Vorrei commentare alcuni passaggi di un articolo di Vito Mancuso intitolato:
"L'angoscia di morire tocca anche il Papa e non c'è
nesso con la fede in Dio".
https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2025/03/vito-mancuso-langoscia-di-morire-tocca.html?fbclid=IwY2xjawJRN4tleHRuA2FlbQIxMQABHeGbqSiPhocizBokmwaKsw7gNxcOSPvGTbNIY2hX0-3KaMYToEpnJ91m0Q_aem_QBwaP_rSUSq-yCK1pC2KrQ. (L’articolo completo è a
fine post).
Ebbene
sì, in Vito Mancuso, <<l’abbandono
fiducioso al processo cosmico>>
(ma anche il <<supremo
Fato>>) ha preso il posto dell’abbandono fiducioso a
Cristo/Dio…
Ma CHE COS’È tale <<processo cosmico>> di cui egli parla, da
meritare così tanta fiducia?
Egli NON lo spiega esplicitamente, ma certamente è uno dei
tanti SURROGATI ‘moderni’ di Dio.
Vito Mancuso si limita a
dire che esso <<contiene tutti: monoteisti, panteisti, agnostici, atei>>;
grazie per la confortante rivelazione…
Per cui, sempre secondo lui, <<il compito della
mente consiste nel comprendere quale relazione istituire con esso e orientarsi di
conseguenza. Il processo
cosmico che ci ha generati e che inevitabilmente ci condurrà alla
de-generazione è un nemico o un alleato della nostra vita? Considerarlo alleato significa
accettarlo per quello che è, presenza della morte compresa, e questo, a mio
avviso, è una matura adesione alla vita>>.
Quindi, non solo <<abbandono fiducioso al processo cosmico>>,
ma altresì esso viene considerato addirittura <<un alleato della nostra vita>>!
Afferma
Vito Mancuso che <<Considerarlo
alleato significa
accettarlo per quello che è>>;
già, ma intanto, PRIMA di ritenerlo <<un alleato della nostra vita>>,
sarebbe bene SAPERE che genere di <<alleato>> esso sia, visto che, secondo
lui, <<il compito della mente consiste nel comprendere quale relazione istituire con esso e orientarsi di
conseguenza>>.
Ma nemmeno questo ci dice il nostro teologo (che d’ora in poi
meglio sarebbe chiamare: processocosmicologo).
Afferma che esso equivarrebbe a ciò che i cristiani chiamano “creazione”,
per cui <<lo ritengono provenire direttamente da Dio>>.
Come spiegazione non soddisfa affatto; se tale processo cosmico fosse la
stessa creazione di Dio, beh, riporre fiducia in esso significherebbe abbandonarsi
fiduciosamente ad una CREATURA, per giunta caduta dalla sua ORIGINARIA
BONTÀ:
certamente NON un buon <<alleato>>…
Ma Vito Mancuso è troppo emancipato e moderno per credere
ancora all’ORIGINARIA BONTÀ del creato ed alla sua successiva CADUTA,
originante la morte.
Egli considera <<la morte non un castigo a seguito
del peccato ma qualcosa di naturale, iscritta da sempre nella logica di questa
vita. A mio avviso accettarla è segno di sapienza e genera libertà. Noi siamo
qui grazie al lavoro e alla morte
di altri, e siamo chiamati a lavorare e a morire per l’esistenza di altri. Questa è la
logica che la vita ci consegna. Accettarla significa “rinnegare se
stessi”, per riprendere una nota espressione di Gesù, cioè non fare del proprio
ego il centro del mondo, bensì porlo al servizio di qualcosa di più grande. Di
cosa? Del processo cosmico>>.
Sembra un elogio del Mors tua vita mea…
Stante ciò, non gli/ci resta altro che l’accettazione nei
confronti della <<logica di questa vita>>: solo così l’uomo potrà
esser <<segno di sapienza>> e riconosciuto come libero.
Egli ci garantisce perciò che <<una matura adesione
alla vita>> comporti l’accettazione in toto del processo cosmico, a guisa
dell’amor fati di Nietzsche.
È curioso osservare come, per il nostro processocosmicologo,
la sofferenza sia una buona ragione per RIFIUTARE il Dio personale, invitandoci
al contempo ad ACCETTARE, in un abbandono fiduciale (!), la stessa <<logica
di questa vita>> ebbra di ogni genere di DOLORI e SOFFERENZE!
E
così, accettare questa <<logica>> significa nientepopodimeno
che <<“rinnegare se stessi”>>, ma NON per seguire Gesù _
sarebbe troppo poco moderno _, bensì per porci <<al servizio di
qualcosa di più grande. Di cosa? Del processo cosmico>>!
