Riporto
questo interessantissimo articolo di Gabriele Campagnano - Febbraio
6, 2018, tratto dalla pagina:
Gli strumenti di tortura medievale, specie
quelli attribuiti all’Inquisizione – senza neanche specificare di quale
Inquisizione si tratti – suscitano da sempre un interesse profondo, a
volte morboso, da parte del grande pubblico.
Molti di voi hanno
visitato i musei della tortura e ci hanno chiesto quale sia la veridicità o
verosimiglianza storica degli strumenti di tortura esposti. La risposta è
abbastanza semplice: si tratta di obbrobri senza alcun valore storico che appestano
diverse città italiane e, incredibile dictu, riescono a ottenere
patrocini regionali, del FAI e addirittura di ONG piuttosto famose.
Un’affermazione tranciante, la mia, pienamente giustificata alla luce di quanto
leggerete qui sotto.
Il primo dato che
accende sincera meraviglia è l’assoluta mancanza di testimonianze archeologiche
o documentali sugli strumenti di tortura che vediamo esposti nei numerosissimi
“musei della tortura”. Quasi tutti hanno didascalie che ne spiegano l’uso da
parte dell’Inquisizione Romana o di altri tribunali inquisitori.
Ci si aspetterebbe,
quindi, di trovare almeno una menzione della Vergine di Norimberga o
della Forcella dell’Eretico nel Philippi a Limborch
Historia inquisitionis: cui subjungitur liber sententiarum inquisitionis
tholosanae ab anno Christi MCCCVII ad annum MCCCXXIII, scritto da Philippus
van Limborch nel 1692, un teologo protestante fortemente critico della Chiesa.
Oppure di scoprire, tra le pagine di A history of the Inquisition of
the Middle Ages, redatto dallo storico statunitense Henry Charles Lea
e pubblicato a partire dal 1887, una breve trattazione della Pear of
Anguish. E invece niente. Nei venti testi presenti nella bibliografia in
calce all’articolo, così come in altre decine da noi visionati, non c’è traccia
di questi strumenti. Si rende quindi necessaria un’analisi dei singoli
strumenti.
LA PERA
VAGINALE
Gli hanno dedicato
paragrafi in riviste, libri e articoli. Fa bella mostra di sé nei (penosi)
“musei della tortura”. La citano migliaia di siti e pagine web come uno degli
strumenti di tortura dell’Inquisizione. Peccato che non sia mai stata
utilizzata. In realtà, la pera vaginale (o “poire d’angoisse” o “pear of
anguish”) non è mai esistita fino alla costruzione delle prime repliche nel XIX
secolo.
Nei verbali
dell’Inquisizione dal Cinquecento in poi non se ne trova traccia (e chiunque li
abbia avuto sottomano sa perfettamente quanto siano precisi). Stesso dicasi per
le altre fonti dell’epoca, compresi i diari di carnefici del potere civile come Franz Schmidt, le enciclopedie mediche, ecc.
La troviamo menzionata
per la prima volta ne L’Inventaire général de l’histoire des larrons (L’Inventario
generale della Storia dei Ladri) di F. de Calvi, pubblicato nel 1629. È una
citazione, tra l’altro, molto contestata, perché si tratta, in quel caso, di
una pera orale utilizzata per non far gridare le vittime durante una rapina. La
sua invenzione è attribuita a un ladro di nome Palioli, originario di Tolosa.
In realtà, anche molti studiosi dei secoli successivi hanno dubitato che “la
Pera fosse mai esistita fuori dalla testa di de Calvi”.
Tra il Settecento e la
fine dell’Ottocento la “pera orale” viene ricordata sporadicamente come
strumento per tenere in silenzio le vittime utilizzato per qualche tempo nel
XVII secolo da alcuni briganti europei (olandesi o francesi).
Gli esemplari più
antichi di poire d’angoisse sono conservati in diversi musei
europei a americani. Quella del Louvre, appartenente alla collezione del
musicista Alexander-Charles Sauvageot, risale probabilmente
al 1800-1830, ed è stata catalogata nel 1856. Quella del Museo di Boston è
dello stesso periodo. Tutte le altre sono state realizzate su commissione tra
la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso. Uno dei tanti strumenti di
tortura immaginari, quindi.
