Riporto un estratto dal testo del prof. Aldo Stella, gentilmente trasmessomi dal suo allievo Marco Cavaioni (le parentesi quadre sono di quest’ultimo) https://series.morlacchilibri.com/.../riflessioniteoretiche:
<<L’assoluto è il valore che non può venire ridotto
a funzione, per la ragione che la funzione lo disporrebbe in relazione ad altro
da sé, laddove il valore configura proprio la negazione di questo altro.
Il valore dell’assoluto, pertanto, non può non
(innegabilmente, necessariamente) sottrarsi alla riduzione a funzione
[riferimento, relazione, ergo distinzione, dualità - ndr].
Questo costituisce il nodo teoretico [...] per lo meno se si
esamina la questione intendendo porsi dal punto di vista dell’assoluto medesimo
[che è il solo punto di vista vero e,
quindi, non è un "punto di vista, "uno" tra più d'uno - ndr].
Ora, riteniamo importante apportare una precisazione al discorso
svolto, affinché risulti chiara la ragione per la quale non si può evitare di
parlare di funzione dell’assoluto [si tratta della dialettica tra questa
"inevitabile" funzione e la "innegabilità" del valore
dell'assoluto, che opera nell'inevitabile semplicemente essendo tale - ndr].
Se, infatti, l’intenzione di chi
si
volge all’assoluto è porsi dal punto di vista dell’assoluto stesso, tuttavia
non si può non rilevare che, nel riferirsi all’assoluto, di fatto
[inevitabilmente - ndr] si postula [si presuppone: si parte dal presupposto o
“iniziale” proprio perché si inizia, ma “iniziale” non coincide con l'autentico
“originario”, appunto l'innegabile, l'assoluto: da esso non si comincia né, a
rigore, ad esso si perviene mai di fatto - ndr] come essente proprio
quell’altro da esso che l'assoluto non può non escludere, ma che il riferimento
(la relazione) non può non implicare.
Che è come dire: l’intenzione di coincidere con l’assoluto è
innegabile; il fatto di “riferirsi” ad esso a muovere dall’altro da esso è
inevitabile, sì che l’universo empirico-fattuale risulta innegabilmente
inevitabile [innegabilmente
solo presupposto da cui si inizia, per il fatto stesso di non poter non
inevitabilmente iniziare - ndr].
L’inevitabile, quindi, indica l’impossibilità stessa di
prescindere dai fatti (dalle determinazioni), una volta che si presupponga il
porsi di quel soggetto empirico che è tale proprio perché
è frontale e reciproco ad essi.
Innegabile, invece, è la necessità che tale soggetto empirico
e il campo del suo disporsi vadano oltre la loro esistenza determinata, poiché
l’esistente (l’ente, la determinazione) non può non intendere di essere
veramente; dunque, non può non intendere di pervenire a quel vero
[intenzionalmente ossia idealmente è già da sempre uno con esso, fattualmente
mai], che è l’essere stesso (l’assoluto): l’intenzione, infatti, è la sua
autentica essenza ontologica.
Nel caso dell’assoluto, ci sembra preferibile parlare di
“funzione indiretta”, poiché essa non è svolta, appunto, nel senso che l’assoluto
entra in relazione con ciò su cui svolge la sua funzione, dal momento che, al
contrario, esso svolge la sua funzione precisamente per il suo non entrare in
relazione con altro da sé. L’assoluto svolge, infatti, la sua funzione in
conseguenza del suo essere ciò che è, cioè del suo valore, che lo sottrae ad
ogni vincolo.
E tale funzione esprime l’effetto
che
l’assoluto ha sul relativo (condizionato), una volta che il relativo sia stato
presupposto.
Orbene, come abbiamo detto, tale “effetto” non può venire
inteso nel senso della funzione del fondare, stante che il fondamento assoluto
non legittima affatto l’universo dei determinati. Al contrario, l’“effetto”
deve venire inteso nel senso dello smascheramento: l’assoluto, si potrebbe
anche dire, svolge la funzione del fondare non nel senso che pone
le
determinazioni, ma nel senso che, invece, nega la loro effettiva posizione, dal
momento che si tratta di una mera presupposizione.
Precisamente per questa ragione, parliamo di funzione
de-assolutizzante o relativizzante o critica. [...]
