emblematica della violenza e della intolleranza della Bibbia. Dio disse a Mosè:

“Ma delle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri; ma li voterai allo sterminio: cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei, come il Signore tuo Dio ti ha comandato di fare, perché essi non v’insegnino a commettere tutti gli abomini che fanno per i loro dèi e voi non pecchiate contro il Signore vostro Dio. Così Giosuè [il successore di Mosè] conquistò tutto il paese: le montagne, il Negheb, il bassopiano, le pendici e tutti i loro re. Non lasciò alcun superstite e votò allo sterminio ogni essere che respira, come aveva comandato il Signore, Dio di Israele”.

Per quanto riguarda il Cristianesimo, poiché è impossibile trovare nel Nuovo Testamento versetti che incitano alla violenza, quelli che sostengono la tesi che il Cristianesimo è violento come l’islàm devono ricorrere ad eventi storici come le Crociate scatenate dai Cristiani Europei tra l’undicesimo e il tredicesimo secolo. In effetti le Crociate furono violente e provocarono in nome della croce e della Cristianità delle atrocità, secondo il moderno metro di valutazione. Dopo aver sfondato le mura di Gerusalemme, nel 1099, per esempio, si racconta che i Crociati massacrarono quasi tutti gli abitanti della Città Santa. Secondo la cronaca medioevale, Gesta Danorum, “il massacro fu così grande che i nostri uomini camminavano nel sangue fino alle caviglie”.

Alla luce di quanto sopra, come Armstrong, Esposito, Jenkins e altri sostengono, perché Ebrei e Cristiani indicano il Corano come prova della violenza dell’islàm mentre ignorano le loro stesse scritture e la loro stessa storia?

Bibbia contro Corano

La risposta si trova nel fatto che queste osservazioni confondono storia e teologia mescolando le azioni temporali degli uomini con ciò che si ritengono essere le parole immutabili di Dio. L’errore fondamentale è che la storia Giudeo-Cristiana – che è violenta – è stata confusa con la teologia islamica – che ordina la violenza. Ovviamente, tutte le tre grandi religioni monoteiste hanno avuto la loro parte di violenza e intolleranza verso “l’altro”. Ma la questione fondamentale è se questa violenza fu imposta da Dio o se uomini bellicosi vollero che fosse così.

La violenza del Vecchio Testamento è un caso veramente interessante. Dio ordinò in modo chiarissimo agli Ebrei di sterminare i Canaanei e i popoli vicini. Questa violenza pertanto, volenti o nolenti, fu espressione della volontà di Dio. Comunque, tutta la violenza storica commessa dagli Ebrei e registrata nell’Antico Testamento è soltanto questo – storia.

È successo; Dio lo ordinò. Ma riguardò tempi e luoghi specifici e fu diretta contro popoli ben precisi. Mai questo tipo di violenza fu regolamentata o codificata all’interno della legge giudaica. In breve, i racconti biblici di episodi violenti sono descrittivi, non prescrittivi.

Questo è l’aspetto in cui la violenza islamica è unica. Benché simile alla violenza dell’Antico Testamento – ordinata da Dio e manifestatasi nella storia – alcuni aspetti della violenza e della intolleranza islamiche sono stati regolamentati nella legge islamica e si applicano in ogni tempo. Pertanto, mentre la violenza incontrata nel Corano ha un contesto storico, il suo significato ultimo è teologico. Consideriamo i seguenti versetti Coranici, noti come i “versetti della spada":

“Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi associatori ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono, eseguono l’orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro strada”.

“Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano umiliati”.

Come nell’Antico Testamento i versetti in cui Dio ordina agli Ebrei di attaccare e trucidare i loro nemici, anche i versetti della spada hanno un contesto storico. All’inizio Dio emanò questi comandamenti dopo che i musulmani sotto la guida di Maometto erano diventati abbastanza forti da invadere i loro vicini Cristiani o pagani.