Egli
(si) domanda:
<<come
giudicare la morte e la sua presenza nel mondo? È qualcosa di naturale
all’interno della vita, oppure è una tragedia prodottasi dopo, e che nella vita
non avrebbe dovuto esserci? Per dirla in termini teologici: la morte è stata
prevista da Dio, oppure è giunta imprevista a seguito del peccato?>>
A ciò, egli non trova risposta nella <<spiritualità
cristiana>>, giacché ritiene che in essa <<due grandissime
figure quali san Paolo e san Francesco d’Assisi>> l’abbiano pensata
<<in modo opposto. Per Paolo le cose sono andate così: “A causa
di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte”, vi è
quindi un legame diretto tra peccato e morte, nel senso che se c’è la morte è
perché prima c’è stato il peccato, e infatti per Paolo la morte è un nemico:
“l’ultimo nemico”. Francesco invece nel Cantico delle creature definisce la
morte “sorella” e ne loda il Signore: “Laudato si, mi Signore, per sora nostra
Morte corporale, / da la quale nullo omo vivente po’ scampare”. Egli aggiunse
questa strofa in un secondo tempo, quando era quasi cieco e sentiva che stava
per morire, come di fatto poco dopo avvenne>>.
Vito Mancuso cerca contraddizioni ove non ve ne sono, ma non perché la
Bibbia non ne contenga, ma semplicemente perché in questo caso non sussistono.
San Paolo considera la morte in sé, quale NEMICO primordiale,
perché interrompe ogni relazione col mondo, con sé e soprattutto con Dio,
essendo essa sia morte corporale
che spirituale. In
questo senso il suo giudizio sulla morte non può che esser NEGATIVO.
San Francesco d’Assisi, invece, considera la <<nostra
Morte corporale>>
come SORELLA poiché essa è riferita a coloro che verranno trovati nella Grazia
di Dio e che perciò, grazie alla morte, TRANSITERANNO verso la definitiva comunione
con Cristo, così come Cristo, morendo, è resuscitato presso il Padre.
Egli però mette in guardia contro la possibilità della
<<morte seconda>>:
“Laudato si’ mio Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale
nullu homo po’ scampare: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati
quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, ka la MORTE SECUNDA no’l farrà
male.”
Dunque, mi pare del tutto evidente come tra san Paolo e san Francesco
NON vi sia alcuna OPPOSIZIONE, essendo i due punti di vista originati da due
ben differenti situazioni:
1)- san Paolo: la morte qual è IN SÉ, cioè come originaria negazione
di ogni rapporto;
2)- san Francesco: la morte corporale quale incontro
definitivo con Cristo.
Analogamente dicasi dove Vito Mancuso tenta di
nuovo di rinvenire
<<La
medesima contraddizione>> che a suo dire <<si ritrova nell’ebraismo:
il libro della Sapienza afferma che la morte non è stata voluta da Dio ma è
“entrata nel mondo per invidia del diavolo” e quindi è ontologicamente
malvagia, mentre il libro del Siracide la definisce “il decreto del Signore per
ogni uomo” considerandola ontologicamente buona. Mistero! Un libro biblico
dichiara la morte voluta dal diavolo, un altro voluta da Dio; un grande santo
parla della morte come “nemico”, un altro non meno grande come “sorella”. Quale
delle due prospettive privilegiare?>>
La concezione presente nel libro della Sapienza corrisponde
a quella di san Paolo;
quella presente nel Siracide è la seguente:
“O morte, come è amaro il tuo pensiero per l'uomo che vive sereno nella sua
agiatezza, per l'uomo senza assilli e fortunato in tutto, ancora in grado di
gustare il cibo! O morte, è gradita la tua sentenza all'uomo
indigente e privo di forze, vecchio decrepito e preoccupato di tutto, al
ribelle che ha perduto la pazienza! Non temere la sentenza della morte, ricòrdati
dei tuoi predecessori e successori. Questo è il decreto del Signore per ogni uomo; perché ribellarsi al volere
dell'Altissimo?”
Qui, è evidente come l’autore tenti di incoraggiare l’<<uomo
indigente e privo di forze, vecchio decrepito e preoccupato di tutto, al
ribelle che ha perduto la pazienza!>> a <<Non temere la
sentenza della morte>> giacché, rispetto ad essa, alcuni situazioni
esistenziali (che sono preludio alla morte!) arrecano ben più sofferenza della
morte stessa, per cui SOLO in questo senso la morte a certuni <<è gradita>>.
