mercoledì 23 ottobre 2024

125)- NĀGĀRJUNA, CARLO ROVELLI: «UNA METAFISICA FALLACE»


Riporto un lungo nonché interessante post scritto da Andrea Cecchetto ( = AC) e tratto dalla pagina Facebook: Le Corrispondenze universali.

Esso ha per titolo:   

<<CONSIDERAZIONI SUL LIBRO "HELGOLAND" DI CARLO ROVELLI>>.

Scrive AC:

<<Nel passo che segue, Rovelli loda la filosofia di Nāgārjuna (che in qualche modo ha anticipato l’aspetto relazionale del reale descritto della moderna fisica quantistica), opponendola alla cosiddetta metafisica occidentale, che invece svaluta in quanto vana ricerca di sostanzialità e di una causa prima. “Nessuna metafisica sopravvive” - scrive infatti - al confronto con il pensiero del filosofo indiano. Leggere Rovelli è una grande esperienza intellettuale, e lo consiglio a tutti. Però… ecco… su alcune cose - nel mio piccolo - non sono d’accordo, mentre altre le avrei dette in modo un po’ diverso. Intanto riporto il passo, seguito poi dalle mie considerazioni:

  • Se nulla ha esistenza in sé, tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro. Il termine tecnico usato da Nāgārjuna per descrivere la mancanza di esistenza indipendente è «vacuità» (śūnyatā): le cose sono «vuote» nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcosa d’altro […]. Non c’è nessuna essenza ultima o misteriosa da comprendere, che sia l’essenza vera del nostro essere. «Io» non è altro che l’insieme vasto e interconnesso dei fenomeni che lo costituiscono, ciascuno dipendente da qualcosa d’altro. Secoli di speculazione occidentale sul soggetto e sulla coscienza svaniscono come brina nell’aria del mattino. Nāgārjuna distingue due livelli, come fa tanta filosofia e tanta scienza: la realtà convenzionale, apparente, con i suoi aspetti illusori o prospettici, e la realtà ultima. Ma porta questa distinzione in una direzione inaspettata: la realtà ultima, l’essenza, è assenza, vacuità. Non c’è. Se ogni metafisica cerca una sostanza prima, un’essenza da cui tutto dipenda, il punto di partenza da cui poi derivare il resto, Nāgārjuna suggerisce che la sostanza ultima, il punto di partenza… non c’è. Ci sono timide intuizioni in direzioni simili nella filosofia occidentale. Ma la prospettiva di Nāgārjuna è radicale. L’esistenza convenzionale quotidiana non è negata; al contrario, è affermata in tutta la sua complessità, con i suoi livelli e sfaccettature. Può essere studiata, esplorata, analizzata, ridotta a termini più elementari. Ma non ha senso, suggerisce Nāgārjuna, cercarne il sostrato ultimo […]. Allora l’unica realtà è la vacuità? È questa la realtà ultima? No, scrive Nāgārjuna nel capitolo più vertiginoso del libro, ogni prospettiva esiste solo in dipendenza da altro, non è mai realtà ultima, e questo vale anche per la prospettiva di Nāgārjuna: anche la vacuità è vuota di essenza, è convenzionale. Nessuna metafisica sopravvive. La vacuità è vuota […]. Questo non chiude la possibilità di indagare. Al contrario, la libera. Nāgārjuna non è un nichilista che nega la realtà del mondo, e neppure uno scettico che dice che della realtà non possiamo sapere nulla. Il mondo dei fenomeni è un mondo che possiamo indagare e comprendere sempre meglio. Trovarne caratteristiche generali. Ma è un mondo di interdipendenze e di contingenze, non un mondo che valga la pena cercare di derivare da un Assoluto. (Carlo Rovelli; Helgoland, pp. 151-154).