Ed è proprio tra fine
Ottocento e primi del Novecento che la Pera Vaginale inizia a trovare posto in
quella rievocazione dei Cabinet of Curiosities che sono i “musei della tortura” e,
da lì, in volumi divulgativi sull’Inquisizione e le torture medievali. Il
sentimento anticlericale ha fatto, lentamente, il resto. Molti autori,
probabilmente guidati da un interesse morboso, hanno iniziato a fantasticare
sull’uso dello strumento per dilaniare vagine e orifizi anali di streghe e
seguaci del demonio. Questo senza neanche considerare che un attrezzo del
genere, semmai fosse esistito, sarebbe stato da annoverare fra i mezzi di
esecuzione e non tra gli strumenti di tortura.
Un’assurdità che è
diventata quasi sapere comune. Non a caso,anche in una delle ultime
pubblicazioni relative all’argomento (Bishop, C. 2014, The ‘pear of
anguish’: Truth, torture and dark medievalism, International Journal of
Cultural Studies, vol. 17, no. 6, pp. 591-602) leggiamo che la pera fu
immaginata come “inseribile” anche in orifizi diversi dalla bocca solo
nell’Ottocento, e con il fine di sadico godimento sessuale.
Eppure basta una
ricerca su google per vederla etichettata come “strumento di tortura
medievale usata dall’Inquisizione sulle streghe” (difficile trovare più
errori storici in una sola frase!).
LA
VERGINE DI NORIMBERGA
La Vergine di
Norimberga ha suscitato le più sfrenate fantasie della cultura di
massa, ancora di più della Pear of Anguish, ed è presente in qualsiasi museo
della tortura in Italia e all’Estero. Spacciata come strumento medievale, è
stata in realtà creata solo nel XIX secolo, realizzata su commissione di
gentiluomini europei con il gusto per il “finto medioevo gotico”, fatto di
inquisitori con il cappuccio, streghe formose e un enorme quantitativo di
violenza e atrocità gratuite. Il castello di Otranto, di Horace Walpole,
pubblicato nel 1764, è stato forse il romanzo che più di ogni altro ha dato una
spinta a questo gusto, protrattosi fino all’epoca vittoriana.
Tornando alla Vergine,
il franchise “Museo della Tortura” la descrive così
La storia della tortura ricorda molti congegni che operavano
col principio del sarcofago antropomorfo a due ante e con aculei all’interno
che penetravano, con la chiusura delle ante, nel corpo della vittima. L’esempio
più famoso è la cosiddetta “Vergine di Ferro” [die eiserne Jungfrau] del
castello di Norimberga, distrutta dai bombardamenti del 1944.
In realtà, anche
quella andata distrutta nel 1944 era una contraffazione ottocentesca,
probabilmente del 1830-40. Ma andiamo con ordine.
Già molti visitatori
ottocenteschi ne sottolineano la falsità e il magro interesse storico della
Vergine. In Notes and Queries (Oxford University Press, 1893.
Pag. 354), J. Ichenhauser definisce la Iron Maiden come “… di nessun
interesse per storici e antiquari“. Questo 52 anni prima del bombardamento
alleato che ci ha privati di questo pezzo di poco valore.
Ma allora quale fu la
vera origine della Vergine di Ferro? Uno dei più importanti archivisti
tedeschi, Klaus Graf, in un lungo articolo del 2001, Mordgeschichten und Hexenerinnerungen – das boshafte
Gedächtnis auf dem Dorf, definisce la Vergine di Norimberga
come “una finzione del XIX secolo, perché solo nella prima metà del XIX
secolo gli schandmantel, a volti chiamati “vergini”, vennero dotati di aculei
interni; in seguito, questi oggetti furono adattati a morbose fantasie mitiche
e letterarie.”
La menzione dello Schandmantel
(o Schandtonne) traducibile come “Mantello/Barile della
Vergogna”, ci aiuta a fare chiarezza. Questo era infatti una sorta di barile
che le autorità civili facevano indossare, in alcuni casi, a prostitute e altri
soggetti, con lo scopo di impartire loro una pubblica umiliazione. Morbose
fantasie, come dice bene il Graf, e fantasie molto più semplici relative
all’orrore e al sacrilego (non di per sé negative, altrimenti non avremmo avuto
autori come Lovecraft, Poe, ecc.), hanno preso lo shandmantel come base di
partenza per creare qualcos’altro.