A quanto abbiamo detto si deve aggiungere anche un’altra
precisazione. Se si pretendesse che l’assoluto svolga la funzione che il finito
gli richiede, e che consisterebbe nel legittimare il determinato così come
questo si presenta, allora ci si troverebbe nella seguente situazione:
l'assoluto verrebbe incluso in quella presunta relazione
legittimante che non soltanto lo vincolerebbe al finito, ma inoltre
decreterebbe la sua stessa finitezza.
In tal modo, l’assoluto verrebbe negato nella sua assolutezza
e, dunque, nel suo valore, così che perderebbe eo ipso la sua funzione
autenticamente legittimante, che è la funzione de-assolutizzante, volta a
ricondurre il finito alla sua vera natura. [...]
Con il seguente approdo, che è di primaria importanza: è in
virtù dell'essere incondizionato (il vero essere) che il condizionato cessa di
pretendere di valere come assoluto, cioè come vero essere. [...]
Tale pretesa, smascherata dall’atto [la coscienza
trascendentale - ndr] che trascende il finito, diventa poi [ecco, di nuovo,
l'intreccio dialettico tra le “due” dimensioni o livelli - ndr] inevitabilmente
contenuto della coscienza empirica, e per questa ragione può venire detta, ma
il contenuto non può venire confuso con ciò in virtù di cui (l’atto
condizionato dall’incondizionato) si pone in quanto contenuto determinato.
Sia la funzione sia la mediazione [della coscienza
trascendentale - ndr], dunque, sono il modo finito, cioè inevitabile, di
indicare l’assoluto, che invece è innegabile: l’innegabile stesso.
Funzione e mediazione costituiscono, pertanto, il fungere e
l'operare l'innegabile nell’inevitabile, nonostante che, dal punto di vista
l'innegabile, quest’ultimo non entri in rapporto con l’inevitabile né si
sottragga ad esso, stante che per l’innegabile c’è solo l’innegabile>>. – A. Stella,
Riflessioni teoretiche, Morlacchi 2023, pp. 33-37.
------
1)
Il mio intento è mostrare come l’assoluto-UNO-parmenideo-eckhartiano
(quello a cui si rifanno il prof. Aldo Stella e Marco Cavaioni) NON riesca ad essere
puramente UNO-senza-distinzioni bensì intrinsecamente DISTINTO/DIFFERENTE (NB:
non però distinto alla maniera severiniana, che postula un’unità dei distinti
ma non un vero UNO-indistinto), senza che ciò infranga minimamente la
sua assolutezza o il suo esser UNO-senza-distinzioni (ma quest’ultimo aspetto
non verrà trattato qui). Quindi, di passaggio in passaggio cercherò di
evidenziare la presenza della DISTINZIONE-NON-PRESUPPOSTA ma realmente POSTA in
seno all’UNO.
Esso non riesce a costituirsi come UNO-senza-distinzioni perché
la contraddittorietà della presenza in esso della distinzione è tale in forza del
principio di non-contraddizione ( = PdNC) secondo cui, se l’assoluto avesse
intrinseche (nonché esterne) distinzioni, cesserebbe di essere assoluto poiché
si ridurrebbe a PARTE quindi in RELAZIONE con quell’altra PARTE cui è <<quell’altro da esso>>,
minando ( = contraddicendo) così l’interezza dell’UNO.
Questa è la contraddizione indicata da Aldo Stella/Marco Cavaioni che li conduce, perciò, a relegare la differenza/relazione
al rango di mero PRESUPPOSTO.
Ed è il PdNC a sancire che la parte, DIFFERENDO dall’intero o
dall’assoluto, venga da quest’ultimo ESCLUSA/NEGATA, come d’altronde esplicita la
seguente affermazione di Stella:
<<si postula come essente proprio quell’altro da
esso che l'assoluto
non
può non ESCLUDERE>> (maiuscolo mio:
RF).
Ciò, però, conduce a quell’altra contraddizione (RESPINTA da
Aldo Stella/Marco Cavaioni) secondo la quale anche l’UNO-senza-distinzioni
debba SOGGIACERE al nomos del PdNC anziché sottrarvisi.
Notare come sia l’UNO stesso ad essere giudicato dal PdNC e
non già il linguaggio mediante cui lo diciamo, perché è proprio l’UNO a non
poter <<non ESCLUDERE>> <<quell’altro>> da
sé cui è la parte.
Pertanto, contrariamente alle intenzioni di Aldo
Stella/Marco Cavaioni, affermare che <<l'assoluto
non
può non ESCLUDERE>>, equivale e dire che l’assoluto non può non
DIFFERIRE-NON-PRESUPPOSITIVAMENTE da <<quell’altro>> da sé
che esso ha NEGATO/ESCLUSO.
