Riporto alcune brevi affermazioni di Severino:
<<Ma la verità è verità solo in quanto non è qualcosa
di imposto alla coscienza. Prima ancora di essere violento con gli altri,
imponendo loro la sua verità, il credente di qualsiasi tipo è violento con
se stesso: credendo nella verità della propria fede, impone alla propria
coscienza qualcosa che, appunto perché imposto, cioè voluto e voluto come vero,
non può essere verità. […] La verità autentica – che
non è né nociva né innocente – non soffoca e non annienta la non verità: la lascia
assolutamente libera, non le impone alcunché; e scorge che in questa sua
libertà assoluta la non verità è autonegazione, ossia essa stessa presuppone,
proprio in quanto essa è non verità, la verità che vorrebbe negare; ed è
appunto e solo per questo carattere di autonegazione, essenzialmente posseduto
dalla non verità, che la verità è negazione della non verità>> - E. Severino, Pensieri sul cristianesimo,
Rizzoli.
A Severino neppure sfiora l’idea che un certo contenuto di fede possa essere accolto ( = creduto) con gioia, con
amore, con trepidazione, etc… senza che ciò implichi una qualche forma d’imposizione <<alla
propria coscienza>>.
La coscienza è accoglienza indiscriminata per definizione, direi quasi, uno
specchio che accoglie ciò che vi si pone ‘dinanzi’, giacché essa è ciò mediante
cui di volta in volta qualcosa è esperito,
noto, con-saputo, e per esser così noto, con-saputo ed esperito, tale qualcosa deve
prima di tutto venir in essa accolto, ossia la coscienza deve averne consapevolezza, salvo
poi, nella
vita dell’individuo, procedere coi propri assensi ed i propri rifiuti.
Perciò parlare di fede che si <<impone alla propria coscienza>> è un
perfetto non-senso,
nemmeno se tale presunta imposizione coincidesse con l’esser <<voluto
e voluto come vero>>, perché ciò che è voluto (desiderato,
amato, atteso…) non è mai imposto
alla propria coscienza, bensì da questa è accolto e conservato, il che
rappresenta una differenza abissale…
inoltre, sempre riguardo al <<voluto e voluto come vero>>,
vi è da dire che, nemmeno in questo caso, si scorge una qualche imposizione, poiché
ciò che accolgo
(quindi ciò che credo)
come <<vero>>, è ciò che non si lascia né dimostrare
razionalmente né confutare, ma solo di essere accolto.
Per cui ciò che chiede di essere accolto non chiede di imporsi, ripeto, ma
di essere ricevuto…
Severino vede tutto soltanto in termini di imposizione e
di violenza, giacché per lui tutto è violenza (come s’è già
avuto modo di constatare nel post n° 14), anche l’amore, e nonostante per lui tutto sia violenza
tranne il (suo) destino, bisognerà invece dire che tutto è violenza compreso (e
soprattutto) il (suo) destino, giacché la violenza è tale soltanto grazie al
destino, cioè in forza della sua ‘legge’ secondo la quale ogni ente è
identico a sé e differente dal proprio altro.
Legge che perciò eternizza ogni dolore, ogni imposizione,
ogni sofferenza in nome dell’inviolabilità ontologica del proprio esser ente
identico a sé.
Fondamentale
è appurare come l’autentica e non-annientabile violenza che Severino
attribuisce alla fede
(ma poi ad ogni/qualsiasi altro essente o positivo significare del nulla,
costituente tutto il mondo del mortale) sia innanzitutto
da ascrivere, compretamente e senza residui, proprio al destino severiniano.
Esso,
infatti, è il solo ed autentico violento, giacché annovera in sé come parte
imprescindibile di sé la violenza (in tutte le sue individuazioni), seppur
destinata ad esser oltrepassata (ma eternamente conservata come violenza
inviolabile cioè non-annientabile).
Non solo la
violenza è un ente (o un insieme di enti) eterno, ma altresì il destino
la invia nel
cerchio originario dell’apparire (cioè la invia all’essenza di ciò che ognuno
di noi sarebbe, sempre secondo Severino) ove appunto essa si squaderna nelle
innumerevoli forme di violenza/sofferenza delle quali siamo tutti
perfettamente quanto dolorosamente coscienti.
Pertanto il primo
ed il solo responsabile di ogni forma di violenza da noi esperita non può che essere il
destino severiniano.
Essendo
perciò parte eterna
ed incancellabile
del destino, ha ben poco senso affermare che <<La verità autentica – che non è né nociva né innocente – non
soffoca e non annienta la non verità: la lascia assolutamente libera, non le
impone alcunché>>, giacché la <<verità autentica>>
(severiniana) è tale proprio perché nega l’errore e la violenza senza annullarli,
cosicché la violenza (nelle vesti eufemistiche dell’ ‘errore’) sia eternamente necessaria alla
verità severiniana cosiddetta non-violenta (perché, come recita il brano di
Severino posto all’inizio del post, essa non si imporrebbe, a differenza della
fede)…
Per scagionare la verità dall’esser violenza,
Severino precisa:
<<ed è appunto e solo per questo carattere
di autonegazione, essenzialmente posseduto dalla non verità, che la verità è
negazione della non verità>>.
Dunque, a dire di Severino, la verità non sarebbe
violenta giacché è la non-verità ad infliggersi la propria negazione.
