L’<<occhio cieco>> è un’espressione del filosofo Emanuele Severino.
Di che si tratta?
Lo vediamo per gradi, cominciando dal prius, ossia dal ‘luogo’ per mezzo del
quale ciascuno di noi entra in contatto con i pensieri di un determinato
filosofo, scienziato, scrittore, etc.
Banalmente ma inevitabilmente,
tale luogo è costituito dai testi e/o dalle conferenze quale corpus
culturale (filosofico, letterario, etc.) ove vengono espresse le tesi e le
concezioni che ciascun filosofo (ma poi chiunque altro) intenda mettere a
conoscenza.
Pertanto, qui, vorrei intraprendere
un percorso critico su questo aspetto relativo alla testimonianza del
destino (o della verità) della quale quei testi e/o conferenze di Severino
costituiscono la prima (ed unica) fonte di approccio ad essa.
Ma intanto: perché ho testé
evidenziato la preposizione “di”?
Perché negli scritti di Severino è facile
imbattersi nella negazione che tali scritti siano appunto di Severino. Egli
sovente precisa: <<I cosiddetti “miei” scritti>>…
Questa negazione ha una ‘ragione’
teoretico/filosofica:
evitare a tutti i costi di associare il contenuto dei propri testi
ad <<un occhio
cieco>> (espressione di Severino, tratta dal suo libro: La
legna e la cenere. Rizzoli, Milano 1999) cui è, nell’ottica del filosofo
bresciano, ogni individuo o io empirico (incluso egli stesso,
ovviamente), in quanto ritenuto errore e come tale incapace di verità.
Per cui, a dire di Severino, che
egli sia l’autore degli scritti che portano il suo nome è soltanto una fede,
ossia internamente alla fede cui è la terra isolata, appare _ si
crede _ che egli ne sia l’autore, e questa fede è lo stesso apparire
dell’errore-individuo il quale non può non credervi.
Leggiamolo direttamente, sempre
dal summenzionato testo.
Severino, alla domanda:
<<Chi può dare
testimonianza della verità?>>,
risponde: <<Innanzitutto,
non è l'individuo che
testimonia, cioè pensa esplicitamente la verità. Se fosse l'individuo a
testimoniare la verità, allora la testimonianza sarebbe per definizione
individuale, cioè ridotta allo spazio, al tempo e ai limiti dell'individuo.
Bisogna vedere l'errore del concetto che "Io vado verso la verità" e
che "se mi va bene, a un certo momento la vedrò". No! Perché se
"Io" è ad esempio il sottoscritto, con questa struttura fisica
determinata, allora sarebbe come dire che un occhio cieco può vedere la verità. Perché un
occhio cieco? Appunto in quanto dominato dai condizionamenti che costituiscono
l'individuo. L'apparire
della verità non è la mia coscienza della verità. All'opposto: io
sono uno dei contenuti che appaiono. […] Invece dobbiamo dire che l'individuo è il non
illuminabile. Perché l'individuo
è errore. Se ci si rende conto che l'individuo è errore, allora la
verità non ha il compito di rendere verità l'errore. […] All'opposto, la
verità include me, e te, e gli altri come conformazioni specifiche dell'errore.
[D]: Ma io posso pormi oltre l'errore, una vota
riconosciutolo come tale...
[SEVERINO]: Non "io"... E' la
coscienza della verità ad essere oltre l'errore.
[D]: Questa coscienza per la quale la verità è,
è coscienza di chi?
[SEVERINO]: E' un tratto della verità. La
verità non è un atto soggettivo. Quindi siamo totalmente al di fuori del
concetto, poniamo, aristotelico, cristiano, marxiano, che intende la coscienza
come prodotto teorico dell'individuo. È contraddittorio che l'individuo sia cosciente della
verità. L'apparire della verità non è un atto individuale, ma è il
mostrarsi di ciò che appare. E il mostrarsi non è il mio atto di coscienza,
perché il 'mio' atto di coscienza è esso stesso una delle cose che si mostrano>> (parentesi quadre sempre mie: RF).
Abbiamo appena letto
un’affermazione di Severino, secondo la quale <<L'apparire della
verità non è un atto individuale, ma è il mostrarsi di ciò che appare>>.
Sorge immediata la domanda:
a chi (o a cosa) è riferito tale
<<mostrarsi>>?
All’errore/individuo/fede
Severino,
oppure
alla verità stessa?
La risposta fornita dall’errore/individuo/fede
Severino l’abbiamo appena letta:
la verità si mostra in se stessa,
cioè alla sola verità
o <<Io del destino>> giacché, afferma Severino:
<<io in quanto Io del destino, ossia in quanto Io sono la verità
stessa che appare in sé stessa, come contenuto di sé stessa>>.
