martedì 31 gennaio 2023

12)- IRRISOLVIBILITÀ DELL’APORIA DEL NULLA



Ogni ente è identico a sé e differente dal proprio altro, sia, quest’ultimo, un altro ente o il nihil absolutum: questo è un punto basilare della filosofia di Emanuele Severino.

Siamo d’accordo.

Dunque, ogni ente è identico a sé, tranne il nihil absolutum, naturalmente, giacché non è un ente.

Per cui, non essendo un ente, il nihil absolutum è la negazione dell’esser identico a sé e differente dal proprio altro; se fosse identico a sé e differente dal proprio altro, sarebbe anch’esso un ente, in quanto condividerebbe la medesima ‘legge’ dell’identità con sé e differenza dal proprio altro valevole per ogni ente.

Come osserva uno studioso (A. S.) di Severino: <<solo ciò che esiste può essere identico a sé (ciò che non esiste in alcun modo in che modo potrebbe essere identico a sé? L'identità è una proprietà di ciò che è ed esiste, non del "nulla". Ciò che è ritenuto inesistente non può avere alcuna proprietà, neanche quella di essere identico a sé)>>. (Brano tratto dal WEB).

Passiamo ora a Severino: <<che il nulla sia “significante” non significa che il nulla esplichi una certa forma di attività, quale appunto sarebbe il significare. Il significare del nulla non appartiene al nulla, perché il nulla non è un essente a cui questo significare o qualsiasi altra proprietà o attività possano appartenere. Il significare del nulla, in quanto il significare è positività (e anzi è la positività stessa, lo stesso esser essente), appartiene cioè all’essente, e propriamente alla totalità dell’essente in quanto essa appare, nella struttura originaria della verità, come ciò di cui il nulla è nulla>>.

(Severino: Intorno al senso del nulla. Adelphi, pag. 112).    

Va premesso che in Severino <<Ogni significato è una sintesi semantica tra la positività del significare e il contenuto determinato [qui, nel nostro caso, tale contenuto è il nihil absolutum] del positivo significare>> - (Severino: La struttura originaria; pag. 213).

Quindi, il nihil absolutum è momento in sintesi con l’altro momento cui è il suo essere o positivo significare, sintesi concorrente a formare il significato concreto nulla quale significato contraddicentesi, in quanto entrambi i momenti _ attenzione _ sono significanti incontraddittoriamente ciò che intendono significare, nel senso che il nihil absolutum significa incontraddittoriamente soltanto nihil absolutum ed il suo positivo significare significa incontraddittoriamente positivo significare, sempre secondo Severino.

Senonché, il significare incontraddittoriamente da parte di qualsiasi ente/significato comporta la propria identità con sé nonché il proprio differire da altro, perciò anche il nihil absolutum, differendo dall’essere, è una identità con sé, altrimenti esso (quale momento della sintesi cui è il significato autocontraddicentesi nulla) non significherebbe neppure nihil absolutum e perciò non potrebbe neppure venir posto come contraddicente (come differente da) il suo positivo significare.

Ora, se il nihil absolutum non fosse <<un essente a cui questo significare [ = appunto come il nihil absolutum] o qualsiasi altra proprietà o attività possano appartenere>>, e cioè se l’identità fosse <<una proprietà di ciò che è ed esiste, non del "nulla">>, cosicché il nihil absolutum non possa <<avere alcuna proprietà, neanche quella di essere identico a sé>>, allora il nulla NON potrebbe neppure venir considerato come <<il significato in cui è posto soltanto l’assolutamente altro da ogni essere e quindi anche da quell’essere che è l’essere del nulla come momento>>, giacché per significare come <<l’assolutamente altro da ogni essere>>, cioè per differire <<da ogni essere>>, il nihil absolutum deve innanzitutto significare, ripeterei, la propria identità con sé consistente nell’esser <<il significato [identico a sé] in cui è posto soltanto l’assolutamente altro da ogni essere>>, giacché esso non significa: il significato in cui NON è posto l’assolutamente altro da ogni essere>>.

D’altronde, è lo stesso Severino a confermare l’identità con sé del nihil absolutum: <<Rispetto alla tesi della Struttura originaria che il ‘nulla’ è la sintesi del significato ‘nulla’ [nihil absolutum] e del positivo significare di tale significato (dove ‘nulla’ [nihil absolutum] significa ‘nulla’ [cioè è identico a sé in quanto significa nihil absolutum] e non ‘essere’) [etc…]>>.

(Severino, tratto da Marco Simionato: Nulla e negazione (Prefazione di E. Severino), Plus edizioni. Pisa 2011).

Infatti, per il filosofo bresciano, <<porre un significato equivale a porre una certa positività [ = una certa identità con sé], o una certa determinazione del positivo, dell’essere>>.

Il che vuol dire che anche il nihil absolutum, differendo, deve ubbidire alla legge ontologica cui ogni ente sottostà, o cui ogni ente è; legge consistente nell’identità con sé e differenza dal proprio altro.

Se infatti il nihil absolutum NON fosse identico a sé, non differirebbe neppure dall’essere, cioè non sarebbe neppure <<l’assolutamente altro [ = differente] da ogni essere>>.

Se non differisse dal proprio altro, il nihil absolutum sarebbe indistinguibile da, o identico all’essere, appunto perché non vi differirebbe.

Anche la precisazione secondo la quale <<la distinzione tra il significante [il positivo significare] e il non significante [il nihil absolutum] è la stessa distinzione tra l’essere e il niente>> (Severino: Essenza del nichilismo), comporta che il <<non significante>> sia pur sempre una forma del significare, giacché il <<non significante>> significa come il <<non significante>>, per cui il <<non significante>> è intelligibile, quindi è <<una certa positività, o una certa determinazione del positivo, dell’essere>>.

E ciò non fa altro che ribadire che per poter significare <<l’assolutamente altro [ = differente] da ogni essere>>, anche il nihil absolutum deve essere identico a sé quale significante, cioè deve inevitabilmente costituirsi come un ente, paradossale quanto si vuole ma comunque un ente.       

Severino ritiene di poter ovviare a ciò precisando che <<il nulla è, nel suo significato concreto, la contraddizione del nulla [cioè del nihil absolutum] essente; ma questo essere del nulla, che consente al nulla [al nihil absolutum] di essere momento, è posto nell’altro momento [nel suo positivo significare] (o come l’altro momento) di quel significato concreto; e, proprio perché è posto nell’altro o come l’altro momento, al nulla-momento [al nihil absolutum] è consentito di essere il significato in cui è posto soltanto l’assolutamente altro da ogni essere e quindi anche da quell’essere che è l’essere del nulla [del nihil absolutum] come momento>>. - (Essenza del nichilismo, pag. 223).

Ora, quand’anche l’<<essere del nulla [del nihil absolutum]>> fosse tutto <<posto nell’altro momento [cioè nel suo positivo significare]>>, non verrebbe comunque meno la differenza tra il nihil absolutum quale <<assolutamente altro da ogni essere>> e l’<<altro momento>> in cui sarebbe posto tutto l’<<essere del nulla [del nihil absolutum]>>!

Anzi, verrebbe vieppiù ri-confermata; infatti, sostenere che l’<<essere del nulla [del nihil absolutum]>> sia <<posto nell’altro momento [nel suo positivo significare]>>, di modo che al nihil absolutum sia <<consentito di essere il significato in cui è posto soltanto l’assolutamente altro da ogni essere>>, vuol dire che al nihil absolutum è <<consentito di essere il significato>> in cui è posta soltanto la sua differenza <<da ogni essere>> (altrimenti non differirebbe <<da ogni essere>>)!