Provo ad analizzare il problema. Vero è che le singole cose, considerate in se stesse (separatamente dalle altre), non esistono, e che si manifestano solo ed esclusivamente nelle reciproche relazioni. L’esistenza è relazione. Nāgārjuna sostiene che esse sono “vuote”, prive di sostanzialità e quindi in un certo senso illusorie (vacuità, mâyâ) qualora considerate indipendentemente dalle loro relazioni, le quali, sole, le fanno esistere. E fino a qui siamo perfettamente d’accordo [con Nāgārjuna e Rovelli; nota mia: RF]. Ma questa rete di relazioni - considerata integralmente, nella sua totalità ed interezza - è comunque reale. Nemmeno Nāgārjuna nega la realtà del mondo. Dunque, se da un lato le cose non esistono separatamente ma solo nella relazione, dall’altro la rete delle loro interazioni è reale. Ecco, io direi che è la mente umana che, separando e distinguendo la realtà in molteplici cose (laddove essa è invece indivisa) non può che spiegare il divenire dei fenomeni in quanto relazioni fra le cose stesse. Ma si tratta già di una interpretazione: la realtà non è separata in molteplici cose: siamo noi che non possiamo che considerarla tale per convenienza. Lo scrive lo stesso Rovelli:

  • Non c’è nulla di misterioso in questo: il mondo non è diviso in entità a sé stanti. Siamo noi che lo separiamo in oggetti per nostra convenienza (Carlo Rovelli; Helgoland, p. 147).

Questa rete di relazioni, intesa nella sua totalità ed indivisione, non si relaziona con nulla, essendo la realtà totale: essa coincide quindi con l’Assoluto irrelato, o meglio, con l’unico modo che abbiamo per concettualizzare ciò che non è in sé concettualizzabile. Introduciamo una pluralità di possibilità in relazione laddove vi è solo pura indivisione. E questo Assoluto non è ciò da cui derivano le cose; questa è una metafisica fallace. Abbiamo detto che la realtà è indivisa: non c’è una causa e un causato; non c’è un creatore e una creatura; non c’è una sostanza prima da cui derivano le cose come se fossero altro. Ogni dualità e ogni alterità vanno respinte. L’Infinito non ha parti. L’Assoluto è tutto intero in ogni cosa, in ogni relazione, la quale è solo un aspetto, un punto di vista attraverso il quale l’Assoluto conosce se stesso. Assoluto, da ab-sulutum, significa “sciolto da tutto”, totalmente libero, ossia irrelato, non relativo, non dipendente da qualcos’altro. Noi, questo inconcepibile Assoluto, dobbiamo per forza immaginarcelo come relativo e molteplice, e quindi lo consideriamo come un insieme di cose; ma non è così.

È questa la metafisica che raggiunge il vertice del pensiero. E non ci è arrivato solo l’Oriente, ma anche l’Occidente platonico. Lo stesso Buddha (di cui Nāgārjuna è un seguace) dice questo:

  • Vi è, monaci, il non-nato, il non-divenuto, il non-fatto, il non-composto. Monaci, se questo non-nato, non-divenuto, non-composto non fossero, non si conoscerebbe modo di sfuggire a questo nato, divenuto, fatto, composto (Udāna, VIII, 3).

È questa l’essenza della mistica, e la metafisica (quella sana, intendo), lungi dall’essere distrutta dal pensiero di Nāgārjuna, è un tentativo di avvicinarsi per quanto possibile con il linguaggio discorsivo e con quello simbolico a questo Assoluto che - i metafisici ne sono consapevoli - è inconcepibile. Ma che senso ha parlare di una cosa di cui… non si può parlare?

  • Ma perché allora parliamo di Lui? Veramente, noi diciamo solo qualche cosa di Lui, ma non affermiamo nulla di Lui e non abbiamo di Lui né conoscenza né pensiero. E come dunque possiamo parlare di Lui se non lo possediamo? È vero, non lo possediamo con la conoscenza, né lo possediamo pienamente: lo possediamo però in tal modo da poter parlare di Lui senza però dirlo veramente. Noi diciamo infatti quello che Egli non è, ma non diciamo quello che è (Plotino; Enneadi, V, 3, 14)>>.

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Comincerei coi seguenti rilievi critici.