Ora, anche riguardo a questa
risposta, vi è da domandarsi:
è essa la risposta di Severino in
quanto errore/individuo/fede,
oppure
è la risposta della verità?
Già, perché se fosse la risposta
di
Severino, come ciascuno di noi abitualmente ritiene allorché lo cita
riferendosi espressamente a
Severino anziché a Stephen King o a Mario Rossi, allora essa non
potrebbe vantare alcun titolo per ritenersi verità, in quanto proferita da un
errore/individuo/fede circa il quale la verità avrebbe sancito esser <<contraddittorio che l'individuo sia cosciente
della verità>>.
Ammettendo, invece, che sia la
risposta data dalla stessa verità, è innegabile che essa venga reperita
in quel corpus di scritti facenti capo a
quell’errore/individuo/fede cui è Severino il quale, però, in base alle sue
stesse premesse teoretiche, non può sapere trattarsi della verità (o
della risposta offerta dalla verità), poiché l’errore-Severino è <<un occhio cieco>>
che non può
<<vedere
la verità>>…
La replica pronta per questa
situazione aporetica consiste nel rilevare, sempre da parte
dell’errore-Severino, che l’errore presuppone la priorità della verità la
quale, perciò, appare sempre, anche quando appare l’errore/fede,
non essendo mai completamente obliata.
Nicoletta Cusano, nel suo
libro: Emanuele Severino. Oltre il nichilismo (Morcelliana 2011), riporta
il seguente brano del filosofo bresciano tratto da Oltrepassare, pag.
302:
<<A volte accade che il
linguaggio dei mortali, pur dicendo cose il cui senso è essenzialmente diverso
da quello al quale si rivolge il linguaggio (esso stesso mortale) che testimonia
il destino della verità, risuoni
in modo che sia possibile sentire
nelle sue parole qualcosa di radicalmente diverso _ addirittura il destino
della verità. Da che cosa sia reso possibile rimane un problema>>.
Tuttavia, lo stesso Severino ebbe
a precisare che l’errore/io empirico-Severino <<proprio perché è fede,
è destinato a non
sentire la verità: in quanto ascoltata da “me”, cioè dalla fede in cui “io” come individuo
mortale consisto, la verità non
può essere verità, e io
sono destinato ad
essere soltanto il desiderio, in indefinitum, della verità>>.
- (La struttura originaria, pag. 89).
Bisogna decidersi riguardo al <<problema>>
indicato da Severino:
AUT l’errore/io empirico/fede è
<<destinato a non
sentire la verità in quanto ascoltata da “me”>>;
AUT all’errore/io empirico/fede è
<<possibile sentire>>
il destino della verità nel linguaggio dell’errore.
Se gli è dunque possibile, allora non
è vero che l’errore/io empirico/fede sia <<destinato a non sentire la verità>>!
In quest’ultimo caso verrebbe a
cadere la tesi severiniana circa l’abissale dicotomia tra <<Io
del destino>> ( = la verità) ed io individuale ( = l’errore/fede), in
quanto sarebbe già sufficiente quest’ultimo per <<essere cosciente del
proprio essere veritativo>>.
Se, invece, all’errore/io
empirico/fede non è mai
possibile <<essere cosciente del proprio essere veritativo>>,
allora cade la tesi severiniana secondo la quale nel <<linguaggio dei
mortali>> sia possibile ascoltare <<qualcosa di radicalmente
diverso _ addirittura il destino della verità>>.
Insomma, Severino è ben conscio
del vicolo cieco in cui si è infilato, sforzandosi di non vederne l’intrinseca aporeticità
cui è il rapporto io-empirico-errore-fede//Io-del-destino-verità, tant’è vero che si
ritrova poi costretto a smussare la tesi secondo la quale l’errore/io
empirico/fede è <<destinato a non sentire la verità in quanto ascoltata da “me”>> per
accarezzare la tesi secondo la quale all’errore/io empirico/fede a volte è <<possibile sentire>>
il destino della verità nel linguaggio dell’errore, ammettendo che <<la
verità […] è necessario che sia in qualche modo presente nella non verità>>
(Severino; La Gloria, pag. 69).
Proseguiamo con la Cusano:
<<La testimonianza attuale del destino è affermazione della impossibilità che l’io mortale [l’io
dell’individuo] comprenda la verità del destino
porta con sé la necessità di abbandonare
ogni velleità veritativa in relazione alla propria coscienza individuale>>.
(Cusano; op. cit., pag. 437).
Più chiaro di così non è dato
scrivere;
per cui il <<linguaggio
(esso stesso mortale) che testimonia il destino della verità>> non è possibile
che <<risuoni
in modo che sia possibile sentire
nelle sue parole qualcosa di radicalmente diverso _ addirittura il destino
della verità>>, giacché <<nel mortale quella presenza [della
verità] è e non può che essere inconscia. La verità nella non verità è presente in modo indiretto.