Pertanto, questa differenza è quanto basta e avanza

NOTA 1:

affermare del nihil absolutum che non sia identico a sé ma che, però, sia differente dal proprio altro (ove la sua differenza sarebbe costituita dal non essere identico a sé), significa ugualmente entificare il nihil absolutum, nella misura in cui (e proprio perché) differisce dall’identità con sé che informa ciascun ente.

NOTA 2:

affinché il nihil absolutum non venga fatto rientrare nell’ente in quanto differ-ente, di esso si sarebbe dovuto affermarne il nihil absolutum-della-differenza ed il nihil absolutum-della-identità, ossia la sua assoluta nullità avrebbe dovuto dirsi anche per il suo differire, sì da esser nulla la sua differenza, nullo il suo differire, nonché della sua identità cioè del suo esser nihil absolutum, sì da esser nulla anche il suo stesso esser nulla.

Ancor meglio, di esso dovremmo affermare che differisce, non-differisce. 

Ma, affinché il nihil absolutum ottemperasse a tutto ciò, tale assoluta nullità non avrebbe dovuto neppure mai sorgere nella consapevolezza, restando, noi, nella completa inconsapevolezza di esso, ed esso, perciò, nella più totale apofaticità, ma ormai è troppo tardi, perché, essendo noto, allora il nihil absolutum non può evitare di costituirsi come un differ-ente.

Fine delle NOTE.

Poiché il differ-ente è lo stesso esser ente, e l’esser ente è lo stesso ineludibile differire (e quindi è la stessa identità con sé), allora la suddetta strategia del filosofo bresciano è destinata suo malgrado a consolidare l’irrisolvibilità dell’aporia del nulla nonché l’aporeticità dell’opposizione originaria ( = aporeticità originaria), giacché in tanto è possibile porre la innegabile differenza tra i due momenti (tra il nihil absolutum e l’essere in inscindibile sintesi), in quanto entrambi differiscono tra loro ed in quanto ciascuno è incontraddittoriamente identico a sé, sì che la loro differenza nella sintesi che dà luogo al significato concreto nulla, si costituisca come differenza tra due enti; differenza, perciò, tutta interna all’essere;

come dire che l’essere si oppone soltanto a se stesso, in se stesso.

Peraltro, Severino oscilla pesantemente circa il ruolo da conferire al significato nihil absolutum, tradendo così un’incertezza di fondo dettata dall’aporia facente capolino in ogni direzione egli intenda guardare…

Infatti, dapprima afferma <<che il nulla [il nihil absolutum] sia “significante” non significa che il nulla esplichi una certa forma di attività, quale appunto sarebbe il significare. Il significare del nulla non appartiene al nulla [al nihil absolutum], perché il nulla non è un essente a cui questo significare o qualsiasi altra proprietà o attività possano appartenere>>, giacché tale significare apparterrebbe all’altro momento.

Per cui al nihil absolutum non appartiene né <<questo significare [come nihil absolutum]>>, né <<qualsiasi altra proprietà o attività>>.

Poi, però, il nihil absolutum torna ad <<essere il significato in cui è posto soltanto l’assolutamente altro [appunto, il nihil absolutum] da ogni essere>>, cioè diventa esso stesso significante, e non in virtù dell’altro momento! 

Ma poi, nuovamente, il suo esser significante come nihil absolutum o come <<significato in cui è posto soltanto l’assolutamente altro [appunto, il nihil absolutum] da ogni essere>>, ritorna a competere all’altro momento:

<<l’esser significante, da parte di questa negazione [del nihil absolutum], è appunto l’altro termine della sintesi nella quale consiste il significato autocontraddittorio ‘nulla’>>. – (Severino in: Simionato; op. cit.).

Quindi, il significare nihil absolutum <<non appartiene al nulla [al nihil absolutum]>> (perché appartiene all’altro momento) ed insieme tale significare come nihil absolutum gli appartiene, perché ad esso è <<consentito di essere il significato in cui è posto soltanto l’assolutamente altro da ogni essere e quindi anche da quell’essere che è l’essere del nulla [del nihil absolutum] come momento>>!

Inoltre, last but not least, sorpresa delle sorprese:

se il nihil absolutum _ esso, non il suo positivo significare! _ significa: non-identico a sé e non-differente dal proprio altro, allora il nihil absolutum si ritraduce nuovamente nell’esser (un) ente, perché, non essendo identico a sé, non è neppure nihil absolutum come dovrebbe essere quale significato incontraddittorio (il nihil absolutum è = il nihil absolutum) e quindi, non essendo nihil absolutum, sarà altro proprio perché esso è ritenuto non-differente dal proprio altro, ove tale altro dal nihil absolutum è soltanto l’ente, cosicché, anche per questa via, il nihil absolutum è tutto interno all’essere.

Non solo, ma si dovrà anche dire che il nihil absolutum, significando il non-identico a sé e non-differente dal proprio altro, si costituisce inevitabilmente _ esso, non il suo positivo significare _ come quell’identico a sé e differente dal proprio altro (appunto perché il nihil absolutum è un significato incontraddittorio, come afferma Severino) che però significa il non-identico a sé e non-differente dal proprio altro, cosicché la dualità nihil absolutum//positivo significare che Severino attribuiva al significato contraddicentesi “nulla” quale sintesi di quei due momenti, si ripresenti pari pari nello stesso nihil absolutum, giacché questi è un significato incontraddittorio che significa il contraddittorio non-identico a sé e non-differente dal proprio altro, quindi il nihil absolutum _ e ribadirei: esso, non il significato concreto “nulla” come vorrebbe Severino _ è un significato incontraddittorio ed insieme contraddittorio 

Per completezza, devo riportare anche quest’altra osservazione di Severino la quale, nelle sue intenzioni, vorrebbe essere risolutiva:

<<Che il significato ‘nulla’ [nihil absolutum], come termine della sintesi col suo positivo significare, non riesca ad evitare di essere un essente perché è un significato è una tesi alla quale il mio critico [Marco Simionato] dà invece molta importanza […], ma è una tesi che finisce col non tener presente (ripeto ancora una volta) che questo significato [nihil absolutum] non significa ‘essente’, ma ‘negazione assoluta dell’essente>>. – (Severino in: Simionato; op. cit.).

Ricordando che per Severino <<porre un significato equivale a porre una certa positività [una certa identità], o una certa determinazione del positivo, dell’essere>>, e quindi che, ponendo una differenza, è con essa posta l’identità con sé di essa, e ricordando, perciò, che qualsiasi differenza/identità è lo stesso ente, allora la <<negazione assoluta dell’essente>> cioè la differenza assoluta dall’essente, è anch’essa un essente, è cioè il negativo in quanto tale, sì che tale differenza assoluta si tolga in quanto differenza assoluta per riconfermarsi una differenza tra enti, interna all’essere.

Sì che, alla fine della fiera, ci si trovi <<costretti […] ad affermare che il nulla [il nihil absolutum], essendo significante, è, è un essente, sì che l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di nulla e di essere, è. In seguito alla separazione [ma già in forza della distinzione tra i due momenti], l’aporia del nulla si presenta pertanto come insolubile. Il pensiero è definitivamente legato all’assurdo della contraddizione>>. – (Severino: Essenza del nichilismo; pag. 111).

 

Roberto Fiaschi

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lunedì 30 gennaio 2023

11)- IL NOSTRO UNIVERSO È STATO CREATO IN UN LABORATORIO?

