Riporto un lungo nonché interessante post scritto da Andrea Cecchetto ( = AC) e tratto dalla pagina Facebook: Le Corrispondenze universali.
Esso ha per titolo:
<<CONSIDERAZIONI SUL LIBRO "HELGOLAND"
DI CARLO ROVELLI>>.
Scrive AC:
<<Nel passo che segue, Rovelli loda la filosofia di
Nāgārjuna (che in qualche modo ha anticipato l’aspetto relazionale del reale
descritto della moderna fisica quantistica), opponendola alla cosiddetta
metafisica occidentale, che invece svaluta in quanto vana ricerca di
sostanzialità e di una causa prima. “Nessuna metafisica sopravvive” - scrive
infatti - al confronto con il pensiero del filosofo indiano. Leggere Rovelli è
una grande esperienza intellettuale, e lo consiglio a tutti. Però… ecco… su
alcune cose - nel mio piccolo - non sono d’accordo, mentre altre le avrei dette
in modo un po’ diverso. Intanto riporto il passo, seguito poi dalle mie
considerazioni:
- Se
nulla ha esistenza in sé, tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa
d’altro, in relazione a qualcosa d’altro. Il termine tecnico usato da
Nāgārjuna per descrivere la mancanza di esistenza indipendente è «vacuità»
(śūnyatā): le cose sono «vuote» nel senso che non hanno realtà autonoma,
esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di
qualcosa d’altro […]. Non c’è nessuna essenza ultima o misteriosa da comprendere,
che sia l’essenza vera del nostro essere. «Io» non è altro che l’insieme
vasto e interconnesso dei fenomeni che lo costituiscono, ciascuno dipendente da qualcosa d’altro. Secoli
di speculazione occidentale sul soggetto e sulla coscienza svaniscono come
brina nell’aria del mattino. Nāgārjuna distingue due livelli, come fa
tanta filosofia e tanta scienza: la realtà convenzionale, apparente, con i
suoi aspetti illusori o prospettici, e la realtà ultima. Ma porta questa
distinzione in una direzione inaspettata: la realtà ultima, l’essenza, è
assenza, vacuità. Non c’è. Se ogni metafisica cerca una sostanza prima,
un’essenza da cui tutto dipenda, il punto di partenza da cui poi derivare
il resto, Nāgārjuna suggerisce che la sostanza ultima, il punto di partenza…
non c’è. Ci sono timide intuizioni in direzioni simili nella filosofia
occidentale. Ma la prospettiva di Nāgārjuna è radicale. L’esistenza
convenzionale quotidiana non è negata; al contrario, è affermata in tutta
la sua complessità, con i suoi livelli e sfaccettature. Può essere
studiata, esplorata, analizzata, ridotta a termini più elementari. Ma non
ha senso, suggerisce Nāgārjuna, cercarne il sostrato ultimo […]. Allora
l’unica realtà è la vacuità? È questa la realtà ultima? No, scrive
Nāgārjuna nel capitolo più vertiginoso del libro, ogni prospettiva esiste
solo in dipendenza da altro, non è mai realtà ultima, e questo vale anche
per la prospettiva di Nāgārjuna: anche la vacuità è vuota di essenza, è
convenzionale. Nessuna metafisica sopravvive. La vacuità è vuota […].
Questo non chiude la possibilità di indagare. Al contrario, la libera.
Nāgārjuna non è un nichilista che nega la realtà del mondo, e neppure uno
scettico che dice che della realtà non possiamo sapere nulla. Il mondo dei
fenomeni è un mondo che possiamo indagare e comprendere sempre meglio.
Trovarne caratteristiche generali. Ma è un mondo di interdipendenze e di
contingenze, non un mondo che valga la pena cercare di derivare da un
Assoluto. (Carlo Rovelli; Helgoland, pp. 151-154).