Ma, a differenza dei versetti bellicosi e degli episodi di guerra dell’Antico Testamento, i versetti della spada divennero il fondamento delle successive relazioni sia con “la gente del Libro” (cioè Ebrei e Cristiani) sia con gli “idolatri” (cioè Indù, Buddisti, animisti eccetera) e, in effetti, innescarono le conquiste islamiche che cambiarono per sempre l’aspetto del mondo. Per esempio, in base a Corano 9:5, la legge islamica impone che gli idolatri e i politeisti debbano convertirsi all’islàm o essere uccisi e allo stesso modo, Corano 9:29 è la sorgente primaria delle ben note pratiche di discriminazione contro i Cristiani e gli Ebrei sconfitti che vivevano sotto la dominazione islamica.

In effetti, in base ai versetti della spada e a ad innumerevoli altri versetti coranici e tradizioni orali attribuite a Maometto, i più istruiti funzionari dell’islàm, sceicchi, mufti e imam, lungo tutta la sua storia, raggiunsero il “consenso” – obbligatorio per tutta la comunità musulmana – che l’islàm deve essere in guerra perpetua con il mondo dei non-musulmani fino a quando questi ultimi non si sottomettano all’islàm. Infatti, è comunemente sostenuto dai sapienti musulmani che, poiché i versetti della spada sono tra gli ultimi ad essere stati rivelati sull’argomento dei rapporti tra musulmani e non-musulmani, essi, da soli, abbiano “abrogato” circa 200 altri versetti coranici precedenti e più tolleranti, tipo “non c’è costrizione nella religione”. il famoso saggio musulmano, Ibn Khaldun (1332-1406) ammirato in Occidente per le sue opinioni, rifiuta l’idea che la jihad sia una guerra difensiva.

Nella comunità musulmana, la guerra santa [jihad] è un obbligo religioso, a causa della universalità della missione musulmana e l’obbligo di convertire tutti all’islàm sia mediante la convinzione che con la forza … Gli altri gruppi religiosi non avevano una missione universale, quindi per loro la “guerra santa” non era un dovere religioso, tranne che a scopo difensivo … A loro si richiede solamente di istituire la loro religione in seno alla loro gente. Ecco perché gli Israeliti, dopo Mosè e Giosuè non si occuparono dell’autorità regia [cioè, di un Califfato]. La loro unica preoccupazione era di istituire la loro religione [non di diffonderla alle nazioni]Ma nell’islàm c’è l’obbligo di acquisire la sovranità sulle altre nazioni.

Gli studiosi moderni più autorevoli concordano. La voce sulla “jihad” dell’Enciclopedia dell’islàm di Emile Tyan afferma che “la diffusione dell’islàm con le armi è in imperativo religioso imposto ai musulmani in generale … la jihad deve continuamente essere perseguita fino a quando tutto il mondo sia sotto la sovranità dell’islàm … l’islàm deve essere completamente realizzato prima che la dottrina della jihad [guerra per diffondere l’islàm] possa essere eliminata”. Il giurista Iraqeno, Majid Khadduri (1909-2007), dopo aver definito la jihad come “guerra”, scrive che “la jihad … è considerata da tutti i giuristi, praticamente senza eccezioni, come un obbligo collettivo di tutta la comunità musulmana”. E, ovviamente, i manuali legali scritti in Arabo, sono ancora più espliciti.

Il linguaggio del Corano

Quando i versetti violenti del Corano vengono confrontati con i loro corrispettivi dell’Antico Testamento, si caratterizzano in particolare per un linguaggio che trascende spazio e tempo, incitando i credenti ad attaccare e uccidere i non credenti oggi come ieri. Dio ordinò agli Ebrei di uccidere gli Ittiti, gli Amoriti, i Canaanei, i Periziti, gli Iviti e i Gebusei – tutti popoli ben definiti, inseriti in un tempo e uno spazio ben preciso.

Mai Dio diede agli Israeliti, e per estensione ai loro discendenti Ebrei, un comando “incondizionato” di combattere e uccidere i gentili.

