sabato 21 gennaio 2023

3)- “L’OCCHIO CIECO” E LA TESTIMONIANZA DELLA VERITÀ DEL DESTINO

L’<<occhio cieco>> è un’espressione del filosofo Emanuele Severino.

Di che si tratta?

Lo vediamo per gradi, cominciando dal prius, ossia dal ‘luogo’ per mezzo del quale ciascuno di noi entra in contatto con i pensieri di un determinato filosofo, scienziato, scrittore, etc.

Banalmente ma inevitabilmente, tale luogo è costituito dai testi e/o dalle conferenze quale corpus culturale (filosofico, letterario, etc.) ove vengono espresse le tesi e le concezioni che ciascun filosofo (ma poi chiunque altro) intenda mettere a conoscenza.

Pertanto, qui, vorrei intraprendere un percorso critico su questo aspetto relativo alla testimonianza del destino (o della verità) della quale quei testi e/o conferenze di Severino costituiscono la prima (ed unica) fonte di approccio ad essa.

Ma intanto: perché ho testé evidenziato la preposizione “di”?

Perché negli scritti di Severino è facile imbattersi nella negazione che tali scritti siano appunto di Severino. Egli sovente precisa: <<I cosiddetti “miei” scritti>>…

Questa negazione ha una ‘ragione’ teoretico/filosofica:

evitare a tutti i costi di associare il contenuto dei propri testi ad <<un occhio cieco>> (espressione di Severino, tratta dal suo libro: La legna e la cenere. Rizzoli, Milano 1999) cui è, nell’ottica del filosofo bresciano, ogni individuo o io empirico (incluso egli stesso, ovviamente), in quanto ritenuto errore e come tale incapace di verità.

Per cui, a dire di Severino, che egli sia l’autore degli scritti che portano il suo nome è soltanto una fede, ossia internamente alla fede cui è la terra isolata, appare _ si crede _ che egli ne sia l’autore, e questa fede è lo stesso apparire dell’errore-individuo il quale non può non credervi.

Leggiamolo direttamente, sempre dal summenzionato testo.

Severino, alla domanda:

<<Chi può dare testimonianza della verità?>>,

risponde: <<Innanzitutto, non è l'individuo che testimonia, cioè pensa esplicitamente la verità. Se fosse l'individuo a testimoniare la verità, allora la testimonianza sarebbe per definizione individuale, cioè ridotta allo spazio, al tempo e ai limiti dell'individuo. Bisogna vedere l'errore del concetto che "Io vado verso la verità" e che "se mi va bene, a un certo momento la vedrò". No! Perché se "Io" è ad esempio il sottoscritto, con questa struttura fisica determinata, allora sarebbe come dire che un occhio cieco può vedere la verità. Perché un occhio cieco? Appunto in quanto dominato dai condizionamenti che costituiscono l'individuo. L'apparire della verità non è la mia coscienza della verità. All'opposto: io sono uno dei contenuti che appaiono. […] Invece dobbiamo dire che l'individuo è il non illuminabile. Perché l'individuo è errore. Se ci si rende conto che l'individuo è errore, allora la verità non ha il compito di rendere verità l'errore. […] All'opposto, la verità include me, e te, e gli altri come conformazioni specifiche dell'errore.
[D]: Ma io posso pormi oltre l'errore, una vota riconosciutolo come tale...
[SEVERINO]: Non "io"... E' la coscienza della verità ad essere oltre l'errore.
[D]: Questa coscienza per la quale la verità è, è coscienza di chi?
[SEVERINO]: E' un tratto della verità. La verità non è un atto soggettivo. Quindi siamo totalmente al di fuori del concetto, poniamo, aristotelico, cristiano, marxiano, che intende la coscienza come prodotto teorico dell'individuo. È contraddittorio che l'individuo sia cosciente della verità. L'apparire della verità non è un atto individuale, ma è il mostrarsi di ciò che appare. E il mostrarsi non è il mio atto di coscienza, perché il 'mio' atto di coscienza è esso stesso una delle cose che si mostrano
>> (parentesi quadre sempre mie: RF).

Abbiamo appena letto un’affermazione di Severino, secondo la quale <<L'apparire della verità non è un atto individuale, ma è il mostrarsi di ciò che appare>>.

Sorge immediata la domanda:

a chi (o a cosa) è riferito tale <<mostrarsi>>?

All’errore/individuo/fede Severino,

oppure

alla verità stessa?

La risposta fornita dall’errore/individuo/fede Severino l’abbiamo appena letta:

la verità si mostra in se stessa, cioè alla sola verità o <<Io del destino>> giacché, afferma Severino: <<io in quanto Io del destino, ossia in quanto Io sono la verità stessa che appare in sé stessa, come contenuto di sé stessa>>.