Il tentativo di preservare l’UNO dalla presenza in esso della
(PRESUNTA contraddittoria) differenza la quale, perciò, viene da Stella ESCLUSA in nome del
PdNC, sortisce l’effetto contrario, consistente nel reintrodurre quella
differenza che si voleva escludere/negare ritenendola mera presupposizione, poiché
dire esclusione/negazione equivale a dire DIFFERENZA-NON-PRESUPPOSITIVA.
2)
Analogamente dicasi per altri passaggi dell’ottimo articolo del
prof. Stella:
<<L’assoluto
è il valore che non può venire ridotto a funzione, per la ragione che la
funzione lo disporrebbe in relazione ad altro da sé, laddove il valore
configura proprio la negazione di questo altro. Il valore dell’assoluto,
pertanto, non può non (innegabilmente, necessariamente) sottrarsi alla
riduzione a funzione [riferimento, relazione, ergo distinzione, dualità - ndr]>>.
Anche qui, paradossalmente questa tesi comporta la
riaffermazione di ciò ( = la differenza, il riferimento, la relazione) che
voleva negare.
Che il valore configuri <<proprio la negazione di questo altro>>,
importa che il valore, negando <<questo altro>>, lo ESCLUDA
da sé conformemente al dettato del PdNC, implicando, perciò, la DIFFERENZA
sostanziale (nonché la RELAZIONE) tra il <<valore>> cioè
l’assoluto, e la <<funzione>>, ossia il disporsi <<in
relazione ad altro
da sé>> da parte dell’assoluto.
3)
Senonché, leggiamo che <<quell’altro>> da
sé (cioè <<l’intenzione di chi si
volge all’assoluto>>)
è soltanto POSTULATO ( = PRESUPPOSTO) <<come
essente>>, sottintendendo che NON sia mai stato reale:
<<Ora, riteniamo importante apportare una
precisazione al discorso svolto, affinché risulti chiara la ragione per la
quale non si può evitare di parlare di funzione
dell’assoluto
[…].
Se, infatti, l’intenzione di chi si volge all’assoluto è
porsi dal punto di vista dell’assoluto stesso, tuttavia non si può non rilevare
che, nel riferirsi all’assoluto, di fatto
[inevitabilmente - ndr] si postula [si presuppone] come essente proprio quell’altro
da esso che l'assoluto non può non escludere, ma che il riferimento (la
relazione) non può non implicare. Che è come dire: l’intenzione di coincidere
con
l’assoluto è innegabile; il fatto di “riferirsi” ad esso a muovere dall’altro
da esso è inevitabile, sì che l’universo empirico-fattuale risulta
innegabilmente inevitabile [innegabilmente solo
presupposto da cui si inizia, per il fatto
stesso di non poter non inevitabilmente iniziare - ndr]. L’inevitabile, quindi,
indica l’impossibilità stessa di prescindere dai fatti (dalle determinazioni),
una volta che si presupponga il porsi di quel soggetto empirico
che è
tale proprio perché è frontale e reciproco ad essi>>.
Dunque, il soggetto empirico quale PRESUPPOSTO <<inevitabile>>,
la cui inevitabilità è <<l’impossibilità stessa di prescindere dai
fatti (dalle determinazioni)>>.
Questa <<impossibilità stessa di prescindere dai fatti (dalle
determinazioni)>> è anch’essa solo PRESUPPOSTA?
Se lo fosse, NON sarebbe una reale impossibilità, poiché il PRESUPPOSTO è
lo stesso impossibile, il mai posto (sempre secondo Aldo Stella/Marco Cavaioni), per cui nemmeno
tale <<impossibilità>> sarebbe mai stata reale, posta.