D’altra parte, benché i primi nemici dell’islàm, come nell’Ebraismo, fossero storici (cioè Bizantini Cristiani e Persiani Zoroastriani), raramente il Corano li indica con i loro nomi reali. Invece, si ordinò (e si ordina) ai musulmani di combattere la gente del Libro – “finché non versino umilmente il tributo, e siano umiliati” e di “uccidere gli idolatri ovunque li troviate”.

Le due congiunzioni Arabe “finché” (hatta) e “ovunque” (haythu) dimostrano la natura ubiquitaria e perpetua di questi comandamenti. C’è ancora “gente del Libro” che deve essere “completamente umiliata” (specialmente in America, in Europa e in Israele) e “idolatri” da essere trucidati “ovunque” uno guarda (specialmente in Asia e nell’Africa sub-Sahariana). In realtà, la caratteristica principale di quasi tutti i versetti violenti delle scritture islamiche è la loro natura illimitata e generica: “Combatteteli (i non musulmani) finché non ci sia più persecuzione e la religione sia solo di Allah”. Inoltre, in una ben nota tradizione, presente nelle collezioni di ahadith, Maometto proclama:

Mi è stato ordinato di muovere guerra contro l’umanità finché non testimonino che non c’è altro dio se non Allah e che Maometto è il Messaggero di Allah; finchè non eseguano la prostrazione e non paghino l’elemosina [cioè, finché non si convertano all’islàm]. Se lo faranno, il loro sangue e le loro proprietà saranno protette”.

Questo aspetto linguistico è di importanza cruciale per comprendere l’esegesi scritturale che riguarda la violenza. E ancora, è importante ripetere che né le scritture Ebraiche né quelle Cristiane – l’Antico e il Nuovo Testamento, rispettivamente – utilizzano questi comandamenti perpetui e illimitati. Ciò nonostante, Jenkins lamenta che:

“I comandamenti di uccidere, di realizzare la pulizia etnica, di istituzionalizzare la segregazione, di odiare e di temere le altre razze e le altre religioni … tutto questo è nella Bibbia e capita con molto maggiore frequenza che nel Corano. Ad ogni livello possiamo discutere su cosa significhino i brani in questione e certamente se debbano avere qualche rilevanza per le età future. Ma rimane il fatto che le parole sono lì, e la loro inclusione nella scrittura significa che esse sono, letteralmente, canonizzate, non meno che nelle scritture musulmane”.

Ci si può domandare cosa intenda Jenkins con il termine “canonizzato”. Se “canonizzato” significa che questi versetti devono essere considerati parte del canone della scrittura Giudeo-Cristiana, è assolutamente corretto; invece, se con “canonizzato” intende, o cerca di implicare che questi versetti sono stati applicati nella Weltanschauung (visione del mondo) Giudeo-Cristiana, allora è assolutamente in errore.

Inoltre, non bisogna basarsi esclusivamente su argomenti di pura esegesi o solo filologici: sia la storia che gli eventi attuali smentiscono il relativismo di Jenkins.

Mentre il Cristianesimo del primo secolo si diffuse col sangue dei martiri, l’islàm del primo secolo si diffuse mediante la conquista violenta e i massacri. In effetti, dal primo istante fino ad oggi – ovunque ha potuto – l’islàm si è diffuso con la violenza, come è confermato dal fatto che la maggioranza di quello che oggi è noto come il mondo islamico, o dar al-islàm, fu conquistato dalla spada dell’islàm. Questo è un fatto storico, confermato dai più prestigiosi storici islamici. Anche la penisola Arabica, la “casa” dell’islàm, fu sottomessa con grandi lotte e massacri, come dimostrato dalle guerre della Ridda che scoppiarono subito dopo la morte di Maometto, quando decine di migliaia di Arabi furono passati a fil di spada dal primo Califfo, Abu Bakr, per aver abbandonato l’islàm.