Ora, anche riguardo a questa risposta, vi è da domandarsi:

è essa la risposta di Severino in quanto errore/individuo/fede,

oppure

è la risposta della verità?

Già, perché se fosse la risposta di Severino, come ciascuno di noi abitualmente ritiene allorché lo cita riferendosi espressamente a Severino anziché a Stephen King o a Mario Rossi, allora essa non potrebbe vantare alcun titolo per ritenersi verità, in quanto proferita da un errore/individuo/fede circa il quale la verità avrebbe sancito esser <<contraddittorio che l'individuo sia cosciente della verità>>.

Ammettendo, invece, che sia la risposta data dalla stessa verità, è innegabile che essa venga reperita in quel corpus di scritti facenti capo a quell’errore/individuo/fede cui è Severino il quale, però, in base alle sue stesse premesse teoretiche, non può sapere trattarsi della verità (o della risposta offerta dalla verità), poiché l’errore-Severino è <<un occhio cieco>> che non può <<vedere la verità>>…

La replica pronta per questa situazione aporetica consiste nel rilevare, sempre da parte dell’errore-Severino, che l’errore presuppone la priorità della verità la quale, perciò, appare sempre, anche quando appare l’errore/fede, non essendo mai completamente obliata.

Nicoletta Cusano, nel suo libro: Emanuele Severino. Oltre il nichilismo (Morcelliana 2011), riporta il seguente brano del filosofo bresciano tratto da Oltrepassare, pag. 302:

<<A volte accade che il linguaggio dei mortali, pur dicendo cose il cui senso è essenzialmente diverso da quello al quale si rivolge il linguaggio (esso stesso mortale) che testimonia il destino della verità, risuoni in modo che sia possibile sentire nelle sue parole qualcosa di radicalmente diverso _ addirittura il destino della verità. Da che cosa sia reso possibile rimane un problema>>.

Tuttavia, lo stesso Severino ebbe a precisare che l’errore/io empirico-Severino <<proprio perché è fede, è destinato a non sentire la verità: in quanto ascoltata da “me”, cioè dalla fede in cui “io” come individuo mortale consisto, la verità non può essere verità, e io sono destinato ad essere soltanto il desiderio, in indefinitum, della verità>>. - (La struttura originaria, pag. 89).

Bisogna decidersi riguardo al <<problema>> indicato da Severino:

AUT l’errore/io empirico/fede è <<destinato a non sentire la verità in quanto ascoltata da “me>>;

AUT all’errore/io empirico/fede è <<possibile sentire>> il destino della verità nel linguaggio dell’errore.

Se gli è dunque possibile, allora non è vero che l’errore/io empirico/fede sia <<destinato a non sentire la verità>>!

In quest’ultimo caso verrebbe a cadere la tesi severiniana circa l’abissale dicotomia tra <<Io del destino>> ( = la verità) ed io individuale ( = l’errore/fede), in quanto sarebbe già sufficiente quest’ultimo per <<essere cosciente del proprio essere veritativo>>.

Se, invece, all’errore/io empirico/fede non è mai possibile <<essere cosciente del proprio essere veritativo>>, allora cade la tesi severiniana secondo la quale nel <<linguaggio dei mortali>> sia possibile ascoltare <<qualcosa di radicalmente diverso _ addirittura il destino della verità>>.

Insomma, Severino è ben conscio del vicolo cieco in cui si è infilato, sforzandosi di non vederne l’intrinseca aporeticità cui è il rapporto io-empirico-errore-fede//Io-del-destino-verità, tant’è vero che si ritrova poi costretto a smussare la tesi secondo la quale l’errore/io empirico/fede è <<destinato a non sentire la verità in quanto ascoltata da “me>> per accarezzare la tesi secondo la quale all’errore/io empirico/fede a volte è <<possibile sentire>> il destino della verità nel linguaggio dell’errore, ammettendo che <<la verità […] è necessario che sia in qualche modo presente nella non verità>> (Severino; La Gloria, pag. 69).

Proseguiamo con la Cusano: <<La testimonianza attuale del destino è affermazione della impossibilità che l’io mortale [l’io dell’individuo] comprenda la verità del destino porta con sé la necessità di abbandonare ogni velleità veritativa in relazione alla propria coscienza individuale>>. (Cusano; op. cit., pag. 437).