Se invece riteniamo che quell’impossibilità sia reale/posta, allora
quei <<fatti>>, quelle <<determinazioni>>,
essendo imprescindibili, NON possono esser ritenuti PRESUPPOSTI, giacché la
loro impossibile
prescindibilità li PONE realmente cioè differentemente dal PRESUPPOSTO il quale
_ sempre secondo Marco Cavaioni _ è invece posto
ed al contempo NON È (MAI) POSTO: esso è il NON-REALE…
E se <<il valore>> cioè l’UNO <<configura
proprio la negazione
di questo altro>> cioè del PRESUPPOSTO, non potrà però negare che <<questo
altro>> sul quale si esercita la negazione sia appunto altro
( = DIFFERENTE) dall’assoluto, altrimenti NON lo negherebbe in quanto non vi
sarebbe niente da negare e perciò sarebbe, tale altro, esso stesso
non-PRESUPPOSTO. Ciò vuol dire che l’assoluto <<configura la negazione di questo altro>>
implicandone perciò la presenza come altro/DISTINTO dall’assoluto,
implicando cioè il proprio NON riuscire ad essere
l’UNO-senza-distinzioni.
4)
Stella:
<<Innegabile, invece, è la necessità che tale
soggetto empirico e il campo del suo disporsi vadano
oltre
la
loro esistenza determinata, poiché l’esistente (l’ente, la determinazione) non
può non intendere di essere veramente; dunque, non può non intendere di
pervenire a quel vero [intenzionalmente ossia idealmente è già da sempre uno
con esso, fattualmente mai], che è l’essere stesso (l’assoluto)>>.
Qui, l’andare <<oltre la loro esistenza determinata>>
che cosa vuol dire, se non che <<tale soggetto empirico e il campo del
suo disporsi>> debbano DIFFERENZIARSI da ciò che sono, per <<pervenire a
quel vero […], che è l’essere stesso (l’assoluto)>>?
E la stessa <<loro esistenza determinata>>
che cos’è, se non il DIFFERIRE
NON-PRESUPPOSTO dall’indeterminatezza spettante all’<<essere
stesso (l’assoluto)>>?
5)
Stella:
<<Nel caso dell’assoluto, ci sembra
preferibile parlare di “funzione indiretta”, poiché essa non è svolta, appunto,
nel senso che l’assoluto entra in relazione con ciò su cui svolge la sua
funzione, dal momento che, al contrario, esso svolge la sua funzione
precisamente per il suo non entrare in relazione con altro da sé. L’assoluto
svolge, infatti, la sua funzione in conseguenza del suo essere ciò che è, cioè
del suo valore, che lo sottrae ad ogni vincolo. E tale funzione esprime
l’effetto che l’assoluto ha sul
relativo (condizionato), una volta che il relativo sia stato presupposto>>.
Come visto al punto 2, l’assoluto, non potendo, in quanto
valore, << venire ridotto a funzione, per la ragione che la funzione
lo disporrebbe in relazione ad altro da sé, laddove il valore configura proprio
la negazione di questo altro>>, può però esser considerato in qualità
di <<“funzione indiretta”>>.
Quindi l’assoluto, al fine di preservarlo dalla RELAZIONE (nonché
dalla DIFFERENZA) con il relativo ( = le determinazioni), la quale comporterebbe
in esso una intrinseca contraddittoria DISTINZIONE, esercita pur tuttavia un
<<“effetto”>> <<sul relativo (condizionato)>>.
E, sempre al fine di preservare l’UNO dalla RELAZIONE con il
relativo, l’<<“effetto”>> della <<“funzione
indiretta”>> dell’assoluto <<non può venire inteso nel senso
della funzione del fondare, stante che il fondamento assoluto non legittima
affatto l’universo dei determinati. Al contrario, l’“effetto” deve venire
inteso nel senso dello smascheramento: l’assoluto, si potrebbe anche dire,
svolge la funzione del fondare non nel senso che
pone
le
determinazioni, ma nel senso che, invece, nega la loro effettiva posizione, dal
momento che si tratta di una mera presupposizione>>.
È tutto chiaro.
L’assoluto NON fonda né legittima bensì SMASCHERA/NEGA
l’<<effettiva posizione>> delle determinazioni, relegandola a
<<mera presupposizione>>.
Ma allora COME SI SPIEGA la pur evidente presenza di tale <<mera
presupposizione>> da smascherare?
DA DOVE deriva?
PERCHÉ appare qualcosa come una <<mera
presupposizione>>?
Per poterla smascherare, tale <<mera
presupposizione>> deve infatti APPARIRE.
Quindi DA
DOVE arriva e PERCHÉ vi è <<l’universo
dei determinati>>?