Dal sito https://www.scientificamerican.com/article/was-our-universe-created-in-a-laboratory/, riporto parte del seguente articolo di Avi Loeb intitolato:

<<IL NOSTRO UNIVERSO È STATO CREATO IN UN LABORATORIO?>>

Eccolo:

<<Il più grande mistero che riguarda la storia del nostro universo è quello che è successo prima del big bang. Da dove viene il nostro universo? Quasi un secolo fa, Albert Einstein cercò alternative di stato stazionario al modello del big bang perché un inizio nel tempo non era filosoficamente soddisfacente nella sua mente. Ora ci sono una varietà di congetture nella letteratura scientifica per le nostre origini cosmiche, comprese le idee che il nostro universo sia emerso da una fluttuazione del vuoto, o che sia ciclico con ripetuti periodi di contrazione ed espansione, o che sia stato selezionato dal principio antropico dal panorama della teoria delle stringhe del multiverso, dove, come dice il cosmologo del MIT Alan Guth, "tutto ciò che può accadere accadrà ... un numero infinito di volte", o che è emerso dal collasso della materia all'interno di un buco nero>>.

Innanzitutto, si noti come pressoché tutte le possibilità siano state qui sopra menzionate in relazione alla nascita dell’universo:

1)- l’universo è emerso da una fluttuazione del vuoto;

2)- l’universo emerge ciclicamente con ripetuti periodi di contrazione ed espansione;

3)- l’universo come infinito ritorno di sé, giacché, secondo il cosmologo del MIT Alan Guth, "tutto ciò che può accadere accadrà... un numero infinito di volte";

4)- l’universo è emerso dal collasso della materia all'interno di un buco nero.

Tutte le possibilità immaginabili, dicevo, tranne quella del Dio creatore

Ma attenzione;

il posto del Dio creatore viene adesso occupato da una creatura che possa farne le veci, come si evince proseguendo la lettura dell’articolo:

<<Una possibilità meno esplorata è che il nostro universo sia stato creato nel laboratorio di una civiltà tecnologicamente avanzata. Dal momento che il nostro universo ha una geometria piatta con un'energia netta pari a zero, una civiltà avanzata avrebbe potuto sviluppare una tecnologia che creasse un universo neonato dal nulla attraverso il tunneling quantistico>>.

E sebbene Avi Loeb si premuri subito dopo di precisare che:

<<Questa possibile storia di origine unifica la nozione religiosa di un creatore con la nozione secolare di gravità quantistica>>,

ciò nonostante tale <<creatore>> non è affatto Dio, bensì, come detto, un’altra creatura, quale appunto è la suddetta <<civiltà tecnologicamente avanzata>>.

Pur di non tirare in ballo Dio, alcuni moderni ‘luminari’ arrivano a soppiantarLO mediante un sostituto tecnologicamente avanzato ma nient’altro che una creatura finita e limitata, perciò a sua volta necessitante di esser ricondotta anch’essa ad una creazione non certo da <<laboratorio>>!  

Chissà perché, quando una serie di corbellerie sono affermare da un scienziato, subito diventano plausibili e addirittura ‘scientifiche’.

Mi pare infatti evidente come Avi Loeb professi un’ingenua fede nell’onnipotenza della tecnologia conseguita e maneggiata quasi infallibilmente dal demiurgo di turno cui sarebbe una qualche fantomatica <<civiltà tecnologicamente avanzata>> da qualche parte nell’universo, dove l’aggettivo <<avanzata>> sembra voler togliere i confini tra creatura e creatore togliendo così il creatore e, perciò, investendo la creatura del ruolo di creatrice dell’universo <<in un laboratorio>>!

Nel suo articolo, Avi Loeb scrive:

<<Non possediamo una teoria predittiva che combini i due pilastri della fisica moderna: la meccanica quantistica e la gravità. Ma una civiltà più avanzata avrebbe potuto compiere questa impresa e padroneggiare la tecnologia per creare piccoli universi. Se ciò accadesse, allora non solo potrebbe spiegare l'origine del nostro universo, ma suggerirebbe anche che un universo come il nostro>> non sia <<stato selezionato perché esistessimo in esso - come suggerito dal ragionamento antropico convenzionale - ma piuttosto, è stato selezionato in modo tale da dare origine a civiltà molto più avanzate di noi>>. 

Insomma, siffatta creatura ( = una civiltà più avanzata) avrebbe creato <<il nostro universo>> internamente ad un più ampio universo, ovviamente quest’ultimo non creato da tale civiltà, altrimenti essa avrebbe altresì creato se stessa nel mentre che creava l’universo in cui risiedeva.  

E allora che senso potrà mai avere supporre che <<il nostro universo>> sia stato creato in un qualche laboratorio, se poi il problema della creazione si ripropone pari pari per quella stessa presunta civiltà tecnologicamente avanzata?

Siccome Avi Loeb ambisce a <<spiegare l'origine del nostro universo>> ricorrendo a qualcosa il quale, al pari di noi, necessita della medesima spiegazione, finendo per rincorrere indefinitamente una Creazione che non potrà mai raggiungere poiché ha aprioristicamente estromesso Dio soppiantandoLO con una creatura, allora la sua tesi, in realtà, non spiega niente, perché trasferisce in una sperata/creduta civiltà tecnologicamente avanzata una ‘spiegazione’ che per tale civiltà non può valere…

Inoltre, non si può sottacere come anche in questa ipotesi, secondo la quale

<<il nostro universo [cioè noi] non è stato selezionato perché esistessimo in esso>> bensì <<è stato selezionato [sic!] in modo tale da dare origine a civiltà molto più avanzate di noi>>,

si evidenzi un certo disprezzo per l’essere umano, essendo tale ipotesi tutta sbilanciata a favore di supposte <<civiltà molto più avanzate di noi>> ove queste, considerate da Avi Loeb come i <<"bambini più intelligenti nel nostro blocco cosmico">>, <<sono in grado di sviluppare la tecnologia necessaria per produrre universi baby - sono i motori del processo di selezione cosmico darwiniano>>”!

l’antica promessa è ormai di prossima realizzazione:

<<eritis sicut Deus>> (Genesi 3,5)…


Roberto Fiaschi

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domenica 29 gennaio 2023

10)- “CRISTIANO” = “CRETINO”?

Presento adesso l’“Analista della parola” ( = AdP), le cui tesi si rifanno a Luciano Faioni. Il perno sul quale ruota tutto il loro discorso è l’intrascendibilità della parola, intendendo perciò <<con discorso religioso qualunque discorso che si fondi sulla supposizione che si dia un qualunque elemento fuori dal linguaggio>> (affermazione tratta da https://digilander.libero.it/lfaioni/22.2.20000A.htm).

Tuttavia, in questo post non verrà discussa la succitata tesi, limitandomi, qui, a riportare alcune significative affermazioni che fungano da prolegomeni per un primo, veloce inquadramento della forma mentis di AdP, innanzitutto in relazione ai credenti/cristiani (qual anch’io mi considero), verso i quali AdP non nasconde il proprio astio:

<<La maggior parte dei parlanti, parla di cose di cui non sa assolutamente nulla, ma le afferma come se le conoscesse. Falsi, subdoli, stolti. Tanto quando parlano di fede, tanto quando parlano di logica>>.

Nonostante AdP abbia precisato che il suo utilizzo del termine <<“pensiero religioso”>> non sia <<riferito alla dottrina religiosa, bensì ad un modo di costruire affermazioni che va ben oltre qualunque religione>> (da: https://www.youtube.com/watch?v=zROqqMLtKnY), resta il fatto che per lei

<<il credente, non sapendo nulla di quello che fa, cioè di quello che dice, non sa neanche che cosa significhi "credere" e confonde, a propria apparente convenienza, l'atto di fede con l'accoglimento di una condizione>>.