La morte è <<il decreto del Signore per ogni uomo>>
dacché peccò ab origine, <<decreto>> che perciò si
sarebbe realizzato SOLTANTO SE l’uomo avesse peccato, NON a prescindere da ciò!
Quindi, la morte, per quanto NEMICA universale, è pur sempre
sottoposta al Giudizio di Dio e non un qualcosa di definitivo e ad Egli
sottratta.
Roberto Fiaschi
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Ecco l’articolo completo:
<<Cosa diremo noi quando sarà il nostro momento? Cosa
diremo in quell’istante che a ragione è detto “fatale”, perché segnerà in modo
irrevocabile l’incontro con il supremo Fato?
Quali parole ci saliranno dal cuore di
fronte alla morte che vedremo arrivare? La notte del 28 febbraio scorso è toccato a papa Francesco arrivare in quella situazione e,
dall’intervista del Corriere della Sera al dottor Sergio
Alfieri, capo dell’équipe medica che lo aveva in cura, si è appreso che le
parole del Papa sono state le seguenti: «È brutto». Il medico ha
aggiunto che «chi gli era accanto aveva le lacrime agli occhi», a sottolineare
il tragico livello emotivo della situazione. Come si muore? Come vivremo la nostra morte? Queste
cupe parole del Papa ci possono insegnare qualcosa?
Penso
siano troppe le varianti in gioco: dipenderà dall’età, dal tipo di malattia che
ci starà consumando, se saremo soli o se qualcuno ci terrà per mano, dalla
nostra psiche se rassegnata oppure no, se capace di dire il supremo sì al Fato (come
Nietzsche desiderava: «Voglio soltanto essere, d’ora in poi, uno che dice sì!»)
o se resistente fino all’ultimo.
Di Kant si dice che morì mormorando «Es ist gut» (Va bene), ma non si sa se
si riferiva alla vita o alla quantità d’acqua che gli era stata versata. Lo
stesso vale per Goethe di cui raccontano che morì dicendo «Mehr Licht» (Più
luce), ma non si sa se si riferiva al desiderio di incontrare l’eterno o di
aprire un po’ di più le persiane. Ci sono grandi uomini che sono morti
serenamente e altri tragicamente, e tutto è come compendiato nelle ultime
parole di Gesù che per due vangeli furono di disperazione («Mio Dio, mio Dio,
perché mi hai abbandonato?») e per altri due di consolazione e addirittura di
vittoria («Padre nelle tue mani affido il mio spirito», «È compiuto»).
Ma
cosa vale di più? Dire sì alla morte che arriva, oppure dirle no? Un sì
obbediente espressione dell’Amor Fati, oppure un no testardo espressione
dell’Amor Vitae? Un sì che dice “fiat voluntas tua” e si lascia andare, oppure
un no che si aggrappa alla vita e continua a esistere?
Io
non so rispondere se non con un laconico “dipende”. È così imponderabile la questione,
così soggettivamente determinata. Immagino però che molto dipenda dal pensiero
che si coltiva su ciò che arriva con l’arrivo della morte. Quando arriva la
morte, cosa arriva con essa? Il nulla, oppure Dio? La fine di tutto, oppure la
vita senza fine? Seconda questione: come giudicare la morte e la sua presenza
nel mondo? È qualcosa di naturale all’interno della vita, oppure è una tragedia
prodottasi dopo, e che nella vita non avrebbe dovuto esserci? Per dirla in
termini teologici: la morte è stata prevista da Dio, oppure è giunta imprevista
a seguito del peccato?
La
storia della spiritualità cristiana non aiuta nella risposta perché due grandissime
figure quali san Paolo e san Francesco d’Assisi la pensano in modo
opposto. Per Paolo le cose sono andate così: “A causa di un solo uomo il
peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte”, vi è quindi un legame
diretto tra peccato e morte, nel senso che se c’è la morte è perché prima c’è
stato il peccato, e infatti per Paolo la morte è un nemico: “l’ultimo nemico”.
Francesco
invece nel Cantico delle creature definisce la morte “sorella” e ne loda il
Signore: “Laudato si, mi Signore, per sora nostra Morte corporale, / da la
quale nullo omo vivente po’ scampare”. Egli aggiunse questa strofa in un
secondo tempo, quando era quasi cieco e sentiva che stava per morire, come di
fatto poco dopo avvenne.