Il ruolo di Maometto

Inoltre, in merito alla attuale diffusa idea che cerca di giustificare la violenza islamica – che questa è solo il prodotto della frustrazione dei musulmani di fronte a una oppressione politica od economica – ci si dovrebbe porre questo interrogativo: che dire allora dell’oppressione di oggi nel mondo, di Cristiani ed Ebrei, per non menzionare Indù e Buddisti?

Dov’è la loro violenza ammantata di religione? Questa è la verità: anche se il mondo islamico fa la parte del leone nei titoli più drammatici – di violenza, terrorismo, attacchi suicidi e decapitazioni – è inoppugnabile che non è certo l’unica regione al mondo a soffrire per ingiustizie sia interne che esterne.

Per esempio, benché quasi tutta l’Africa sub-Sahariana sia intrisa di corruzione, oppressione e povertà, quando si considera la violenza, al terrorismo e all’assoluto caos, la Somalia – che appunto è l’unico stato sub-Sahariano ad essere completamente musulmano – guida il branco. Inoltre, i maggiori responsabili della violenza somala e della imposizione delle misure legali più draconiane e intolleranti – i membri del gruppo jihadista al-Shabab (i giovani) – spiegano e giustificano le loro azioni mediante uno schema islamista.

Anche in Sudan, è attualmente in corso un genocidio jihadista contro il popolo Cristiano e politeista, condotto dal governo islamista di Khartum, che ha provocato quasi un milione di morti tra “infedeli” e “apostati”. Che l’Organizzazione della Conferenza Islamica sia corsa in difesa del Presidente Sudanese Hassan Ahmad al-Bashir, che è incriminato dalla Corte Criminale Internazionale, è una ulteriore prova dell’approvazione della comunità islamica della violenza contro sia i non musulmani che contro chi non considera i musulmani abbastanza bene.

Pure i paesi dell’America Latina e i paesi Asiatici non musulmani hanno la loro quota di regimi autoritari ed oppressivi, di povertà e di tutto il resto, come i paesi musulmani. Eppure, diversamente dai quasi quotidiani titoli che provengono dal mondo islamico, non ci sono notizie di fedeli Cristiani, Buddisti o Indù che lanciano veicoli carichi di esplosivo contro edifici di regimi oppressivi (come il regime Cubano o quello Comunista Cinese), sventolando, allo stesso tempo, le loro scritture e urlando: “Gesù (o Budda, o Visnu) è grande!”. Perché?

C’è un ultimo aspetto che viene spesso trascurato – sia per ignoranza o per malafede – da chi insiste che la violenza e l’intolleranza sono equivalenti tra tutte le religioni. Oltre le parole divine del Corano, il modo di comportarsi di Maometto – la sua “sunna” o “esempio” – è una importante sorgente di legislazione nell’islàm. I musulmani sono invitati ad emulare Maometto in ogni circostanza della vita: “Avete un eccellente esempio nel Messaggero di Allah”. E il tipo di condotta di Maometto verso i non musulmani è molto esplicito.

Per esempio, polemizzando sarcasticamente contro il concetto di islàm moderato, il terrorista Osama Bin Laden, che, secondo un sondaggio di al-Jazira, gode dell’appoggio di metà del mondo islamico, così descrive la “sunna” del Profeta:

La ‘moderazione’ fu dimostrata dal nostro Profeta che non rimase mai più di tre mesi a Medina senza razziare o inviare scorrerie nelle terre degli infedeli, per abbattere le loro fortezze, saccheggiare i loro beni, spegnere le loro vite e rapire le loro donne”.

Infatti, sia secondo il Corano che secondo la “sunna” di Maometto, razziare e saccheggiare gli infedeli, fare schiavi i loro figli e usare le loro donne come concubine, ha un fondamento ineccepibile. E il concetto di “sunna” – che è quella da cui oltre un miliardo di musulmani, i “sunniti”, hanno ricevuto il loro nome – afferma senza ombra di dubbio che tutto ciò che fu fatto o fu approvato da Maometto, l’esempio più perfetto per l’umanità, è accettabile per i musulmani di oggi così come per quelli di ieri. Questo ovviamente, non significa che la totalità dei musulmani viva soltanto per saccheggiare e stuprare.