Non solo non è
arrivata fino a noi una Vergine di Ferro costruita prima della fine del XIX
secolo, ma anche in tutte le cronache cittadine, i manuali inquisitori, le
procedure dei processi gestiti dal potere secolare, non si trova neanche un
accenno al dispositivo. Anche nel diario del più famoso boia del
Cinque-Seicento, Franz Schmidt (vedi “A Hangman’s Diary: The Journal of
Master Franz Schmidt, Public Executioner” e “I Padroni dell’Acciaio“)
non si trova nulla, sebbene egli abbia descritto in modo puntuale ogni
punizione ed esecuzione portata a termine (senza mai tralasciare i particolari
più raccapriccianti) nei suoi 40 anni di carriera (1578-1617).
LA
FORCELLA DELL’ERETICO
Strumento di tortura
meno conosciuto – più che altro a causa delle dimensioni ridotte (rispetto
alla Vergine di Norimberga) e della mancanza di fini sessuali (Pear
of Anguish) – ma altrettanto falso è rappresentato dalla Forcella
dell’Eretico. Nel volume (senza alcun valore storico) “La storia dell’inquisizione”
di Carlo Havas è presente una “forchetta o forcella dell’eretico” che non
trova riscontro in alcuna fonte.
Con la Forcella, tra
l’altro, inizia anche la serie di falsi datati 1983 (quindi falsi
recentissimi), di cui si ha una prima citazione in “Catalogo della mostra di
strumenti di tortura, 1400-1800: nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze,
dal 14 maggio a metà settembre, 1983″ – si tratta, a quanto
sembra, della prima mostra organizzata dalla società che ora possiede diversi
musei della tortura in Italia e all’estero- e nel successivo “Inquisition:
A Bilingual Guide to the Exhibition of Torture Instruments from the Middle Ages
to the Industrial Era, Presented in Various European Cities in 1983-1987,
Firenze, 1985, entrambi redatti da Robert Held.
La Forcella
dell’Eretico presenta come una doppia forchetta legata al collo, con le punte
rivolte sotto il mento e al petto. Il sito de Il Museo della Tortura, gestito
dalla Inquisizione s.r.l. (!!!), lo definisce così:
Con le quattro punte acutissime conficcate profondamente
nella carne sotto il mento e sopra lo sterno veniva impedito qualsiasi
movimento della testa: la vittima poteva soltanto bisbigliare “abiuro” (parola
questa che ha il significato di rinunzia ad altra religione o dottrina che non
sia quella cristiana).
A parte la
menzione alla “dottrina cristiana” senza specificare se si trattasse di
strumento dell’Inquisizione Romana o di un tribunale protestante, fa sorridere
il fatto che, partendo da questa storia della parola sospirata “abiuro”, altri
“musei” abbiano addirittura fatto creare dei pezzi che riportano la scritta
“abiuro” incisa sul ferro. Le fonti wikipedia per “heretic fork” sono
grottesche: un museo della tortura fasullo e la pagina di un negozio online che
vende repliche (per giunta maldestre).
Un altro falso del secolo scorso. Molto forte dal punto di
vista immaginifico ma pur sempre un falso.
Anche in questo caso
nessun libro, di quelli conosciuti volgarmente come “manuali
dell’Inquisizione”, parla di questo strumento. Dal Malleus Maleficarum al Sacro
Arsenale di Eliseo Masini, fino all’opera anticlericale di Henry
Charles Lea A history of the Inquisition of the Middle Ages, e
alla Storia dell’Inquisizione di Tamburini, nessuno fa
menzione di un dispositivo anche solo lontanamente simile alla Forcella
dell’Eretico.
In pratica, è
possibile che lo abbiano fatto costruire di sana pianta prendendo come
canovaccio il libro di Havas, senza neanche rifarsi, quindi, ai falsi
vittoriani. Il falso esposto dal “museo” della tortura è stato poi riproposto
in un famoso dipinto di Leon Golub nel 1985.