Non soddisfatta di ciò, altrove (Facebook) rincara il suo disprezzo per i credenti:

<<Tu non hai idea di che tipologia di persone vengono da me per via della mia posizione di divulgatrice dell'Analista della parola, che è appunto quel parlante che si occupa della Scienza della parola.... Credenti! Credenti, credini, individui narcotizzati da mistiche assuefazioni ed altri psicotici deliranti. Da quando ho scritto il libro sul "pensiero religioso", poi, non ne parliamo... Perché vedi, costoro, leggono soltanto il titolo...e neppure il sottotitolo. Ma quando arrivano al sottotitolo "storie di chi non sa di sé", credono (perché questo soltanto sanno fare: credere) che si riferisca al pensiero non religioso.... E allora, capito, ho questa fila di richieste di contatto da persone che hanno come foto profilo gesu cristo o la madonnina.... Pare proprio che, il "signore loro", gli indichi di seguire la via dell'Analista della parola....>>.

(Brano tratto da Barbara Monti alias AdP, dal gruppo Facebook: I nemici del Destino. Contro la così detta filosofia di Emanuele Severino).

E ancora:

<<E comunque...fare il cretino, non significa esserlo. Anche io faccio la cretina e la so fare talmente bene che talvolta lo sembro proprio.... però ecco, comportarsi da cretini è un conto, esserlo è un altro. Sono due cose differenti e occorre precisare. […] Essere un cretino, invece, è una questione differente... perché riguarda esattamente il "pensiero religioso". Pare infatti che, il termine "cristiano", provenga esattamente dal termine cretino. E il cristiano chi è? Beh, è il credente per eccellenza... Certo, di religioni ce ne sono tante, ma la più diffusa è quella dei cretini. Ammesso che ve ne siano che non sono praticate da cretini... talvolta si tratta soltanto di cretini differenti. E basta pensare ai cretini, per accorgersi di quanto il "pensiero religioso" vada molto oltre qualunque religione>>. (Idem).

Insomma, per AdP non solo i credenti ma più in generale i <<parlanti>> sono quasi tutti cretini (oltre che <<Falsi, subdoli, stolti>>) tranne lei, naturalmente:

<<Pertanto, ecco, ammetto la mia facoltà di esercizio della cretineria, ma rifiuto nella maniera più assoluta che la cretineria di cui mi avvalgo venga attribuita al mio essere...>>.

(Facebook: I nemici del Destino. Contro la così detta filosofia di Emanuele Severino).

Dato l’incedere di AdP, è difficile sottrarsi all’impressione di aver a che fare con una sorta di ennesima, nuova religione ‘laica’ che pretenda rifuggire da qualsivoglia forma di fede, visto che a suo dire <<la fede è, per definizione, uno squilibrio mentale. Al pari del delirio, è convinta delle cose che afferma, ma le afferma con tanta convinzione quanta poca è la cognizione di causa>>;  

(affermazione reperita in: https://www.youtube.com/watch?v=BJ7Sr6H88fs, spazio dei commenti), tant’è vero che AdP arriva perfino a dire:

<<Chi ha fatto gli auguri di natale, non pensa..... almeno quando li fa>> (da Facebook: I nemici del Destino. Contro la così detta filosofia di Emanuele Severino).

Non a caso ammonisce proprio come fosse una Vox clamantis di una nuova religione, invitando alla conversione (sic!) dall’attuale situazione di falsità in cui verserebbero i suoi interlocutori:

<<Falsi siete e falsi resterete finché non vi convertirete all'analista della parola>>.

Il percorso da lei proposto <<indica il e non la sua parola. Il Sé non è né la mia, né la tua, né la sua parola. Ma se lo vuoi cercare, allora è nella tua parola che devi andare. L'Analista della parola mette a disposizione gli strumenti. E un'ottima compagnia>>.

Tuttavia, AdP negherà prontamente qualsiasi accostamento del proprio discorso alla fede/religione, <<infatti _ precisa la Nostra _ nel libro "Il Pensiero religioso" parlo proprio del fatto che esso va oltre qualunque religione perché la maggior parte delle conoscenze, anche le così dette "scientifiche", sono fondate su atti di fede.... ipostatizzazioni..... fallacie ....>>.

Quindi _ a suo dire _ fede, ipostatizzazioni e fallacie presenti dappertutto o, bene che vada, nella <<maggior parte delle conoscenze>>, anche nelle <<così dette "scientifiche">> (il che rappresenta un buon viatico circa l’imprescindibilità della fede lato sensu), tranne ovviamente che nel suo libro: Il Pensiero religioso (https://www.youtube.com/watch?v=TEHJoP18aSs).

Lo vedremo…


Roberto Fiaschi

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9)- ALDO STELLA: «I FONDAMENTI TEORETICI DELL’UNIONE DI FEDE E RAGIONE»


Mi piace riportare un interessantissimo articolo del prof. Aldo Stella (tratto da: https://ritirifilosofici.it/i-fondamenti-teoretici-dellunione-di-fede-e-ragione/#comment-15445): 
I FONDAMENTI TEORETICI DELL’UNIONE DI FEDE E RAGIONE

«Con il presente lavoro intendiamo fare emergere quella prospettiva filosofica che, a differenza di quanto ordinariamente si pensa, consenta di evidenziare come fede e ragione si costituiscano fondandosi l’una sull’altra. La fede, nel senso del suo strutturarsi in virtù di una vocazione intrinsecamente razionale; la ragione, nel senso del suo costituirsi come intenzione che si affida alla verità confidando in essa.

1.- L’intenzione di verità

Per argomentare a favore del valore di fondamento che la fede riveste nei confronti della ragione, partiamo dal seguente punto: quando ciascuno di noi configura un pensiero, la sua intenzione è quella di formulare un pensiero che non sia valido solo per chi lo formula, dunque la sua intenzione è di formulare un pensiero universale, vero in sé.
Se non che, la certezza che il mio pensiero non sia solo mio, ma sia effettivamente universale, si deve misurare con questa alternativa: aut la certezza è ancora soltanto mia, così che io credo che sia un pensiero universale, ma non l’ho ancora dimostrato, aut sono in grado di dimostrarlo innegabilmente, irrefragabilmente.
Nel primo caso, la certezza coincide con la fede e la fede è, però, una fede inconsapevole: è un credere di sapere ignorando di credere. Nel secondo caso, invece, ho dimostrato che la certezza non è solo mia, ma deve venire condivisa da chiunque pensi e, pensando, segua un procedimento logico.
Tuttavia, è proprio a questo punto che il problema si ripropone e sorge la seconda domanda: quando potremo considerare un procedimento effettivamente logico e una dimostrazione autenticamente innegabile? In altri termini: quando riusciremo a dimostrare il valore innegabile di una dimostrazione, senza fare ricorso a premesse, le quali, in quanto tali, vengono semplicemente presupposte, dunque assunte fideisticamente?

2.- Il nesso logico

Una dimostrazione è un procedimento logico che muove da premesse e perviene a una conclusione. Il nesso che vincola le premesse alla conclusione deve essere necessario: solo così la procedura è effettivamente logica.
Ebbene, ciò che deve venire evidenziato è, da un lato, che le premesse, proprio in quanto tali, sono estranee alla dimostrazione che su di esse si fonda, nel senso che esse vengono semplicemente accettate come punto di partenza (assunte), dunque ad esse si aderisce per fede. Si accetta, insomma, che siano vere senza discuterle, ma, qualora esse non fossero vere, la conclusione che verrebbe tratta da esse sarebbe necessariamente falsa, se la dimostrazione fosse autentica.