Però significa che persone naturalmente inclini a queste attività, e che per caso sono anche musulmane, possono giustificare le loro azioni – e le giustificano – riferendosi alla “sunna del profeta” – il modo con cui al-Qaeda, ad esempio, ha giustificato il suo attacco dell'11 Settembre, in cui furono uccisi degli innocenti, incluse donne e bambini: Maometto autorizzò i suoi seguaci ad usare le catapulte durante l’assedio della città di Ta’if nel 630 DC – gli abitanti della città avevano rifiutato di sottomettersi – benché sapesse molto bene che donne e bambini erano rifugiati in città. Inoltre, quando gli fu chiesto se era consentito lanciare attacchi notturni o incendiare le fortificazioni degli infedeli se donne e bambini erano con loro, e il Profeta rispose: “Essi [le donne e i bambini] sono dei loro [degli infedeli]”.

Il comportamento di Ebrei e Cristiani

Benché osservante scrupoloso della legge e forse iper-legalista, l’Ebraismo non ha un equivalente come la “sunna"; le parole e le azioni dei patriarchi, pur descritte nell’Antico Testamento, non giunsero mai a prescrivere la legge Giudaica. Né le “pietose bugie” di Abramo, né la perfidia di Giacobbe, né l’estrema irascibilità di Mosè, né la relazione adulterina di Davide o le scappatelle di Salomone furono alla base dell’istruzione di Ebrei o Cristiani. Furono interpretate come azioni storiche, compiute da uomini fallibili che, più spesso che no, erano puniti da Dio per il loro comportamento molto meno che esemplare.

Per quanto riguarda il Cristianesimo, gran parte della legge dell’Antico Testamento venne abrogata, o compiuta – a seconda dei punti di vista – da Gesù. “Occhio per occhi” lasciò il posto a “porgi l’altra guancia”. Amare dio e il prossimo con tutto il cuore divenne la legge suprema. Inoltre, la “sunna” di Gesù – “Cosa avrebbe fatto Gesù? – è caratterizzata da docilità e altruismo. Il Nuovo Testamento non contiene alcuna esortazione alla violenza.

Eppure, c’è ancora chi pretende di dipingere Gesù come un personaggio con un atteggiamento militante simile a quello di Maometto, citando il versetto in cui il primo – che “parlò alle folle in parabole e non parlò se non in parabole” – disse: “Non sono venuto a portare la pace, ma una spada”. Ma in base al contesto di questa affermazione è evidente che Gesù non stava ordinando la violenza contro i non Cristiani, ma piuttosto predicendo che ci sarebbero stati conflitti tra i Cristiani e il loro ambiente – una profezia fin troppo vera, dato che i primi Cristiani, invece di brandire la spada, perirono docilmente come martiri, a causa della spada, così come spesso stanno ancora facendo nel mondo musulmano.

Altri si appigliano alla violenza profetizzata nel Libro dell’Apocalisse, ancora, dimenticandosi di osservare che tutto il racconto è descrittivo – per non aggiungere che è chiaramente simbolico – e quindi difficilmente “prescrittivo” per i Cristiani.

Ad ogni modo, come si può ragionevolmente paragonare questa manciata di versetti del Nuovo Testamento che metaforicamente menzionano la parola “spada” con le centinaia di prescrizioni Coraniche e dichiarazioni di Maometto che chiaramente comandano ai musulmani di usare una spada vera e propria contro i non musulmani?

Imperterrito, Jenkins lamenta il fatto che nel Nuovo Testamento, gli Ebrei “progettano di lapidare Gesù, complottano per ucciderlo, a sua volta Gesù li chiama bugiardi e figli del Demonio”. Rimane però da stabilire se essere chiamati “figli del Demonio” sia più offensivo che essere definiti discendenti di scimmie e porci – l’appellativo Coranico degli Ebrei. A parte gli insulti, tuttavia, ciò che qui importa è che, mentre il Nuovo Testamento non ordina ai Cristiani di trattare gli Ebrei come “figli del Demonio”, invece, in base al Corano, in particolare 9:29, la legge islamica obbliga i musulmani a sottomettere gli Ebrei, anzi, tutti i non musulmani.