Se fosse presente direttamente, sarebbe posta e saputa come verità, e dunque
non saremmo nella non verità [quindi, poiché siamo <<nella non
verità>>, allora la verità non può esser <<posta e saputa
come verità>> né, perciò, potrà mai esser testimoniata da Severino].
La presenza, necessaria, del destino [cioè della verità] nel mortale [nell’errore/individuo]
non può che essere inconscia proprio perché non è diretta: sarebbe
saputa come tale, solo
[segue citazione di Severino tratta da La Gloria, pag. 69 ->] “se
la verità _ che è necessario che sia in qualche modo presente nella non
verità _ fosse direttamente presente nella non verità”>>.
(Cusano, op. cit., pag. 444).
Infatti, il <<linguaggio
(esso stesso mortale) che testimonia il destino della verità>> è
<<il linguaggio malato>>
tramite il quale affiora il <<pensiero malato>> latore della
<<verità del destino>> e, di tale pensiero, la Cusano
afferma incredibilmente che <<Seguendo il linguaggio [malato!] che
testimonia il destino si deve sostenere [che] non solo è necessario che
la verità del destino affiori nel pensiero malato, ma è anche necessario che da quel pensiero essa [la
verità] non possa
essere compresa: è
impossibile che nel linguaggio della terra isolata [quindi
nell’errore/individuo] ci
sia comprensione della verità del destino, anche se formalmente le sue
parole suonano identiche al linguaggio che testimonia il destino. È cioè
necessario che il linguaggio
malato, proprio in quanto tale, non le possa comprendere. Anche se le parole
del linguaggio malato suonano simili a quelle del linguaggio che
testimonia il destino, e simili in maniera così impressionante da poter vedere
in ciò una certa “problematicità”, si deve affermare la necessaria formalità di quella identità>>.
(Cusano, op. cit., pag. 446).
Senonché, avendo posto come
necessario <<che da
quel pensiero essa [la verità] non possa essere compresa>>, e cioè
che <<è impossibile
che nel linguaggio della terra isolata [ = nell’errore/individuo] ci sia
comprensione della verità del destino>>, è allora contraddittorio
pretender che <<Seguendo il linguaggio [anch’esso malato!] che
testimonia il destino si deve sostenere [che] è necessario che la verità
del destino affiori nel pensiero malato>>, giacché quest’ultima pretesa è pur
sempre una <<comprensione della verità del destino>> da
parte di chi non può comprenderLa ossia del <<linguaggio della terra
isolata>>!
Prosegue inoltre a pag. 447: se
<<il linguaggio mortale che suona identico a quello che testimonia il
destino è necessariamente un affiorare rovesciato (e dunque sviante) dell’inconscio
dell’inconscio (e che sia rovesciato significa che sono impossibili lampi di comprensione autentica)>>,
allora <<Si deve pertanto concludere che nel pensiero dell’isolamento
un lampo di
comprensione autentica è impossibile (nello stesso senso e per lo
stesso motivo per cui lo si deve escludere in relazione all’io dell’individuo): è necessario che,
all’interno del suo isolamento dalla verità del destino, il pensiero mortale [dell’io
individuale, dunque] fraintenda,
sempre e
inevitabilmente, le tracce della Gioia. Se dunque “anche
nell’isolamento della terra il destino lascia la propria traccia”, questa “non può non essere ambigua,
sviante, cioè non
può condurre gli abitatori della terra isolata alla luce del destino.
Altrimenti la terra non sarebbe isolata”>>.
La sequenza di contraddizioni
presente in queste tesi consiste nella posizione di un <<pensiero malato>>
che attraverso un <<linguaggio malato>> ( = gli scritti
dell’errore-Severino) testimonierebbe in modo non-malato la necessità che la
verità ( = la non-malattia) affiori nella malattia ( = nel linguaggio malato) in modo
non-malato (altrimenti affiorerebbe una verità malata, ossia una non-verità)
onde, tale verità, venga compresa da quell’errore cui è Severino (ed ogni altro
io empirico) senza poterla, però, affatto comprendere, giacché quella stessa
verità <<è affermazione della impossibilità che l’io mortale comprenda la verità del destino>>, cosicché essa
si annunci a chi è costitutivamente impossibilitato a comprenderLa (e quindi a
scriverNe)!
Non solo, ma se <<Nell’apparire
rovesciato in cui
consiste la coscienza malata
del nichilismo la verità non può che apparire alterata>>
(pag. 446), allora il suddetto <<pensiero malato>> (dell’errore/io
empirico-Severino) non può neppure testimoniare in modo non-malato
( = cioè alethico) la necessità che la verità ( = la non-malattia) affiori
nella malattia
( = nel linguaggio malato)
in modo non-malato (appunto perché essa appare <<alterata>>)!