Provo ad analizzare il problema. Vero è che le singole cose,
considerate in se stesse (separatamente dalle altre), non esistono, e che si
manifestano solo ed esclusivamente nelle reciproche relazioni. L’esistenza è
relazione. Nāgārjuna sostiene che esse sono “vuote”, prive di sostanzialità e
quindi in un certo senso illusorie (vacuità, mâyâ) qualora
considerate indipendentemente dalle loro relazioni, le quali, sole, le fanno
esistere. E fino a qui siamo perfettamente d’accordo [con Nāgārjuna e Rovelli;
nota mia: RF]. Ma questa rete di relazioni - considerata integralmente,
nella sua totalità ed interezza - è comunque reale. Nemmeno Nāgārjuna nega la
realtà del mondo. Dunque, se da un lato le cose non esistono separatamente ma
solo nella relazione, dall’altro la rete delle loro interazioni è reale. Ecco,
io direi che è la mente umana che, separando e
distinguendo la realtà in molteplici
cose (laddove essa è invece indivisa) non può che spiegare il divenire dei
fenomeni in quanto relazioni fra le cose stesse. Ma si tratta già di una
interpretazione: la realtà non è separata in molteplici cose: siamo noi che non
possiamo che considerarla tale per convenienza. Lo scrive lo stesso Rovelli:
- Non
c’è nulla di misterioso in questo: il mondo non è diviso in entità a sé
stanti. Siamo noi che lo separiamo in oggetti per nostra convenienza
(Carlo Rovelli; Helgoland, p. 147).
Questa rete di relazioni, intesa nella sua totalità
ed
indivisione, non si relaziona con nulla, essendo la realtà totale: essa
coincide quindi con l’Assoluto irrelato, o meglio, con l’unico modo che abbiamo
per concettualizzare ciò che non è in sé concettualizzabile. Introduciamo una
pluralità di possibilità in relazione laddove vi è solo pura
indivisione.
E questo Assoluto non è ciò da cui derivano le cose; questa è una metafisica
fallace. Abbiamo detto che la realtà è indivisa: non c’è una causa e un
causato; non c’è un creatore e una creatura; non c’è una sostanza prima da cui
derivano le cose come se fossero altro. Ogni dualità e ogni alterità vanno
respinte. L’Infinito non ha parti. L’Assoluto è tutto intero in ogni cosa, in
ogni relazione, la quale è solo un aspetto, un punto di vista attraverso il
quale l’Assoluto conosce se stesso. Assoluto, da ab-sulutum,
significa “sciolto da tutto”, totalmente libero, ossia irrelato, non relativo,
non dipendente da qualcos’altro. Noi, questo inconcepibile Assoluto, dobbiamo
per forza immaginarcelo come relativo e molteplice, e quindi lo consideriamo
come un insieme di cose; ma non è così.
È questa la metafisica che raggiunge il vertice del pensiero.
E non ci è arrivato solo l’Oriente, ma anche l’Occidente platonico. Lo stesso
Buddha (di cui Nāgārjuna è un seguace) dice questo:
- Vi è,
monaci, il non-nato, il non-divenuto, il non-fatto, il non-composto.
Monaci, se questo non-nato, non-divenuto, non-composto non fossero, non si
conoscerebbe modo di sfuggire a questo nato, divenuto, fatto, composto (Udāna, VIII, 3).
È questa l’essenza della mistica, e la metafisica (quella
sana, intendo), lungi dall’essere distrutta dal pensiero di Nāgārjuna, è un
tentativo di avvicinarsi per quanto possibile con il linguaggio discorsivo e
con quello simbolico a questo Assoluto che - i metafisici ne sono consapevoli -
è inconcepibile. Ma che senso ha parlare di una cosa di cui… non si può
parlare?
- Ma perché allora parliamo di Lui? Veramente, noi diciamo
solo qualche cosa di Lui, ma non affermiamo nulla di Lui e non abbiamo di
Lui né conoscenza né pensiero. E come dunque possiamo parlare di Lui se
non lo possediamo? È vero, non lo possediamo con la conoscenza, né lo
possediamo pienamente: lo possediamo però in tal modo da poter parlare di
Lui senza però dirlo veramente. Noi diciamo infatti quello che Egli non è,
ma non diciamo quello che è (Plotino; Enneadi, V, 3, 14)>>.
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Comincerei coi seguenti rilievi critici.
Scrive AC:
l’<<Assoluto
non è ciò da cui derivano le cose; questa è una metafisica fallace>> giacché <<la realtà è
indivisa: non c’è una causa e un causato; non c’è un creatore e una creatura;
non c’è una sostanza prima da cui derivano le cose come se fossero altro>>.