Più chiaro di così non è dato scrivere;

per cui il <<linguaggio (esso stesso mortale) che testimonia il destino della verità>> non è possibile che <<risuoni in modo che sia possibile sentire nelle sue parole qualcosa di radicalmente diverso _ addirittura il destino della verità>>, giacché <<nel mortale quella presenza [della verità] è e non può che essere inconscia. La verità nella non verità è presente in modo indiretto. Se fosse presente direttamente, sarebbe posta e saputa come verità, e dunque non saremmo nella non verità [quindi, poiché siamo <<nella non verità>>, allora la verità non può esser <<posta e saputa come verità>> né, perciò, potrà mai esser testimoniata da Severino]. La presenza, necessaria, del destino [cioè della verità] nel mortale [nell’errore/individuo] non può che essere inconscia proprio perché non è diretta: sarebbe saputa come tale, solo [segue citazione di Severino tratta da La Gloria, pag. 69 ->] “se la verità _ che è necessario che sia in qualche modo presente nella non verità _ fosse direttamente presente nella non verità”>>. (Cusano, op. cit., pag. 444).

Infatti, il <<linguaggio (esso stesso mortale) che testimonia il destino della verità>> è <<il linguaggio malato>> tramite il quale affiora il <<pensiero malato>> latore della <<verità del destino>> e, di tale pensiero, la Cusano afferma incredibilmente che <<Seguendo il linguaggio [malato!] che testimonia il destino si deve sostenere [che] non solo è necessario che la verità del destino affiori nel pensiero malato, ma è anche necessario che da quel pensiero essa [la verità] non possa essere compresa: è impossibile che nel linguaggio della terra isolata [quindi nell’errore/individuo] ci sia comprensione della verità del destino, anche se formalmente le sue parole suonano identiche al linguaggio che testimonia il destino. È cioè necessario che il linguaggio malato, proprio in quanto tale, non le possa comprendere. Anche se le parole del linguaggio malato suonano simili a quelle del linguaggio che testimonia il destino, e simili in maniera così impressionante da poter vedere in ciò una certa “problematicità”, si deve affermare la necessaria formalità di quella identità>>. (Cusano, op. cit., pag. 446).

Senonché, avendo posto come necessario <<che da quel pensiero essa [la verità] non possa essere compresa>>, e cioè che <<è impossibile che nel linguaggio della terra isolata [ = nell’errore/individuo] ci sia comprensione della verità del destino>>, è allora contraddittorio pretender che <<Seguendo il linguaggio [anch’esso malato!] che testimonia il destino si deve sostenere [che] è necessario che la verità del destino affiori nel pensiero malato>>, giacché quest’ultima pretesa è pur sempre una <<comprensione della verità del destino>> da parte di chi non può comprenderLa ossia del <<linguaggio della terra isolata>>!

Prosegue inoltre a pag. 447: se <<il linguaggio mortale che suona identico a quello che testimonia il destino è necessariamente un affiorare rovesciato (e dunque sviante) dell’inconscio dell’inconscio (e che sia rovesciato significa che sono impossibili lampi di comprensione autentica)>>, allora <<Si deve pertanto concludere che nel pensiero dell’isolamento un lampo di comprensione autentica è impossibile (nello stesso senso e per lo stesso motivo per cui lo si deve escludere in relazione all’io dell’individuo): è necessario che, all’interno del suo isolamento dalla verità del destino, il pensiero mortale [dell’io individuale, dunque] fraintenda, sempre e inevitabilmente, le tracce della Gioia. Se dunque “anche nell’isolamento della terra il destino lascia la propria traccia”, questa “non può non essere ambigua, sviante, cioè non può condurre gli abitatori della terra isolata alla luce del destino. Altrimenti la terra non sarebbe isolata”>>.

La sequenza di contraddizioni presente in queste tesi consiste nella posizione di un <<pensiero malato>> che attraverso un <<linguaggio malato>> ( = gli scritti dell’errore-Severino) testimonierebbe in modo non-malato la necessità che la verità ( = la non-malattia) affiori nella malattia ( = nel linguaggio malato) in modo non-malato (altrimenti affiorerebbe una verità malata, ossia una non-verità) onde, tale verità, venga compresa da quell’errore cui è Severino (ed ogni altro io empirico) senza poterla, però, affatto comprendere, giacché quella stessa verità <<è affermazione della impossibilità che l’io mortale comprenda la verità del destino>>, cosicché essa si annunci a chi è costitutivamente impossibilitato a comprenderLa (e quindi a scriverNe)!

Non solo, ma se <<Nell’apparire rovesciato in cui consiste la coscienza malata del nichilismo la verità non può che apparire alterata>> (pag. 446), allora il suddetto <<pensiero malato>> (dell’errore/io empirico-Severino) non può neppure testimoniare in modo non-malato ( = cioè alethico) la necessità che la verità ( = la non-malattia) affiori nella malattia ( = nel linguaggio malato) in modo non-malato (appunto perché essa appare <<alterata>>)!