Questo significa forse che chi si professa Cristiano non può essere antisemita? Ovviamente no! Ma significa che i Cristiani antisemiti vivono un ossimoro – per il semplice fatto che sia letteralmente che teologicamente, il Cristianesimo non insegna assolutamente odio e astio, bensì pone l’accento su amore e perdono. Il punto qui non è se i Cristiani seguono o no questi precetti; proprio come non è il punto se i musulmani osservano o no l’obbligo della jihad. L’unica domanda pertinente è: cosa richiedono le religioni?

John Esposito ha ragione quando asserisce che “Ebrei e Cristiani furono coinvolti in atti di violenza”. Invece sbaglia quando aggiunge: “Noi [Cristiani] abbiamo la nostra teologia dell’odio”. Nulla nel Nuovo Testamento insegna l’odio – e certamente niente lontanamente paragonabile ai comandi Coranici tipo: “Noi [musulmani] ci dissociamo da voi [non musulmani] e tra noi e voi è sorta inimicizia e odio eterni finché voi non crederete in Dio soltanto”.

Rivalutare le Crociate

Ed è da qui che si può comprendere meglio la storia delle Crociate – eventi che sono stati completamente stravolti da numerosi e influenti apologeti dell’islàm. Karen Armstrong, per esempio, si è praticamente costruita una carriera rappresentando le Crociate in un modo completamente sbagliato, scrivendo, per esempio che “l’idea che l’islàm si sia imposto con la spada è una fantasia Occidentale, inventata durante il tempo delle Crociate quando, in realtà, furono i Cristiani dell’Occidente a muovere una brutale guerra santa contro l’islàm”. Che una ex monaca condanni rabbiosamente le Crociate, rispetto a quanto fatto dall’islàm, rende la sua critica ancora più vendibile. Affermazioni come le sue, ovviamente, ignorano il fatto che dall’inizio dell’islàm, più di 400 anni prima delle Crociate, i Cristiani si erano accorti che l’islàm si diffondeva con la spada. Infatti, autorevoli storici musulmani che scrissero secoli prima delle Crociate, come Ahmad Ibn Yahya al-Baladhuri (m. 892) e Muhammad Ibn Jarir at-Tabari (838-923), dimostrano chiaramente che l’islàm si diffuse mediante la spada.

La realtà è questa: le Crociate furono un contrattacco contro l’islàm – non un attacco senza provocazione come sostengono la Armstrong ed altri storici revisionisti. L’eminente storico Bernard Lewis lo espone molto bene:

Anche la Crociata Cristiana, spesso paragonata alla jihad islamica, fu una tardiva e limitata risposta alla jihad e, in parte, anche una sua imitazione. Ma, a differenza della jihad, riguardò principalmente la difesa o la riconquista di territori Cristiani minacciati o perduti. Fu, con alcune eccezioni, limitata alle guerre vittoriose per la riconquista dell’Europa Sud-Occidentale e alle guerre perdute per liberare la Terra Santa e per fermare l’avanzata Ottomana nei Balcani. La jihad islamica, per contro, fu interpretata come illimitata e fu percepita come un obbligo religioso che sarebbe continuato finché tutto il mondo non si fosse convertito all’islàm o si fosse sottomesso al suo dominio … Lo scopo della jihad è di imporre la legge islamica a tutto il mondo”.

Inoltre, le invasioni dei musulmani e le atrocità contro i Cristiani erano aumentate nei decenni precedenti la proclamazione della Crociata nel 1096. Il Califfo Fatimide Abu ‘Ali Mansur Tariqu’l-Hakim (r. 996-1021) profanò e distrusse un gran numero di importanti Chiese – come la Chiesa di San Marco in Egitto e la Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme – ed emanò contro Cristiani ed Ebrei decreti ancora più oppressivi di quelli già in uso. Poi, nel 1071, i Turchi Selgiuchidi sbaragliarono i Bizantini nella cruciale battaglia di Manzicerta e, per questo, conquistarono la maggior parte dell’Anatolia Bizantina, facendo presagire l’eventualità della finale cattura di Costantinopoli, secoli dopo.