Per Nāgārjuna e Rovelli <<nulla ha
esistenza in sé>> in quanto <<tutto esiste solo in
dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro>>, quindi,
chiosa AC, <<Questa rete di relazioni, intesa nella sua totalità
ed
indivisione, non si relaziona con nulla, essendo la realtà totale: essa
coincide quindi con l’Assoluto irrelato>>.
No, la <<rete di relazioni, intesa nella sua totalità
ed
indivisione>>,
NON può costituire <<l’Assoluto
irrelato>>.
Perché?
Consideriamo più da vicino.
AC sostiene che <<la realtà non è separata in molteplici cose>>.
Ma ecco che, affermando ciò, le <<molteplici cose>>
_ e quindi la DISTINZIONE _ sono GIÀ PRESUPPOSTE, ossia APPAIONO come cose differenziantisi. Ciò
è innegabile, altrimenti nessuno potrebbe rilevare/attestare la presenza di
esse.
Tant’è vero che egli afferma altresì: <<questa rete
di relazioni - considerata integralmente, nella sua totalità ed interezza - è
comunque reale.
Nemmeno Nāgārjuna nega la realtà
del mondo>>.
Dopodiché, per rendere ragione del molteplice, AC
osserva:
<<io direi che è la mente umana che, separando e distinguendo
la
realtà in molteplici cose (laddove essa è invece indivisa) non può che spiegare
il divenire dei fenomeni in quanto relazioni fra le cose stesse>>.
Ora, com’è evidente, questo espediente non fa altro che
ri-confermare l’innegabilità dell’apparir delle <<molteplici cose>>
DISTINTE
l’una dall’altra.
Infatti, se la scaturigine di ogni DISTINZIONE è <<la
mente umana>>, allora, ALMENO ESSA, è DISTINTA da tutto il resto, altrimenti,
in assenza di qualsivoglia distinzione, non potremmo neppure parlare di mente
umana, giacché il parlarne implica che essa sia appunto quel ‘qualcosa’
che, a differenza di molti altri ‘qualcosa’, abbia la capacità di DISTINGUERE
<<la realtà in molteplici cose>>, e ciò comporta che essa
sia a sua volta DISTINTA da tutto il resto, cioè da tutto ciò che non sia
siffatta mente umana.
Perché continuo a porre l’accento sulla DISTINZIONE fra le
cose?
Perché _ contrariamente a quanto espresso da AC _ la <<rete
di relazioni, intesa nella sua totalità
ed
indivisione>>
NON può costituire
<<l’Assoluto
irrelato, e ciò discende dalla natura stessa dell’Assoluto, il quale, come
afferma lo stesso <<Buddha (di cui Nāgārjuna è un seguace)>>,
è <<il non-composto>>
DI CONTRO a questo nostro mondo che è, invece, <<composto>>
( = molteplice, differenziato).
È chiaro: AC intende sbarazzarsi del <<creatore>> e
della <<causa>>,
assolutizzando il mondo che, invece, NON PUÒ essere assolutizzato, giacché,
ripeto, esso è <<composto>>, cioè <<è un mondo di
interdipendenze e di contingenze>>.
D’altronde, è lo stesso AC a riconoscere che l’<<Infinito
non ha parti>>
cioè _ come dice Buddha _ non è <<composto>>, salvo poi,
però, SMENTIRE questa sua stessa tesi affermando che <<Questa rete di
relazioni [ = il composto,
le PARTI DISTINTE], intesa nella sua totalità
ed
indivisione, non si relaziona con nulla, essendo la realtà totale: essa
coincide quindi con l’Assoluto
[ = il
non-composto] irrelato>>
(parentesi quadre mie: RF).
Il composto, infatti, NON può coincidere con il non-composto ( =
l’autentico Assoluto).
Lo stesso dicasi riguardo alla citazione di Plotino riportata
da AC, ove il filosofo di Licopoli CONTRADDICE NETTAMENTE la convinzione che <<Questa
rete di relazioni [ = il composto, le PARTI DISTINTE], intesa nella sua totalità
ed
indivisione>>
sia <<la realtà totale>> che <<coincide quindi con
l’Assoluto [ = il
non-composto] irrelato>>.