D’altro lato, anche il nesso che vincola le premesse alla conclusione risulta problematico. Tale nesso viene definito dai logici “relazione di conseguenza logica” e deve valere come necessario, per la ragione che, posto l’antecedente (A), il conseguente (B) non può non derivare da esso. Dire che il nesso è necessario equivale a dire che è intrinseco: appartiene alla struttura intrinseca di A il suo necessario riferirsi a B. Ma proprio qui sorge il problema. Se il porsi di A implica necessariamente il porsi di B, come si potrà continuare a distinguere l’uno dall’altro?
Questo status problematico, definito dai logici “paradosso della deduzione”, può venire espresso anche così: se il nesso è intrinseco, allora la posizione del conseguente entra nella costituzione dell’antecedente e la loro distinzione è una mera astrazione. Si considerano, cioè, due entità (A e B), ma in verità l’entità è unica, almeno dal punto di vista logico, e non può venire definita  A  B, sì che la deduzione si rivela una mera tautologia. Da ciò consegue che, a rigore, non si può più parlare di nesso o di relazione di conseguenza logica, perché vengono meno i due termini che devono venire congiunti. Essi, infatti, sono così congiunti che costituiscono un’unità, la quale, essendo compatta, non prevede nessi al suo interno.
D’altra parte, se si volesse mantenere la rappresentazione di un nesso che si dispone tra i due termini, come indica la forma della deduzione, allora il nesso varrebbe come medio, che i logici definivano quid medium, e diventerebbe un nuovo termine (C). In questo caso, la conseguenza sarebbe che tanto A quanto B dovrebbero instaurare con C due nuove relazioni, riproducendo l’aporia detta del “terzo uomo”, che già Platone ha indicato nel Parmenide e Aristotele ha codificato nella Metafisica. Se, insomma, il nesso logico vale come medio, allora le relazioni si moltiplicano all’infinito e si perde la possibilità di una procedura autentica.
Già da queste considerazioni emerge che la ragione intenderebbe pervenire all’evidenza logica, ma, anche quando crede di ravvisarla in una dimostrazione, tale evidenza va ricondotta alla presunta verità delle premesse o all’assunzione acritica del nesso con cui si passa da esse alla conclusione. La ragione, dunque, tende alla verità, ma, quando ritiene di averla trovata, scopre che è la fede a convincerla, non la verità stessa.

3.- Il principio di non contraddizione

Per completare il discorso intorno alla dimostrazione, facciamo notare un altro aspetto. Lo stesso principio di non contraddizione, che vale come principio e fondamento di ogni dimostrazione, mantiene un carattere problematico.
Aristotele lo dichiara “firmissimum (bebaiotate arché)” nel IV libro della Metafisica e lo contrappone alla dimostrazione deduttiva. Il principio, afferma lo Stagirita, non può venire dimostrato per via deduttiva: se fosse risultato di una dimostrazione, non potrebbe valere come principio. Di esso, pertanto, si deve dare una dimostrazione per via confutatoria, cioè mediante elenchos: mediante la negazione della sua negazione. Chi pretende di negare il principio di non contraddizione si trova in questa situazione: se lo nega mediante un discorso incontraddittorio, allora lo riafferma; se lo nega mediante un discorso contraddittorio, allora nega ciò che afferma, dice e nega ciò che dice, dunque è come se tacesse.
Il principio di non contraddizione sembra così emergere innegabilmente dalla sua tentata negazione, negazione che si rivela contraddittoria. Questa è la dimostrazione di Aristotele, la quale viene considerata anche da Emanuele Severino una dimostrazione inconfutabile. Gli stessi logici fanno poggiare sul principio di non contraddizione tutta l’impalcatura logico-formale. Ciò che vorremmo far osservare è che, nella dimostrazione confutatoria di Aristotele, ripresa con entusiasmo da Severino, la dimostrazione del principio, cioè della verità, emerge a condizione che si ponga la sua pretesa negazione: senza la negazione del principio non emerge la sua verità.
Se si tiene conto di ciò e lo si porta alle estreme conseguenze, allora non si potrà non rilevare che, senza la posizione del falso (la negazione del principio, dunque la contraddizione), il vero (il principio, l’incontraddittorio) non potrebbe mai porsi.

O anche: se il principio si pone in virtù della negazione (il “non” che compare nel principio di non contraddizione) e la negazione vale come determinata solo in forza della posizione della contraddizione (se la contraddizione non fosse, la negazione sarebbe negazione di nulla, nulla come negazione), allora la posizione del principio postula la posizione della contraddizione.
Sorge, allora, la domanda: è veramente autentico quel vero che necessita del falso per porsi? E ancora: la verità, che si pone in relazione e in contrapposizione al falso, non è segnata forse da tale relazione e vincolata a ciò che vorrebbe necessariamente escludere?

4.- L’affidarsi confidando

Come si vede, per quanto la ragione voglia porsi a prescindere dalla fede, ogni volta che essa pretende di affermare qualcosa come verità indiscutibile, assoluta, essa si affida al proprio presumere di essere pervenuta alla verità: ogni volta che si pretende di sapere e si va oltre il “so di non sapere” socratico, si crede di sapere, ignorando di credere. Si crede di sapere credendo che non sia la fede a fondare il sapere.
La ragione perviene così alla consapevolezza del proprio limite costitutivo. Tale limite coincide con l’impossibilità di configurare la verità in forma determinata o finita. Se, infatti, la verità venisse “determinata”, essa sarebbe determinata da altro da sé, cioè dalla “non verità”. Questo significa che la verità è bensì innegabile, ma non è determinabile. Questa stessa affermazione non configura la determinazione della verità, ma la determinazione dell’impossibilità di determinarla.
L’esito del discorso svolto non può non significare che alla verità, di per sé innegabile – negare la verità equivale ad assumere come verità la negazione –, ci si può solo affidareconfidando che sia la verità stessa a guidare la ricerca che ad essa si volge (si affida). In questo senso, la fede configura il compimento ideale della ragione, là dove idealmente la ragione intende essere uno con la verità, eliminando ogni distanza da essa. Tale unità non può valere come un fatto, una determinazione, ma solo l’essenza dell’intenzione: essere uno con la verità.
Affidarsi alla verità, confidando in essa, equivale dunque a ricercare senza porre al centro il soggetto che cerca (la ragione), ma il fine cui ci si volge (la verità), la quale, in quanto autentica, non può non essere ab-soluta, ossia svincolata da ogni vincolo, da ogni relazione, e pertanto inaccessibile.

5.- Il fondamento razionale della fede

Per converso, è da rilevare che la stessa fede, allorché esibisce la pretesa di porsi a prescindere dalla ragione, si trova nella situazione di presupporre sé stessa, senza la possibilità di riconoscersi come fede e di definirsi effettivamente tale.

Affermando la struttura intrinsecamente razionale della fede, pertanto, ci proponiamo l’intento di mettere in evidenza questo aspetto, che giudichiamo fondamentale: allorché si crede, si intende che ciò in cui si crede sia vero e sia vero in sé, cioè sia vero non perché oggetto della fede. Che è quanto dire: nella fede si intende – e questa è la sua struttura razionale – la verità o, più precisamente, si intende che sia la verità intrinseca dell’oggetto in cui si crede a fondare la fede stessa.