Poiché l’UNO/l’assoluto NON fonda NÉ pone <<l’universo
dei determinati>> (pena il suo RELAZIONARSI ad esso), quest’ultimo è
una presenza la cui DIFFERENZA
dall’assoluto ci si illude di ritenerla nulla o meramente presupposta, affermando
appunto l’equivalenza tra nullità e <<mera presupposizione>>,
senza però accorgersi che tale <<smascheramento>> comporta
comunque la NON-PRESUPPOSTA DIFFERENZA tra l’ESSER-POSTA e il NON-ESSERE-MAI-STATA-POSTA,
perché se anche tale differenza fosse <<mera presupposizione>>,
allora l’ESSER-POSTA
e il NON-ESSERE-MAI-STATA-POSTA sarebbero
indistinguibili e lo smascheramento fallirebbe.
Lo stesso dicasi per la NON-PRESUPPOSTA DIFFERENZA tra
FONDARE i determinati e NEGARLI…
Poi leggiamo:
<<una volta che il relativo sia stato presupposto>>;
sì, ma DA CHI?
Dall’intelletto
anch’esso meramente presupposto?
E allora DONDE tale intelletto?
PERCHÉ vi è un momento (eterno o
cominciato che sia) in cui il relativo viene presupposto?
Forse, che le determinazioni siano presupposte dalla stessa
<<“funzione indiretta”>> dell’assoluto il quale <<nega
la loro effettiva posizione, dal momento che si tratta di una mera
presupposizione>>?
Se sì, come non vedere, allora, la posizione della DISTINZIONE
NON-PRESUPPOSTA senza la quale l’assoluto NON potrebbe negare l’<<effettiva
posizione>> dei meramente presupposti?
6)
<<Sottolineo>> _ scrive Marco Cavaioni _ <<che
la stessa dualità
dei livelli sussiste […] solo per il livello dell'inevitabile>>,
che chiamerò L2.
E prosegue: <<Potremmo dire, in estrema sintesi e
spero senza tradire il discorso di Stella: a livello dell'inevitabile la
dualità dei livelli è posta, mentre a livello dell'innegabile [che chiamerò
L1] essa è radicalmente e originariamente tolta ( = mai stata). Sicché, poi
– ed è questa la funzione dell'innegabile nell'inevitabile – quella “posizione”
(“posizione” nella prospettiva dell'inevitabile) della dualità o distinzione
viene smascherata, in forza dell'innegabile, come meramente "presupposta”,
e presupposto si rivela l'inevitabile come tale, del resto>>.
Sarà davvero sostenibile questo discorso?
Direi di no: la DIFFERENZA sussiste (è saputa) anche dal
punto di vista di L1.
Infatti, L1 almeno questo non può non SAPERE/VEDERE:
che L2 sia <<interamente presupposto>>, e lo SA grazie a sé stesso,
a ciò che esso è e quindi al suo “effetto”.
Se L1 non lo SAPESSE/VEDESSE, allora NON eserciterebbe
quell’“effetto” derivantegli dal suo essere <<“funzione
indiretta”>>, “effetto” teso a SMASCHERARE/NEGARE/ESCLUDERE/TOGLIERE
l’<<effettiva posizione>> dell’<<l’universo dei
determinati>>:
<<l’“effetto” deve venire inteso nel senso dello smascheramento:
l’assoluto, si potrebbe anche dire, svolge la funzione del fondare non nel senso che
pone
le
determinazioni, ma nel senso che, invece, nega la loro effettiva posizione, dal momento che
si tratta di una mera presupposizione>> (A. Stella).
Quindi, lo smascheramento/negazione di L2 non comporta
pur sempre una RELAZIONE/DIFFERENZA NON-PRESUPPOSTA con il negato/smascherato
da parte di L1?
Direi proprio di sì, altrimenti L1 smaschererebbe SOLO
PRESUPPOSITIVAMENTE!
Per cui la DISTINZIONE o <<la dualità dei livelli>> tra L1 e L2 è tale
NON-PRESUPPOSITIVAMENTE anche (e soprattutto) per L1.
Non solo, ma si osservi nuovamente ove Marco Cavaioni ha scritto:
<<a livello dell'inevitabile [L2] la dualità dei livelli è posta,
mentre a livello dell'innegabile [L1] essa è radicalmente e
originariamente tolta ( = mai stata). Sicché, poi – ed è questa la funzione
dell'innegabile nell'inevitabile – quella “posizione” (“posizione” nella
prospettiva dell'inevitabile) della dualità o distinzione viene smascherata, in
forza dell'innegabile [L1], come meramente "presupposta”, e
presupposto si rivela l'inevitabile [L2] come tale, del resto>>.