La
medesima contraddizione si ritrova nell’ebraismo: il libro della Sapienza
afferma che la morte non è stata voluta da Dio ma è “entrata nel mondo per
invidia del diavolo” e quindi è ontologicamente malvagia, mentre il libro del
Siracide la definisce “il decreto del Signore per ogni uomo” considerandola
ontologicamente buona. Mistero! Un libro biblico dichiara la morte voluta
dal diavolo, un altro voluta da Dio; un grande santo parla della morte come
“nemico”, un altro non meno grande come “sorella”. Quale delle due
prospettive privilegiare?
Ognuno
deve vedersela con sé, con la propria coscienza e soprattutto con la propria
esistenza. Per quanto mi riguarda, io sto con san Francesco e con il Siracide.
Considero cioè la morte non un castigo a seguito del peccato ma qualcosa di naturale,
iscritta da sempre nella logica di questa vita. A mio avviso accettarla è segno
di sapienza e genera libertà. Noi siamo qui grazie al lavoro e alla morte di
altri, e siamo chiamati a lavorare e a morire per l’esistenza di altri. Questa
è la logica che la vita ci consegna. Accettarla
significa “rinnegare se stessi”, per riprendere una nota espressione di Gesù,
cioè non fare del proprio ego il centro del mondo, bensì porlo al servizio di
qualcosa di più grande. Di cosa? Del processo cosmico.
I
cristiani lo chiamano “creazione” e lo ritengono provenire direttamente da Dio,
idea condivisa da ebrei e musulmani; altri lo chiamano in altro modo
attribuendogli un’altra origine arrivando a sostenere, come Spinoza, che esso
coincide con la perfezione dell’essere e che quindi tra Dio e Natura non vi è
differenza: “Deus sive Natura”. Quello che è certo è che il processo cosmico
contiene tutti: monoteisti, panteisti, agnostici, atei, e il compito della
mente consiste nel comprendere quale relazione istituire con esso e orientarsi
di conseguenza. Il processo cosmico che ci ha generati e che inevitabilmente ci
condurrà alla de-generazione è un nemico o un alleato della nostra vita? Considerarlo alleato significa
accettarlo per quello che è, presenza della morte compresa, e questo, a mio
avviso, è una matura adesione alla vita.
Naturalmente
tutto questo non implica affatto che non si debba lottare per rimanere in vita,
coltivando la forza più primordiale che è in noi cioè l’istinto di
sopravvivenza. Sempre di fronte a una malattia si deve voler guarire e aiutare
a guarire. I medici sono chiamati a fare questo e questo devono fare i malati,
perché la vita la si onora anzitutto vivendo, oltre al fatto che questo mondo è
bellissimo e viverci è una meraviglia di cui ogni giorno dovremmo prendere
consapevolezza con una gioia profonda e riconoscente verso il processo cosmico
(in qualunque modo lo si consideri e lo si chiami).
Concludo
con tre citazioni. La
prima è di Montaigne: «La meditazione della morte è meditazione della libertà;
chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire; il saper morire ci affranca
da ogni soggezione e costrizione». La seconda è di Norberto Bobbio:
«Prendere sul serio la vita vuol dire accettare fermamente, rigorosamente, il
più serenamente possibile, la sua finitezza». La terza è la più antica,
consiste nelle bellissime parole finali dell’Ave Maria, ripetute chissà quanti
milioni di volte nella storia del mondo: «Adesso e nell’ora della nostra
morte». Nunc et in hora mortis nostrae. Perché si è sentito e si sente il
bisogno di pregare la Madonna che preghi per noi nell’ora della nostra morte?
Perché in quell’occasione tutte le nostre idee filosofiche e teologiche possono
crollare e ci si ritrova da soli, spaventati, di fronte al buio della fine. Questo
è possibile, reale, umanissimo, e per questo si prega la Madre di Dio che
preghi per noi. Perché papa Francesco ha detto «è brutto»? Non ne ho idea, ma
di certo credo che gli abbia giovato moltissimo quanto affermato dal dottor
Alfieri a proposito della sua resistenza: «Penso che a questo abbia contribuito
anche il fatto che tutto il mondo pregava per lui». La preghiera dell’Ave Maria
si conclude dicendo “Amen”, espressione ebraica che vuol dire “Così sia”, a
significare quel sì che Nietzsche avrebbe voluto essere rispetto al processo
cosmico: «Voglio soltanto essere, d’ora in poi, uno che dice sì!». Il che
significa che l’abbandono fiducioso al processo cosmico prescinde dal credere o
non credere in Dio, e riguarda quelli che un tempo si denominavano “uomini di
buona volontà”>>. (Vito Mancuso, La
Stampa 26 marzo 2025).
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