LA
SEDIA INQUISITORIA
Che qualcuno abbia
potuto credere a una cosa del genere è, dal punto di vista storico, a dir poco
mortificante. La Sedia Inquisitoria unisce influenze indiane provenienti
dall’Impero Britannico al solito Medioevo Vittoriano, e, ovviamente, non se ne
fa menzione in alcun volume dedicato alla prassi inquisitoriale, né ad altre
fonti dal XIII al XVIII secolo.
L’idea stessa di
inquisitori disposti a spendere cifre enormi per realizzare un simile oggetto è
grottesca; il quantitativo di metallo utilizzato, poi, e la presenza di chiodi
fatti in serie lasciano presupporre una prima fabbricazione modernissima. È
quantomeno sospetto che le prime riproduzioni della Sedia Inquisitoria siano
del XX secolo, anzi, più precisamente, dell’ultimo quarto del secolo scorso.
LA
CULLA DI GIUDA
Almeno nel caso della
Culla di Giuda (Judaswiege o Judas Cradle), alcune pagine wikipedia,
come quella in italiano e in tedesco, riportano che si tratta di uno strumento
immaginario, stendendo un velo pietoso sull’origine del mito. D’altronde,
immaginare un trabiccolo del genere, per cui era necessario l’impiego di
diverse persone, 4 funi e un puntale di legno per dilaniare l’ano del
malcapitato, è fisicamente difficile da immaginare.
A prescindere,
comunque, dai problemi strutturali dell’attrezzo, è necessario fare il solito
lavoro sulle fonti per dimostrare che non fu mai utilizzato o anche solo
concepito prima del XIX secolo. La prima menzione? Immagino ci siate arrivati
da soli ormai: “Catalogo della mostra di strumenti di tortura, 1400-1800:
nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre,
1983“.
La prima menzione de La Culla di Giuda è anch’essa del 1983.
Curioso no?
Per quanto riguarda
l’incisione spesso riportata nella didascalia di questo oggetto, datata al XVII
o XVIII secolo a seconda del “museo”, non sono stato in grado di reperirla in
nessun manuale. Probabilmente, alla base c’è l’illustrazione contenuta
nel De visitatione carceratorum (1655), a pagina 42
dell’appendice, di Battista Scarnaroli, che parla di un supplizio della veglia
impartito, in rare occasioni, nelle carceri romane di metà Seicento.
L’illustrazione
effettivamente assomiglia a quella qui sopra, ma leggendo la descrizione si
notano diversi particolari che fanno presumere un disegno approssimativo e poco
veritiero. In particolar modo, lo Scarnaroli precisa che si deve evitare a
tutti i costi ogni lacerazione alla persona e che la sommità della “culla” non
è un legno acuminato, ma una pietra a forma di diamante che abbia una sommità
larga abbastanza da permettere la seduta. La veglia può durare sei ore ed è
consigliato, dopo, di far stare al caldo il presunto reo e di nutrirlo con uova
e brodo di pollo per il gran freddo patito per le ore passate nudo sullo
sgabello.
A questo punto,
sarebbe interessante sapere di più degli autori di questo “Catalogo
della mostra di strumenti di tortura, 1400-1800: nella Casermetta di Forte
Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre, 1983″: Robert
Held, Tabatha Catte e Tobia Delmolino. Del primo, che vanta alcune
curatele in ambito oplologico, sono riuscito a reperire solo due dichiarazioni:
la prima riportata anche ne la pagina de L’Espresso qui sopra, in cui dice che
gli originali sono “difficili da reperire perché dopo l’entrata in vigore
del codice di Francesco III furono rimossi o distrutti“.
Più che “difficili”
avrebbe dovuto dire “impossibili”, ma la cosa bizzarra è ricondurre la
distruzione di ogni strumento di tortura degli ultimi otto secoli in tutta
Europa, nonché la cancellazione di ogni sua traccia da decine di migliaia di
volumi, alla legislazione di un Granduca di Toscana. La seconda è tratta
dal già citato “Inquisition: A Bilingual Guide to the Exhibition of Torture
Instruments from the Middle Ages to the Industrial Era, Presented in Various
European Cities in 1983-1987, Firenze, 1985“, e dà la misura delle
conoscenze storiche del soggetto:
Tra il 1450 e il 1700 tra i due e i quattro milioni
di donne finirono al rogo sia nell’Europa Cattolica che in quella
Protestante.