Non si intende certo che sia la fede a creare la verità dell’oggetto creduto, poiché, in questo caso, avrebbe ragione Feuerbach ad affermare che Dio è il prodotto della fede degli uomini. La fondazione della fede, pertanto, non può appartenerle, come se fosse possibile una sua autolegittimazione (sola fides), ma deve valere come il suo fondarsi sulla verità. 

E l’intenzione di fondarsi sulla verità costituisce il proprium della ragione, per quel tanto che “ragione” è consapevole ricerca della propria essenza più pura, coscienza che vuole sapere e sapersi veramente. La ricerca di verità è ragione, per quel tanto che solo la ragione intende il senso di questa ricerca e può usare consapevolmente l’espressione “verità”, il cui significato, peraltro, non è mai definito, ma sempre “da definirsi”. È mediante la ragione, inoltre, che si perviene a sapere cosa sia effettivamente “credere” e dunque è possibile affermare di credere veramente, sapendo discernere la vera fede dalla sciocca credulità, la fede eroica dalla fede superstiziosa e credula.

6.- Per concludere

Se, dunque la ragione non può non affidarsi alla verità per venire adeguatamente illuminata da essa – e, nell’affidarsi, la ragione confida –, altrettanto la fede non può non intendere – e questo “intendere” è ragione, intenzione razionale di verità – che sia vero il suo oggetto, affinché sia la verità stessa a porla e a legittimarla come fede.
Fede e ragione sono così due momenti coessenziali dello spirito, che non possono venire considerati in forma autonoma: in questo caso, verrebbero assolutizzati e cesserebbero di valere, entrambi, come funzione che si orienta al valore, cioè come mezzi che hanno per fine l’unica verità.
L’assolutizzazione si compie, infatti, solo allorché si perde di vista l’assoluto, il quale soltanto è in grado di de-assolutizzare quel relativo che pretenderebbe di sostituirsi ad esso».

Aldo Stella

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Riferimenti bibliografici

Agostino, De trinitate, introd. di A. Trapé e M.F. Sciacca, trad. it. di G. Beschin, Roma 1973.

Agostino, De vera religione, trad. it. di A. Pieretti, La vera religione, Città Nuova Editrice, Roma 1995.

Aristotele, Metafisica; trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano 1978.

G.W.F. Hegel, Glauben und Wissen oder die Reflexionsphilosophie der Subjektivität, in der Vollständigkeit ihrer Formen, als Kantische, Jacobische und Fichtesche Philosophie, Jenaer Kritische Schriften (III), Neu herausgegeben von Hans Brockard und Hartmut Buchner, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1986, trad. it. Fede e sapere, in Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 2014.

Platone, Parmenide; in Opere Complete, vol. III, trad. it. di A. Zadro, Laterza, Roma-Bari 19765, pp. 9-67.

A. Stella, M. Fantinelli, Intentio dei. Lo slancio verso l’infinito, Armando, Roma 2014.

Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de veritate (1258), q. 1, a. 1-9; trad. it. di R. Coggi, La verità, Guida Editori, Napoli 1992.

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8)- L’ETERNISMO È L’OLTREPASSAMENTO DEL MALE?


<<A cosa serve la sofferenza?>>, domanda un critico ( = C) del Cristianesimo nel suo saggio:

ONTOLOGIA & EUTECNICA Frammenti Scomposti in Struttura From threads:

<<Non preoccupatevi troppo:>> _ rassicura! _ <<al peggio serve ad essere oltrepassata, consegnandosi, un frammento per volta, al passato>>. 

Sì, avete letto bene: la sofferenza serve <<ad essere oltrepassata>>, ossia _ severinianamente _ ad uscir di scena (non: annullarsi!) rimanendo pur sempre ciò che essa è ab aeterno: sofferenza; e permanendo eternamente come sofferenza, seppur oltre-passata (perfectum) nel cuore della totalità dell’essere, come già indicato nel post n° 6.

È come se una mamma ( = il Tutto eterno) vivesse felice e contenta tutta la vita col proprio figlio morto ( = la sofferenza) in grembo! 

Senonché, asserire che la sofferenza <<serve ad essere oltrepassata>> è un’ingenuità, giacché è identico a dire che la sofferenza serve per rimanere eternamente identica a se stessa! 

<<Certamente, una parte rilevante di sofferenza ''non serve a nulla''>>, corre subito dopo ai ripari C, <<sia nel senso che essa esorbiti ogni decenza, sopportazione o possibilità di utilizzo, ed anche nel senso che essa ''non valga la pena'' quando sia talmente intensa o talmente lunga, che l'eventuale guadagno, conoscitivo od esistenziale, che si potrebbe trarre da essa non varrebbe affatto la candela. Certi tipi di sofferenza sono semplicemente un'incarnazione crudele del male, del negativo nelle nostre carni>>.

Sembrerebbe allora che per la sofferenza che <<serve ad essere oltrepassata>>, per la sofferenza che <<non serve a nulla>> in quanto <<incarnazione crudele del male>> così come per lo stesso <<autore del Male>> o <<Maligno>>, le possibilità ultime siano comunque soltanto due:

<<1) Tutti gli essenti tranne l'autore del Male giungono ai porti sicuri del Positivo. L'autore del Male rimane eternamente rinchiuso nel passato, inerte e privo di qualsiasi ulteriore apprensione rispetto agli essenti, cristallizzato nel suo oltrepassamento;

2) Tutti gli essenti, compreso l'autore del Male, giungono ai porti sicuri del Positivo.

La prima tesi impedisce la pienezza del Positivo, mantenendo uno spazio negativo nel mezzo del cuore dell'Essere, e precisamente quello dell'irredimibilità della parte di Essere che è rappresentata dal Maligno.

La seconda tesi, enunciata NELLA FORMA SUDDETTA, impedisce anch'essa la pienezza del Positivo, in quanto l'immensità degli effetti della negazione è talmente vasta da rendere impossibile ogni perdono sensato ed ogni reintegrabilità, ogni possibile CON-VIVENZA futura con una Coscienza pienamente e totalmente responsabile di tutte le atrocità e sofferenze causate da essa, anche se con-vertita e purificata dal negativo>>.

Ma queste <<due alternative non sfuggono alla contraddizione>>, osserva giustamente C, perciò

<<la seconda tesi va riformulata in questo modo: 2a) Tutti gli essenti, compreso l'autore del male PROTOLOGICO giungono ai porti sicuri del Positivo. Qual'è la differenza tra la tesi 2 e la tesi 2a? Questa: la Coscienza che per prima è stata colpevole dell'insorgere del negativo, è colpevole solo dell'atto immediato di autoposizione negatoria del Bene, ma non lo è VOLONTARIAMENTE di tutti i nefasti effetti successivi, in quanto l'atto di autoposizione negatoria E' ANCHE AUTONEGATORIO, e da tale autonegazione delle proprie perfezioni ontologiche deriva l'apparire di una Coscienza ALIENATA da sè e dal Bene, una Coscienza in preda ad una malattia, ad una follia che persiste ed insiste unicamente nella negazione; follia che convive e contrasta vittoriosamente (in modo provvisorio) l'identità benevola di tale Coscienza, isolandola. Il Maligno è quindi, con una metafora imprecisa, come una persona che abbia compiuto un'azione malvagia di limitata entità che però l'abbia fatta impazzire, e la cui pazzia inarrestabile abbia accumulato stragi su stragi, come un meccanismo impostato e privo di ogni altra direzionalità e controllo>>.

Finalmente i conti adesso tornano? ...No, affatto.