A questo punto, la precisazione che il destino _ ciascuno di noi in quanto sarebbe anche <<Io del destino>> _ sia <<autoapparire>>, cosicché sia escluso l’apparir di esso all’errore/individuo, rende tutto ancor più surreale e aporetico: <<L’io dell’individuo è un contenuto della follia, un fascio di convinzioni contraddittorie. [...] Nello sguardo del destino l’io dell’individuo è errore, e perciò a esso non può apparire il destino della verità. Ma qui si rifletta sull’espressione linguistica “a esso”: l’io non è ciò “a cui” qualcosa appare, ma è l’apparire del destino, ossia l’apparire che il destino è: il destino è autoapparire. L’esser “Io” del destino è questo autoapparire. Severino mostra che, qualora si intenda l’apparire come “apparire a”, ci si chiude nella cattiva infinità, determinata dall’impossibilità che apparente [ = ciò che appare] e destinatario [ = l’io individuale] di quell’apparire si incontrino: se l’apparire che è il destino apparisse “a”, tale destinatario dovrebbe a sua volta essere apparire, che, come tale, dovrebbe apparire “a”; anche quest’ultimo destinatario, in quanto apparire, dovrebbe apparire “a”, e così via all’infinito. L’io individuale è un essente della follia e il destino non appare “a”, ma è apparire a sé: l’apparire non può che essere apparire a sé, autoreferenzialità>> dell’Io del destino. (Cusano, pag. 297).

Surreale e aporetico, perché ciò ci costringerebbe a prospettare la bizzarra evenienza secondo la quale ogni qual volta l’errore/individuo Severino parli e scriva del destino, in realtà a parlarNe ed a scriverNe sarebbe sempre e soltanto l’io del destino ( = la verità) che però non pare possa parlare né scrivere se non per mezzo dell’errore/fede/individuo-Severino.

Epperò questi, in quanto io empirico, non può comprendere la verità del destino di cui va descrivendone la struttura, quindi neppure può parlarNe/scriverNe tout court.

Insomma, una sorta di schizofrenìa ontologica, ove l’errore/individuo-Severino si ritrova a scrivere quasi ‘sotto dettatura’ come un amanuense privo di coscienza circa il valore alethico di ciò che va scrivendo, cosicché la mano destra ( = l’io empirico-Severino) non possa sapere che cosa scriva la mano sinistra ( = l’io del destino) e, nonostante ciò, pretenda di saperNe scrivendone…

D’altronde, è già inverosimile di per sé che negli scritti severiniani sia l’autoapparire del destino a darsi testimonianza, se non altro perché ciò non spiegherebbe la presenza di tesi erronee poi successivamente corrette o abbandonate dallo stesso errore/individuo-Severino.

E che Severino cerchi strenuamente di ritagliarsi una deroga per se stesso (come chiaro segnale della consapevolezza di una irrisolvibile aporia), lo si evince anche da quanto segue, ove egli osserva che

<<a esso [all’errore/individuo-Severino] non può apparire il destino della verità>>, data l’<<impossibilità che l’io mortale [Severino] comprenda la verità del destino>>, tuttavia <<Nel linguaggio [di Severino, perciò <<a esso>>, all’errore/individuo-Severino] può però farsi innanzi già ora, a volte, il senso autentico del destino. Nel linguaggio _ perché nel profondo di ogni uomo quel senso è già da sempre manifesto>>.

Dunque, questa eccezione che Severino presume di sé evidenzia innanzitutto come sia proprio l’errore/individuo-Severino a testimoniare la verità del destino (anziché indurre a ritener che sia un fantomatico <<autoapparire>>), giacché egli, qui, sta riferendosi al suo linguaggio, quello leggibile nei suoi libri e attraverso i quali si farebbe <<innanzi già ora, a volte, il senso autentico del destino>>, cosicché l’io mortale-Severino sia esonerato dall’<<impossibilità>> che il suo io mortale <<comprenda la verità del destino>>:

curiosamente, un’impossibilità per lui non valida…

Poiché così, allora risulta sostanzialmente falsa la tesi severiniana che recita: <<[L]’io individuale non può pensare la verità del destino, anche se questa è, come inconscio dell’inconscio, la verità del suo apparire ed essere: l’io dell’individuo non è e non può essere cosciente del proprio essere veritativo. Tale coscienza appartiene solo all’Io del destino>>.

Giacché ad asserire ciò è innegabilmente sempre e soltanto l’errore/individuo-Severino il quale, perciò, mostra di sapere ciò che in quanto errore/individuo non può sapere.

Nel prossimo post esamineremo il pensiero malato riverberantesi nel linguaggio malato che testimonierebbe il destino…

 

Roberto Fiaschi

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