Infatti:
<<L'Uno è la prima, totalmente trascendente ipostasi,
cioè la prima realtà sussistente. Esso non può contenere alcuna divisione, molteplicità o distinzione; per questo è al di sopra persino di
qualsiasi categoria di essere. Il concetto di "essere" deriva infatti
dagli oggetti dell'esperienza umana, ed è un attributo di questi, ma l'infinito trascendente Uno è al di là di tali
oggetti [ = la <<rete di relazioni>>; RF],
quindi al di là dei concetti che ne deriviamo>> (https://it.wikipedia.org/wiki/Plotino#L'Uno).
Per cui <<Questa rete di relazioni>> NON è <<la
realtà totale>>
NÉ <<coincide
quindi con l’Assoluto
irrelato>>, bensì è realtà DERIVATA da esso.
Perché è realtà DERIVATA?
Vediamo.
Poiché _ secondo Rovelli e AC _ <<nulla ha esistenza
in sé>> in quanto <<tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a
qualcosa d’altro>>,
allora ANCHE la totalità delle relazioni tra cose _ la quale, come abbiamo
appena visto, NON
è l’Assoluto trascendente e non-composto _ rimanderà necessariamente <<a
qualcosa d’altro>>
come alla propria CAUSA, <<qualcosa d’altro>> che non sia, però, analogo al
precedente <<qualcosa d’altro>> tutto INTERNO alla serie di cose costituenti il
mondo, altrimenti NULLA di tutto ciò esisterebbe <<in dipendenza da qualcosa d’altro>>, perché
nell’infinità di un dipendente-da
un altro dipendente-da, niente
verrebbe mai a configurarsi (ad apparire) in atto, nel o come presente, bensì
resterebbe un infinito procrastinare il REALIZZARSI come
<<mondo di interdipendenze e di contingenze>> il quale,
perciò, NON apparirebbe MAI.
Senza l’Altro cioè l’Assoluto ( =
Dio) non rinviante ad alcunché,
non solo
sarebbe FALSO affermare che <<tutto esiste solo in
dipendenza da qualcosa d’altro,
in relazione a qualcosa d’altro>>,
perché, in questo caso, NON TUTTO esisterebbe in tale dipendenza, appunto perché
almeno la totalità delle relazioni tra cose NON potrebbe mai essere <<in
dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro>>,
ma altresì
sarebbe FALSO sostener _ come sostiene Rovelli _ che questo
mondo sia <<un mondo […] di contingenze>>, perché la totalità (o la
somma) di tutte le contingenze
(che egli vorrebbe Assoluta) NON realizza affatto l’Assoluto, bensì sempre e soltanto un
(altro) mondo di contingenze!
Ed un tale mondo di contingenze, per ottemperare
davvero al proprio statuto ontologico secondo cui ciò che lo costituisce
<<esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a
qualcosa d’altro>>, dovrà ANCH’ESSO, ripeto, esistere <<solo
in dipendenza da altro>>,
poiché il mondo di contingenze
<<non è mai realtà ultima>>.
Proprio perché, ripeterei, la somma di tutte le cose contingenti non
costituisce l’Assoluto, essa necessita del vero Assoluto.
È perciò impossibile che ciò che rimanda sempre ad altro non rimandi ad un Altro il quale, perciò,
non dovrà assolutamente rimandare ad (un) altro!
Pertanto, la totalità dei dipendenti <<da qualcosa d’altro>> ( = il nostro mondo) deve
dipendere da ciò _ da un Altro
assoluto _ che non dipenda da alcunché ma che sia, appunto absolutus: sciolto-da (ogni dipendenza).
Sì che la frase di Rovelli secondo cui il nostro <<è
un mondo di interdipendenze e di contingenze, non un mondo che valga la pena cercare di derivare
da un Assoluto>>,
vada rovesciata in quest’altra:
proprio perché il nostro <<è un mondo di
interdipendenze e di contingenze>>,
esso DEVE <<derivare da un Assoluto>>!
Spero di aver evidenziato quale sia davvero la <<metafisica
fallace>>
e quale la <<metafisica sana>>…
Roberto Fiaschi
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