Nella prospettiva pan-eternista cui si colloca C _ secondo la quale ogni, qualsiasi essente è eterno e non diviene mai altro da sé _, l’<<oltrepassamento del male e del Maligno>> della riformulazione 2a ripropone le stesse contraddizioni delle tesi 1 e 2, scartate in quanto appunto <<non sfuggono alla contraddizione>>, giacché quella <<Coscienza ALIENATA da sè e dal Bene>> non è passibile di nessuna autentica <<liberazione>> né di alcuna <<Reintegrazione>>, in quanto ciò comporterebbe inevitabilmente quel diventare-altro-da-sé da parte della suddetta <<Coscienza ALIENATA>>, ovvero implicherebbe la negazione di quell’eternismo poggiandosi sul quale C riformula la tesi 2a.

L’oltrepassamento di tale <<Coscienza ALIENATA>> non può che conservarla eternamente come Coscienza alienata, proprio in virtù di quell’eternismo abbracciato da C. A nulla infatti giova precisare che <<da tale autonegazione delle proprie perfezioni ontologiche deriva l'apparire di una Coscienza ALIENATA da sè e dal Bene, una Coscienza in preda ad una malattia, ad una follia che persiste ed insiste unicamente nella negazione>>, perché tale derivazione non può consistere nel diventare-altro-da-sé  da parte dell’<<autonegazione delle proprie perfezioni ontologiche>> subita dalla <<Coscienza che per prima è stata colpevole dell'insorgere del negativo>>, giacché questa è un altro ente, diverso  dal successivo, ossia dalla <<Coscienza ALIENATA da sè e dal Bene>>.

Due essenti differenti, con una contiguità/prossimità esclusivamente diacronica ( = diveniente nel corso del tempo) ma senza che l’uno possa diventare l’altro, o senza che dall’uno possa derivare l’altro. Così essendo, la tesi 2a _ a dispetto della sua riformulazione creduta risolutiva _, non riesce ad evitare l’esito aporetico cui conducono sia la tesi 1 che e la tesi 2.

D’altronde è lo stesso C a confermare tutto ciò:

<<il divenire è il venire in luce ed il congedarsi della vitalità stessa degli spettacoli ontologici. In questo senso, ogni moto, ogni movimento sono parte dell'identità di questo o quell'altro ente che si muove (non diventando altro da sè, ma apparendo man mano lungo la sua identità)>>...

Salvo che, al fine di far tornare i propri conti, l’ETE ‘eterodosso’ consenta di svicolare dalle conseguenze che la logica severiniana invece imporrebbe con maggior serietà e consequenzialità.  Severino ne gioirebbe...

Ciò detto, anche la sperata <<apocatastasi>> _ nell’accezione proposta da C _ si rivela del tutto irrealizzabile, poiché <<la reintegrazione finale di ogni cosa>> non può _ sempre in virtù dell’eternità di ogni essente _, farsi <<avanti come approdo di tutto e tutti ai porti sicuri e stabili del Positivo>>, dal momento che l’<<oltrepassamento del male e del Maligno>> prevede sì il loro divenir degli oltre-passati, ma ripeto, comunque conservati, eternamente conservati come male e Maligno, allora è pura fantasticheria affermare che <<l'autore del male protologico, […] giungerà al momento della sua stessa liberazione da parte di Dio, momento che coincide con il culmine della Reintegrazione di tutte le cose>>, giacché anche tale <<liberazione>> presuppone daccapo quel diventare-altro-da-sé (cioè divenire libero) da parte di un essente-non-libero, il che, secondo l’eternismo severiniano, è l’essenza dell’impossibilità.

Lo stesso dicasi a proposito della <<Coscienza>> <<con-vertita e purificata dal negativo>>.

Pura impossibilità _ stante la premessa eternista _, poiché conversione e purificazione possono realizzarsi soltanto nei termini del divenire-altro-da-sé il quale, invece, è stato già escluso in quanto quintessenza del nichilismo.

Insomma, C fonda ed al contempo s-fonda le proprie tesi, af-fondandole…

Perciò, l’enfatizzato oltrepassamento della sofferenza in realtà consolida la sua conservazione (eterna), poiché essa _ come ogni altro ente _ è destinata a non divenire mai il proprio altro da sé, rimanendo sofferenza eternamente conservata, non importa dove, se nel ‘cuore’ o nella ‘periferia’ oscura e lontana della totalità dell’essere...

In sostanza, il pan-eternismo eterodosso si limita a nascondere la polvere sotto lo zerbino con l’illusione di averla definitivamente eliminata...

Tuttavia C ritiene di aver altre carte da giocare in suo favore, come le affermazioni tratte dalla summenzionata discussione (Facebook, 8 agosto 2016) sembrerebbero testimoniare:

<<L'oltrepassamento delle cose negative deve essere diverso da quello delle altre cose, cioè deve essere strutturato in modo tale che il compimento di esse equivalga ad una specifica positivizzazione, cioè il perfectum dei mali sarà per sempre vissuto come un bene, e non come una macchia persistente ed ATTUOSA dell'Essere (uso il termine per distinguere da attuale. Con attuoso intendo un senso peggiorativo in cui il negativo non ancora oltrepassato tormenta i senzienti con il suo atto negatorio delle perfezioni ontologiche)>>.

Domando:

perché <<L'oltrepassamento delle cose negative deve essere diverso da quello delle altre cose>>?

C si rende ben conto che, se così non dicesse, ne deriverebbero tutte le obbrobriose conseguenze fin qui mostrate. Egli sta cercando una disperata via di fuga. Ma è una mossa poco filosofica e davvero molto poco incontrovertibile, per una filosofia che ha affermato trionfalmente di porsi come <<incontrovertibile>> il quale, <<una volta visto [...] non è più possibile ragionare come se non lo si fosse visto>>.

In realtà, tale <<incontrovertibile>> non lo vede né C né nessun altro, giacché non c’è in modo aproblematico.

Infatti, affermare che l’oltrepassamento del negativo debba strutturarsi <<in modo tale che il compimento di esse equivalga ad una specifica positivizzazione, cioè il perfectum dei mali sarà per sempre vissuto come un bene, e non come una macchia persistente ed ATTUOSA dell'Essere>> significa ripristinare  _ malgrado le intenzioni contrarie di C _ la necessarietà de <<le sofferenze imposte di una bambina abusata>> al fine di <<EDIFICARE IL PARADISO>> o, che è lo stesso, equivale ad affermare quella <<Gioia dell'Essere>> o <<suprema armonia>> per la quale vale <<STRUMENTALIZZARE LA SOFFERENZA PER EDIFICARE IL PARADISO>>!

Non a caso, relativamente all’<<oltrepassamento delle cose negative>>, C usa i termini da me evidenziati in giallo: <<deve essere strutturato in modo tale che il compimento di esse equivalga ad una specifica positivizzazione>>; non a caso, perché se così non affermasse, persisterebbe l’indesiderata <<macchia>> nella <<Gioia dell'Essere>> cosicché esso non sarebbe più (e non sarebbe mai stato) <<Gioia>> o <<armonia>>.

Sì, tale <<Gioia>> non può ammettere alcuna <<macchia persistente ed ATTUOSA dell'Essere>>, altrimenti, in termini dostoevskijani:

<<quale armonia potrà esserci se c'è l'inferno?>>;

e nei termini di C:

quale <<gioia dell’Essere>> potrà esserci, se c’è anche soltanto <<una macchia>>?