A questo punto, la precisazione
che il destino _ ciascuno di noi in quanto sarebbe anche <<Io del
destino>> _ sia <<autoapparire>>, cosicché sia escluso l’apparir di esso
all’errore/individuo,
rende tutto ancor più surreale e aporetico: <<L’io
dell’individuo è un contenuto della follia, un fascio di convinzioni
contraddittorie. [...] Nello sguardo del destino l’io dell’individuo è errore, e perciò a esso non può apparire il destino
della verità. Ma qui si rifletta sull’espressione linguistica “a esso”:
l’io non è ciò “a cui” qualcosa appare, ma è l’apparire del destino, ossia
l’apparire che il destino è: il destino è autoapparire. L’esser “Io” del destino è questo
autoapparire. Severino mostra che, qualora si intenda l’apparire come “apparire
a”, ci si chiude
nella cattiva infinità, determinata dall’impossibilità che apparente [ =
ciò che appare] e destinatario [ = l’io individuale] di
quell’apparire si incontrino: se l’apparire che è il destino apparisse “a”,
tale destinatario dovrebbe a sua volta essere apparire, che, come tale,
dovrebbe apparire “a”; anche quest’ultimo destinatario, in quanto apparire,
dovrebbe apparire “a”, e così via all’infinito. L’io individuale è un essente
della follia e il destino non
appare “a”, ma è apparire a sé: l’apparire non può che essere apparire a sé, autoreferenzialità>>
dell’Io del destino. (Cusano, pag. 297).
Surreale e aporetico, perché ciò
ci costringerebbe a prospettare la bizzarra evenienza secondo la quale ogni
qual volta l’errore/individuo Severino parli e scriva del destino, in
realtà a parlarNe ed a scriverNe sarebbe sempre e soltanto l’io del destino ( =
la verità) che però non pare possa parlare né scrivere se non per mezzo
dell’errore/fede/individuo-Severino.
Epperò questi, in quanto io
empirico, non può comprendere la verità del destino di cui va
descrivendone la struttura, quindi neppure può parlarNe/scriverNe tout
court.
Insomma, una sorta di schizofrenìa
ontologica, ove l’errore/individuo-Severino si ritrova a scrivere quasi ‘sotto
dettatura’ come un amanuense privo di coscienza circa il valore alethico di ciò
che va scrivendo, cosicché la mano destra ( = l’io empirico-Severino)
non possa sapere che cosa scriva la mano sinistra ( = l’io del destino) e,
nonostante ciò, pretenda di saperNe scrivendone…
D’altronde, è già inverosimile di
per sé che negli scritti severiniani sia l’autoapparire del destino a darsi testimonianza,
se non altro perché ciò non spiegherebbe la presenza di tesi erronee poi
successivamente corrette o abbandonate dallo stesso errore/individuo-Severino.
E che Severino cerchi
strenuamente di ritagliarsi una deroga per se stesso (come chiaro segnale
della consapevolezza di una irrisolvibile aporia), lo si evince anche da quanto
segue, ove egli osserva che
<<a esso
[all’errore/individuo-Severino] non può apparire il destino della
verità>>, data l’<<impossibilità che l’io mortale [Severino]
comprenda la verità del destino>>, tuttavia <<Nel
linguaggio [di Severino, perciò <<a esso>>,
all’errore/individuo-Severino] può però farsi innanzi già ora, a volte, il senso autentico del
destino. Nel linguaggio _ perché nel profondo di ogni uomo quel senso è già da
sempre manifesto>>.
Dunque, questa eccezione
che Severino presume di sé evidenzia innanzitutto come sia proprio
l’errore/individuo-Severino a testimoniare la verità del destino (anziché
indurre a ritener che sia un fantomatico <<autoapparire>>),
giacché egli, qui, sta riferendosi al suo linguaggio, quello leggibile
nei suoi
libri e attraverso i quali si farebbe <<innanzi già ora, a
volte, il senso autentico del destino>>, cosicché l’io
mortale-Severino sia esonerato dall’<<impossibilità>> che il suo io mortale
<<comprenda la verità del destino>>:
curiosamente, un’impossibilità
per lui non valida…
Poiché così, allora risulta
sostanzialmente falsa
la tesi severiniana che recita: <<[L]’io individuale non può pensare la verità
del destino, anche se questa è, come inconscio dell’inconscio, la verità del
suo apparire ed essere: l’io dell’individuo non è e non può essere cosciente del proprio essere veritativo. Tale
coscienza appartiene solo
all’Io del destino>>.
Giacché ad asserire ciò è innegabilmente
sempre e soltanto l’errore/individuo-Severino il quale, perciò, mostra di
sapere ciò che in quanto errore/individuo non può sapere.
Nel prossimo post esamineremo il pensiero malato
riverberantesi nel linguaggio malato che testimonierebbe il destino…
Roberto Fiaschi
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