Scrive AC:

l’<<Assoluto non è ciò da cui derivano le cose; questa è una metafisica fallace>> giacché <<la realtà è indivisa: non c’è una causa e un causato; non c’è un creatore e una creatura; non c’è una sostanza prima da cui derivano le cose come se fossero altro>>.

Per Nāgārjuna e Rovelli <<nulla ha esistenza in sé>> in quanto <<tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro>>, quindi, chiosa AC, <<Questa rete di relazioni, intesa nella sua totalità ed indivisione, non si relaziona con nulla, essendo la realtà totale: essa coincide quindi con l’Assoluto irrelato>>.

No, la <<rete di relazioni, intesa nella sua totalità ed indivisione>>, NON può costituire <<l’Assoluto irrelato>>.

Perché?

Consideriamo più da vicino.

AC sostiene che <<la realtà non è separata in molteplici cose>>.

Ma ecco che, affermando ciò, le <<molteplici cose>> _ e quindi la DISTINZIONE _ sono GIÀ PRESUPPOSTE, ossia APPAIONO come cose differenziantisi. Ciò è innegabile, altrimenti nessuno potrebbe rilevare/attestare la presenza di esse.

Tant’è vero che egli afferma altresì: <<questa rete di relazioni - considerata integralmente, nella sua totalità ed interezza - è comunque reale. Nemmeno Nāgārjuna nega la realtà del mondo>>.

Dopodiché, per rendere ragione del molteplice, AC osserva:

<<io direi che è la mente umana che, separando e distinguendo la realtà in molteplici cose (laddove essa è invece indivisa) non può che spiegare il divenire dei fenomeni in quanto relazioni fra le cose stesse>>.

Ora, com’è evidente, questo espediente non fa altro che ri-confermare l’innegabilità dell’apparir delle <<molteplici cose>> DISTINTE l’una dall’altra.

Infatti, se la scaturigine di ogni DISTINZIONE è <<la mente umana>>, allora, ALMENO ESSA, è DISTINTA da tutto il resto, altrimenti, in assenza di qualsivoglia distinzione, non potremmo neppure parlare di mente umana, giacché il parlarne implica che essa sia appunto quel ‘qualcosa’ che, a differenza di molti altri ‘qualcosa’, abbia la capacità di DISTINGUERE <<la realtà in molteplici cose>>, e ciò comporta che essa sia a sua volta DISTINTA da tutto il resto, cioè da tutto ciò che non sia siffatta mente umana.

Perché continuo a porre l’accento sulla DISTINZIONE fra le cose?

Perché _ contrariamente a quanto espresso da AC _ la <<rete di relazioni, intesa nella sua totalità ed indivisione>> NON può costituire <<l’Assoluto irrelato, e ciò discende dalla natura stessa dell’Assoluto, il quale, come afferma lo stesso <<Buddha (di cui Nāgārjuna è un seguace)>>, è <<il non-composto>> DI CONTRO a questo nostro mondo che è, invece, <<composto>> ( = molteplice, differenziato).

È chiaro: AC intende sbarazzarsi del <<creatore>> e della <<causa>>, assolutizzando il mondo che, invece, NON PUÒ essere assolutizzato, giacché, ripeto, esso è <<composto>>, cioè <<è un mondo di interdipendenze e di contingenze>>.

D’altronde, è lo stesso AC a riconoscere che l’<<Infinito non ha parti>> cioè _ come dice Buddha _ non è <<composto>>, salvo poi, però, SMENTIRE questa sua stessa tesi affermando che <<Questa rete di relazioni [ = il composto, le PARTI DISTINTE], intesa nella sua totalità ed indivisione, non si relaziona con nulla, essendo la realtà totale: essa coincide quindi con l’Assoluto [ = il non-composto] irrelato>> (parentesi quadre mie: RF).

Il composto, infatti, NON può coincidere con il non-composto ( = l’autentico Assoluto).

Lo stesso dicasi riguardo alla citazione di Plotino riportata da AC, ove il filosofo di Licopoli CONTRADDICE NETTAMENTE la convinzione che <<Questa rete di relazioni [ = il composto, le PARTI DISTINTE], intesa nella sua totalità ed indivisione>> sia <<la realtà totale>> che <<coincide quindi con l’Assoluto [ = il non-composto] irrelato>>.