Ma, in tal caso:
1) se la non-verità fosse auto-negantesi soltanto per
conto proprio, cioè senza
che tale autonegazione sia operata dalla verità ma soltanto dalla
negazione di essa, allora l’auto-negarsi della non-verità non avrebbe nulla
a che fare con
la verità, giacché in questa evenienza l’auto-negazione della non-verità si
costituirebbe come caratteristica tutta interna a sé ( = alla non-verità)
la quale, perciò, non avrebbe alcun rapporto con la verità e quindi
quest’ultima non
potrebbe esser ritenuta oggetto di negazione alcuna, ossia non sarebbe ciò la
cui negazione è auto-negazione.
Se a ciò si replicasse osservando che nel termine non-verità
( = nella negazione-della-verità) sia già implicato il rapporto con la verità (cosicché
la non-verità abbia relazione con la verità e quindi sia auto-negantesi),
allora sarebbe la struttura della verità a far sì che la non-verità si auto-neghi
(o che sia da sempre auto-negantesi), per cui sarebbe falso che sia
<<solo per questo carattere di autonegazione, essenzialmente posseduto dalla non
verità, che la verità è negazione della non verità>>,
giacché tale <<carattere di autonegazione>>
della non-verità è strutturato sulla struttura della verità, per cui, anche qui,
il primato dell’imposizione
spetta ancora una volta alla (presunta) verità (severiniana) della cui struttura
il <<carattere di autonegazione>> della non-verità ne
costituisce l’espressione impositivo-violenta.
In effetti, il destino (o la cosiddetta <<verità
autentica>>) è
ben peggiore della presunta
violenza della fede che pure è sua (del destino) eterna figlia.
Infatti, la cosiddetta ‘verità’ del DESTINO non solo
si impone
violentemente all’errore cui è l’io empirico (il mortale) attraverso il
suo ‘nascere’, venendo al mondo senza averlo chiesto, ma tale destino gli s’impone violentemente (
= come vita e quindi gli s’impone alla coscienza) mediante tutta
una sconfinata serie di essenti violenti ( = situazioni, accadimenti,
malattie, guerre…) e per giunta tutti eterni.
Che poi questa violenza sia soltanto <<un
punto>> oltrepassabile nell’infinito Tutto, come dice Severino, poco
anzi nulla cambia, giacché laddove la dignità ontologica degli essenti è
rinvenuta nella loro eternità, allora anche la violenza, in quanto ente
eterno, possiede costitutivamente la stessa dignità ontologica spettante a qualsiasi altro
ente.
Un destino
eternamente bifronte,
ove la violenza, essendo anch’essa eterna, ha il medesimo diritto di
cittadinanza della non-violenza o della verità, per cui risulta vano in quanto insensato
_ in regime di eternità concernente ogni essente _ discettare sul
discrimine tra violenza e non-violenza, laddove entrambe sono necessarie ed eterne:
sarebbe come
se il destino severiniano discriminasse sé da se stesso!
Dunque, la ‘verità’
severiniana necessita, a livello onto-logico, dell’imporsi di sé sulla
non-verità per garantire di essere verità innegabile, così come
necessita, a livello ontico-esistenziale, dell’imporsi di quegli errori (inviandoli) a spese
dei ‘mortali’, facendo patir loro (imponendogli) quegli eterni violenti da un
lato non voluti, dall’altro, invece, a loro stessi eternamente
connaturati.
Pertanto, il destino
severiniano rappresenta la quintessenza nonché il non plus ultra della violenza
e dell’imposizione, la loro istituzione ontologica, proprio in forza
della tesi secondo la quale <<La verità autentica – che non è
né nociva né innocente – non
soffoca e non
annienta la non verità [ = l’errore, il dolore, la
violenza, l’imposizione]: la lascia assolutamente libera, non le impone
alcunché>>;
la lascia così tanto <<libera>> da imperversare
nella sua impossibilità di essere redimibile, eliminabile…
Non solo, ma che la <<verità autentica>> (severiniana) non soffochi e non annienti la non verità
( = l’errore, la violenza) lasciandola <<assolutamente libera>> in
quanto <<non le impone alcunché>> non è sostenibile proprio dalla teoresi severiniana, innanzitutto perché
nessun essente,
nel destino severiniano, è lasciato <<assolutamente liber[o]>>,
essendo ognuno di essi connesso a ciascun altro da una ferrea ed
inviolabile necessità _ appunto il destino _, e stupisce che Severino
ricorra positivamente alla libertà quando torna utile ad una sua tesi e al contempo la
neghi quale espressione del nichilismo!
Per cui non solo il destino severiniano non lascia affatto <<libera>> la non-verità, ma, al contrario, la vincola a sé onde potersi
confermare _ sul piano logico-speculativo _ come verità innegabile, necessitandogli
(al destino severiniano) il necessario gemello eterozigote cui è l’errore/violenza, grazie
al quale la verità gli s’impone
negandolo ma senza annullarlo, sì che tale errore/violenza permanga
eternamente come ciò sul quale s’impone la verità _ altro che errore assolutamente lasciato libero! _, così come
a quest’ultimo è strutturalmente (nonché eternamente) imposto di negarsi
cioè di subire l’imposizione
della verità.
Roberto Fiaschi
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