Fu per reagire a questa situazione che il Papa Urbano II (r. 1088-1099) indisse la Crociata:

“Dai confini di Gerusalemme e dalla città di Costantinopoli è giunta un’orribile notizia che ci è stata ripetutamente riferita, cioè che una razza del regno dei Persiani [cioè, i Turchi musulmani] … ha invaso le terre di quei Cristiani e le ha spopolate con la spada, il saccheggio e il fuoco; ha portato una parte dei prigionieri nel proprio paese e ha eliminato l’altra parte con crudeli torture; ha distrutto completamente le Chiese di Dio o se ne è appropriata per i riti della loro religione”.

Anche se la descrizione di Urbano II è storicamente accurata, il fatto rimane: in qualsiasi modo si interpretino queste guerre – offensive o difensive, giuste o ingiuste – è evidente che non furono basate sull’esempio di Gesù, che così esortò i suoi seguaci “Amate i vostri nemici, benedite chi vi maledice, fate il bene a chi vi odia e pregate per chi vi insulta e vi perseguita”. E infatti, furono necessari secoli di dibattiti teologici, da Agostino all’Aquinate, per giustificare la guerra difensiva – definita come “guerra giusta”. Così sembrerebbe che se qualcuno non è stato completamente fedele alle sue scritture, questi sono stati i Crociati – e non i jihadisti musulmani (dal punto di vista letterale). In altri termini, sono stati i jihadisti musulmani – e non i Crociati – che hanno fedelmente eseguito le indicazioni delle loro scritture (almeno dal punto di vista letterale). Inoltre, come i racconti violenti dell’Antico Testamento, anche le Crociate hanno una mera natura storica e non sono manifestazioni di più profonde verità scritturali.

Infatti, ben lontane dal suggerire alcunché di intrinseco al Cristianesimo, le Crociate, ironicamente, ci aiutano a capire meglio l’islàm. Perché le Crociate dimostrano, una volta per tutte, che, nonostante gli insegnamenti religiosi – e infatti, nel caso delle così dette Crociate Cristiane, a dispetto di questi insegnamenti – l’uomo è spesso predisposto alla violenza.

Ma questo impone una domanda: se questo è il comportamento dei Cristiani – a cui è stato imposto di amare, benedire e beneficare i loro nemici che li odiano, li maledicono e li perseguitano – quanto di più dobbiamo aspettarci dai musulmani che, condividendo la stessa tendenza alla violenza, sono spinti da Dio ad attaccare, uccidere e depredare i non credenti?

Raymond Ibrahim è Direttore Associato del Forum del Medio Oriente e autore di “The Al Qaeda Reader” (New York: Doubleday, 2007).

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Raymond Ibrahim

Raymond Ibrahim, a specialist in Islamic history and doctrine, is the author of Defenders of the West: The Christian Heroes Who Stood Against Islam (2022); Sword and Scimitar: Fourteen Centuries of War between Islam and the West (2018); Crucified Again: Exposing Islam’s New War on Christians (2013); and The Al Qaeda Reader (2007). He has appeared on C-SPAN, Al-Jazeera, CNN, NPR, and PBS and has been published by the New York Times Syndicate, the Los Angeles Times, the Washington Post, the Financial Times, the Weekly Standard, the Chronicle of Higher Education, and Jane’s Islamic Affairs Analyst. Formerly an Arabic linguist at the Library of Congress, Ibrahim guest lectures at universities, briefs governmental agencies, and testifies before Congress. He has been a visiting fellow/scholar at a variety of Institutes—from the Hoover Institution to the National Intelligence University—and is the Judith Friedman Rosen Fellow at the Middle East Forum and the Distinguished Senior Shillman Fellow at the Gatestone Institute.

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