Infatti:

<<L'Uno è la prima, totalmente trascendente ipostasi, cioè la prima realtà sussistente. Esso non può contenere alcuna divisione, molteplicità o distinzione; per questo è al di sopra persino di qualsiasi categoria di essere. Il concetto di "essere" deriva infatti dagli oggetti dell'esperienza umana, ed è un attributo di questi, ma l'infinito trascendente Uno è al di là di tali oggetti [ = la <<rete di relazioni>>; RF], quindi al di là dei concetti che ne deriviamo>> (https://it.wikipedia.org/wiki/Plotino#L'Uno).

Per cui <<Questa rete di relazioni>> NON è <<la realtà totale>> <<coincide quindi con l’Assoluto irrelato>>, bensì è realtà DERIVATA da esso.

Perché è realtà DERIVATA?

Vediamo.

Poiché _ secondo Rovelli e AC _ <<nulla ha esistenza in sé>> in quanto <<tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro>>, allora ANCHE la totalità delle relazioni tra cose _ la quale, come abbiamo appena visto, NON è l’Assoluto trascendente e non-composto _ rimanderà necessariamente <<a qualcosa d’altro>> come alla propria CAUSA, <<qualcosa d’altro>> che non sia, però, analogo al precedente <<qualcosa d’altro>> tutto INTERNO alla serie di cose costituenti il mondo, altrimenti NULLA di tutto ciò esisterebbe <<in dipendenza da qualcosa d’altro>>, perché nell’infinità di un dipendente-da un altro dipendente-da, niente verrebbe mai a configurarsi (ad apparire) in atto, nel o come presente, bensì resterebbe un infinito procrastinare il REALIZZARSI come <<mondo di interdipendenze e di contingenze>> il quale, perciò, NON apparirebbe MAI.  

Senza l’Altro cioè l’Assoluto ( = Dio) non rinviante ad alcunché, 

non solo

sarebbe FALSO affermare che <<tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro>>, perché, in questo caso, NON TUTTO esisterebbe in tale dipendenza, appunto perché almeno la totalità delle relazioni tra cose NON potrebbe mai essere <<in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro>>,

ma altresì

sarebbe FALSO sostener _ come sostiene Rovelli _ che questo mondo sia <<un mondo […] di contingenze>>, perché la totalità (o la somma) di tutte le contingenze (che egli vorrebbe Assoluta) NON realizza affatto l’Assoluto, bensì sempre e soltanto un (altro) mondo di contingenze!

Ed un tale mondo di contingenze, per ottemperare davvero al proprio statuto ontologico secondo cui ciò che lo costituisce <<esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro>>, dovrà ANCH’ESSO, ripeto, esistere <<solo in dipendenza da altro>>, poiché il mondo di contingenze <<non è mai realtà ultima>>.

Proprio perché, ripeterei, la somma di tutte le cose contingenti non costituisce l’Assoluto, essa necessita del vero Assoluto.

È perciò impossibile che ciò che rimanda sempre ad altro non rimandi ad un Altro il quale, perciò, non dovrà assolutamente rimandare ad (un) altro!

Pertanto, la totalità dei dipendenti <<da qualcosa d’altro>> ( = il nostro mondo) deve dipendere da ciò _ da un Altro assoluto _ che non dipenda da alcunché ma che sia, appunto absolutus: sciolto-da (ogni dipendenza).

Sì che la frase di Rovelli secondo cui il nostro <<è un mondo di interdipendenze e di contingenze, non un mondo che valga la pena cercare di derivare da un Assoluto>>,

vada rovesciata in quest’altra:

proprio perché il nostro <<è un mondo di interdipendenze e di contingenze>>, esso DEVE <<derivare da un Assoluto>>!

Spero di aver evidenziato quale sia davvero la <<metafisica fallace>> e quale la <<metafisica sana>>…

 

Roberto Fiaschi

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