Quindi, la dualità dei livelli, per L1, <<è radicalmente e originariamente tolta ( = mai stata)>>; L2 è, infatti, <<meramente
"presupposta”>>.
Ma che bisogno c’è di smascherare ciò che NON È MAI
STATO?
Che bisogno c’è di smascherare una DISTINZIONE che NON
C’È MAI STATA?
Sarebbe stato smascheramento-di-niente: un NON-smascheramento.
A ciò si replicherà:
L1 smaschera ciò che per/in L2 è considerato realtà
senza esserlo, L2 incluso.
Senonché, per esser smascherato, L2 deve innanzitutto almeno
APPARIRE, esser noto, saputo, creduto, preteso…
Quindi, DA
DOVE arriva
questo suo APPARIRE/esser noto/saputo/creduto/preteso?
Si potrebbe rispondere:
L2 appare soltanto presuppositivamente.
Ma allora DA DOVE
proviene la presuppositività
dell’apparire?
E qui NON è più possibile procedere oltre rispondendo nuovamente
con la presuppositività,
ma si deve prendere atto che essa appare NON-PRESUPPOSITIVAMENTE e, con essa,
appare NON-PRESUPPOSITIVAMENTE anche la DIFFERENZA tra essa (L2) e L1…
7)
Infine ancora Stella:
<<è in virtù dell'essere
incondizionato (il vero essere)>> cioè di L1 <<che il condizionato
[L2] cessa di pretendere di valere come assoluto, cioè come vero essere.
[...] Tale pretesa, smascherata dall’atto [la coscienza trascendentale - ndr]
che trascende il finito, diventa poi [ecco, di nuovo, l'intreccio dialettico tra
le “due” dimensioni o livelli - ndr] inevitabilmente contenuto della coscienza
empirica, e per questa ragione può venire detta, ma il contenuto non può venire
confuso con ciò in virtù di cui (l’atto condizionato dall’incondizionato) si
pone in quanto contenuto determinato. Sia
la funzione sia la mediazione [della coscienza trascendentale - ndr], dunque,
sono il modo finito, cioè inevitabile, di indicare l’assoluto, che invece è
innegabile: l’innegabile stesso. Funzione e mediazione costituiscono, pertanto,
il fungere e l'operare l'innegabile nell’inevitabile, nonostante che, dal punto
di vista l'innegabile, quest’ultimo non entri in rapporto con l’inevitabile né
si sottragga ad esso, stante che per l’innegabile c’è solo l’innegabile>>.
Se l’<<intreccio dialettico>> tra L1 e L2
è REALE ed INNEGABILE come è REALE ed INNEGABILE L1, allora la DISTINZIONE
tra L1 e L2 NON
può essere fittizia, presupposta, ma REALE quanto L1.
D’altronde che cos’è l’<<intreccio dialettico>>, se non la
RELAZIONE dialettica
tra reali DIFFERENTI?
Esso non potrebbe certo esser l’inconcepibile intreccio
tra il <<solo>>
REALE L1 e il non-mai-stato-reale
(L2)!
Se invece tale intreccio fosse solo PRESUPPOSTO tanto
quanto lo è L2, allora non si vede come <<l'intreccio dialettico tra
le “due” dimensioni o livelli>> possa andare oltre la semplice
parvenza di realtà, ritrovandosi anch’esso ad esser perciò <<meramente
presupposto>>.
In tal modo cadrebbe tutto il discorso incentrato sulla
<<pretesa di valere come assoluto>> da parte di L2 che diventerebbe
<<poi inevitabilmente contenuto della coscienza empirica>>
quale <<modo finito, cioè inevitabile, di indicare l’assoluto>>.
Stella avverte che <<il contenuto [ = della
coscienza empirica] non può venire confuso con ciò in virtù di cui (l’atto
condizionato dall’incondizionato) si pone in quanto contenuto determinato>>.
L’attenzione sul <<non può venire confuso>> implica il dovere di mantenere
ben ferma la DIFFERENZA
tra <<il contenuto>> e <<l’atto condizionato
dall’incondizionato>> mediante cui <<si pone>> _ si PONE!!! _ il contenuto determinato
che per Stella e Marco Cavaioni NON È MAI (STATO) POSTO…
Daccapo, si ripresenta l’ulteriore impossibilità di disfarsi,
in seno all’UNO, della DIFFERENZA
non-presuppositivamente considerata…
Roberto Fiaschi
---------------------

Nessun commento:
Posta un commento