Senonché, l’inferno in terra c’è; la macchia c’è, ovvero la sofferenza c’è, ed il prezzo ‘filosofico’ da pagare per l’escamotage attuato da C è l’arbitrarietà ontologica della sua compagine eternista, giacché se _ come egli sostiene _ <<il perfectum dei mali sarà per sempre vissuto come un bene>>, allora ne discendono per l’ETE le seguenti aporetiche conseguenze:

la presenza della sofferenza (del male: ogni tortura, abominio...) nella concezione di C _  s’è visto _ è  funzionale al/in vista del bene, quindi è  strumentalizzata <<PER EDIFICARE IL PARADISO>>, in quanto essa <<serve ad essere oltrepassata, consegnandosi, un frammento per volta, al passato>>, e visto che serve per questo preciso scopo,  la sofferenza è lo strumento  per conseguirlo, consistente tale scopo nel ristabilire o nel mantenere la <<Gioia dell'Essere>> senza <<macchia>> che possa inficiarne la <<Gioia>>.

Pertanto suona oltremodo bizzarra la nota di C:

<<NB: che il perfectum dei mali sia un bene non è da assimilare alla visione cristiana in cui Dio permette i mali onde ottenere un bene più grande. Ritengo immorale un tale progetto, e ciò che intendo io è la ripresa eterna e benevola che è tuttuno con l'Atto eterno di autoposizione>>.

Sebbene io pensi che sia maggiormente conforme al TEC ritener che Dio permetta i mali non per ottenere da o grazie ad essi un bene più grande bensì, permettendo i mali (per ragione a noi ignote), riesce ad ottenere un bene più grande nonostante  essi _ essendo tale bene più grande il procedere verso la realizzazione escatologica del Regno di Dio o della Nuova Creazione, com’è ben riassumibile nella frase di Jacques Bossuet: <<Dio scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini>> _, tuttavia, l’accusa di immoralità è un’accusa bislacca, perché ricade proprio su C, poiché, se per lui <<L'oltrepassamento delle cose negative [...] deve essere strutturato in modo tale che il compimento di esse equivalga ad una specifica positivizzazione>> _ ovvero il male si positivizzerebbe in bene _, allora ciò equivale in tutto e per tutto al Dio che <<permette i mali onde ottenere un bene più grande>>, poiché quel <<bene più grande>> ottenuto da Dio è esattamente <<una specifica positivizzazione>> del male pur presente nella concezione espressa da C, male tuttora presente e tollerato, permesso; perciò anche l’ETE <<permette i mali onde ottenere>> da essi <<una specifica positivizzazione>> ( = l’equivalente del biblico <<bene più grande>>), di modo che tra l’ETE e Dio (il quale <<permette i mali onde ottenere onde ottenere un bene più grande>>) non si dia nessuna differenza!

     Emerge quanto l’argomentare di C sia inquadrabile nell’atteggiamento dei ‘due pesi e due misure’, giacché, a parità di situazione ( = la presenza del male), il Dio biblico viene ritenuto <<immorale>>, l’altro (quello proposto da C) no!

Attribuire al TEC <<un tale progetto>> è da lui decisamente stigmatizzato come <<immorale>>; se invece è ritenuto intrinseco alla necessità dell’ETE, allora no, va tutto più che bene! È salutato come fosse la quintessenza dell’eticità!

Infatti, chi non si domanderebbe:

se è <<immorale>> il progetto che Dio permetta i mali <<onde ottenere un bene più grande>>, perché allora non sarebbe altrettanto <<immorale>> il progetto dell’ETE o del ‘dio’ <<Eminente>> che lo presiede, dal momento che anch’esso/i permette/ono i mali, il compimento dei quali consisterebbe nell’<<ottenere un bene più grande>>, equivalente perciò ad una loro <<specifica positivizzazione>>? ‘Mistero’ ( = da interpretarsi a piacimento come incoerenza? Ipocrisia? Faziosità? Ingenuità? Distrazione? Pregiudizio?). 

Inoltre, anche concedendo che sia attribuibile in toto <<alla visione cristiana>> il fatto che <<Dio permett[a] i mali onde ottenere un bene più grande>>, siamo davvero sicuri che sia <<immorale un tale progetto>>?

C lo ritiene tale perché già la permissione del male sarebbe essa stessa male.

Certo, in ambito per lo più cattolico si suol dire che <<Dio permette i mali onde ottenere un bene più grande>>.

Tuttavia, fermarsi qui, da parte di un critico, mi sembra ancora troppo poco.

Infatti, non ci è dato saper perché, per <<ottenere un bene più grande>>, sia indispensabile <<permettere i mali>>. Soltanto se fossimo in grado di rispondere a questo ‘perché’, il critico potrebbe emettere un qualche verdetto definitivo.

C potrebbe replicare che secondo il Cristianesimo, i mali devono permanere appunto/proprio perché da essi si possa ottenere un bene più grande!    

Ma perché per <<ottenere un bene più grande>> è indispensabile <<permettere i mali>>, dal momento che sarebbe possibile ottenere <<un bene più grande>> da un bene minore e/o dall’assenza dei mali?

Ribadendo che <<Dio permette i mali onde ottenere un bene più grande>>, C non ha ancora reso chiaro il perché sia inevitabile che <<un bene più grande>> lo si ottenga dai mali anziché dalla loro assenza...

Pertanto, la domanda si ripropone ad un livello antecedente:

perché, per <<ottenere un bene più grande>>, è indispensabile <<permettere i mali>>?

Non conoscendo la ragione di questo ‘perché’, dovremmo più opportunamente tornare a concludere (sempre con Dostoevskij) che <<È del tutto incomprensibile il motivo>> per il quale sarebbe indispensabile permettere i mali onde ottenere...

Perciò dovremmo sensatamente limitarci ad affermare che <<una tale verità non è di questo mondo e io non la capisco>>.

A quanto pare, invece, C pare conoscerne la ragione, altrimenti non si limiterebbe a definir <<immorale>> soltanto il <<progetto>> del Dio biblico bensì estenderebbe tale giudizio anche a quello del suo ‘dio’ o del teismo coeternista.

Egli però si guarda bene dal fare ciò; perché?

I casi sono due:

- o C conosce soltanto le ragioni dell’indispensabilità della permissione del male da parte del suo ‘dio’ ma non del Dio biblico;

- o che il <<progetto>> del suo ‘dio’ non sia <<immorale>> (appunto perché sfugge all’accusa di <<progetto immorale>>).

Sfortunatamente, mancano precise ed inequivocabili delucidazioni ad entrambe le alternative...

Per usare un’immagine: data la persistenza del male, la suddetta convinzione di C indirizzerebbe a ritenere <<immorale>> l’<<ottenere un bene più grande>> ( = la guarigione, il ripristino della salute) dalla presenza della malattia...

Certo, non si può pensare che le malattie debbano esserci affinché _ <<onde>> _ si possa da esse guarire ( = trarre un bene più grande dai mali); ma, come detto, non conoscendo il perché dell’indispensabilità di quella permissione, non si può non cercar di ottenere la guarigione dalla malattia...

Non sappiamo perché Dio consenta il persistere del male; tuttavia, poiché il male c’è, allora permetterlo per ottenere da esso un bene più grande, è il minimo strategico che ci si possa aspettare affinché il male via via scompaia, sia combattuto, assunto e ‘fagocitato’, ripristinando così la guarigione...

Risposta insoddisfacente/insufficiente/immorale?

Insoddisfacente ed insufficiente certamente ;

immorale no, finché non comprenderemo le ragioni di quella indispensabilità...

 

Roberto Fiaschi

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