Una cifra ridicola,
equivalente a 45 donne al giorno per 250 anni consecutivi (1340 al mese!).
Robert Held comunque (non so se sia il padre del bravo fumettista Joshua Held)
deve essere stato a contatto con la fiction letteraria, visto che viene
ringraziato da Thomas Harris nel libro “Hannibal” (Harris è l’autore de Il
Silenzio degli Innocenti e seguiti). Di Tabatha Catte, che dovrebbe
aver curato la sola impaginazione, non si sa nulla, così come di Delmolino.
Ovviamente, per amore
della verità storica, saremmo felici di ricevere segnalazioni sulla presenza di
queste torture in fonti originali, in modo da effettuare eventuali correzioni.
Vi starete chiedendo,
a questo punto, quali fossero i veri strumenti di tortura dell’Inquisizione
Romana. A questi dedicheremo un apposito articolo, per ora possiamo anticipare
una porzione del capitolo dedicato alla tortura da Eliseo Masini nel Sacro Arsenale (1621). Da questo e
da altri volumi si evince chiaramente come la tortura più praticata fosse
quella della “corda” (o “strappado”), mentre per chi non era in grado di
sostenerla per problemi fisici, poteva essere sottoposto alla (dolorosissima)
fustigazione con bacchette di legno sui palmi delle mani o sulla pianta dei
piedi.
Tra l’altro, in pochi
sanno che la confessione sotto tortura doveva essere confermata ventiquattro
ore dopo, altrimenti rimaneva inaccettabile. E che, ad esempio, si utilizzava
la corda per evitare spargimenti di sangue, poiché si trattava di una delle
proibizioni più stringenti tra quelle che gravavano in capo
all’inquisitore. Ma per una trattazione più completa dovrete aspettare
ancora qualche giorno.
- Eliseo
Masini, Sacro arsenale, ouero, Prattica dell’officio della Santa
Inquisitione, 1621;
- F. de Calvi, L’Inventaire général de
l’histoire des larrons, 1629;
- Giovanni
Battista Scanaroli, De visitatione carceratorum, 1655;
- Philippus
van Limborch, Philippi a Limborch Historia inquisitionis: cui
subjungitur liber sententiarum inquisitionis tholosanae ab anno Christi
MCCCVII ad annum MCCCXXIII, 1692;
- Piazza, Girolamo Bartolomeo, A short and
true account of the Inquisition and its proceedings, as it is practis’d in
Italy, set forth in some particular cases : whereunto is added, an extract
out of an authentick book of legends of the Roman Church, 1722;
- Samuel Chandler, The history of
persecution : in four parts. Viz. I. Amongst the heathens. II. Under the
Christian emperors. III. Under the papacy and Inquisition. IV. Amongst Protestants, 1736;
- Archibald
Bower, Authentic Memoirs Concerning the Portuguese Inquisition,
1761;
- Modesto
Rastrelli, Fatti attenenti all’ Inquisizione e sua istoria
generale, e particolare di Toscana, 1782;
- Antonio Puigblanch, The Inquisition
Unmasked: Being an Historical and Philosophical Account of that Tremendous…,
1816
- Vari, Records
of the Spanish Inquisition : translated from the original manuscripts,
1828;
- C.
H. Davie, History of the Inquisition, from its establishment to
the present time, 1850;
- Pietro
Tamburini, Storia generale dell’Inquisizione, 1862;
- Henry Charles Lea, A history of the
Inquisition of the Middle Ages, 1887;
- George Lincoln Burr, Narratives of the
witchcraft cases, 1648-1706, 1914;
- Turberville,
Arthur Stanley, Medieval heresy & the inquisition, 1920;
- Alexander Herculano, History Of The
Origin And Establishment Of The Inquisition In Portugal, 1926
- Edward
Peters, Inquisition, 1989;
- Kamen
Henry, The Spanish Inquisition: A Historical Revision, 1999;
- E.
Brambilla, Alle origini del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e
giustizia spirituale dal medioevo al XVI secolo, 2000;
- Franco
Cardini, Marina Montesano, La lunga storia dell’inquisizione. Luci
e ombre della «leggenda nera», 2005;
- Andrea
Del Col, L‘inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, 2007;
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