mercoledì 22 febbraio 2023

31)- L’ETERNA VIOLENZA DEL DESTINO SEVERINIANO

 

Riporto alcune brevi affermazioni di Severino:

<<Ma la verità è verità solo in quanto non è qualcosa di imposto alla coscienza. Prima ancora di essere violento con gli altri, imponendo loro la sua verità, il credente di qualsiasi tipo è violento con se stesso: credendo nella verità della propria fede, impone alla propria coscienza qualcosa che, appunto perché imposto, cioè voluto e voluto come vero, non può essere verità. […] La verità autentica – che non è né nociva né innocente – non soffoca e non annienta la non verità: la lascia assolutamente libera, non le impone alcunché; e scorge che in questa sua libertà assoluta la non verità è autonegazione, ossia essa stessa presuppone, proprio in quanto essa è non verità, la verità che vorrebbe negare; ed è appunto e solo per questo carattere di autonegazione, essenzialmente posseduto dalla non verità, che la verità è negazione della non verità>>  - E. Severino, Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli.

A Severino neppure sfiora l’idea che un certo contenuto di fede possa essere accolto ( = creduto) con gioia, con amore, con trepidazione, etc… senza che ciò implichi una qualche forma d’imposizione <<alla propria coscienza>>.

La coscienza è accoglienza indiscriminata per definizione, direi quasi, uno specchio che accoglie ciò che vi si pone ‘dinanzi’, giacché essa è ciò mediante cui di volta in volta  qualcosa è esperito, noto, con-saputo, e per esser così noto, con-saputo ed esperito, tale qualcosa deve prima di tutto venir in essa accolto, ossia la coscienza deve averne consapevolezza, salvo poi, nella vita dell’individuo, procedere coi propri assensi ed i propri rifiuti. 

Perciò parlare di fede che si <<impone alla propria coscienza>> è un perfetto non-senso,

nemmeno se tale presunta imposizione coincidesse con l’esser <<voluto e voluto come vero>>, perché ciò che è voluto (desiderato, amato, atteso…) non è mai imposto alla propria coscienza, bensì da questa è accolto e conservato, il che rappresenta una differenza abissale…

inoltre, sempre riguardo al <<voluto e voluto come vero>>, vi è da dire che, nemmeno in questo caso, si scorge una qualche imposizione, poiché ciò che accolgo (quindi ciò che credo) come <<vero>>, è ciò che non si lascia dimostrare razionalmente confutare, ma solo di essere accolto.  

Per cui ciò che chiede di essere accolto non chiede di imporsi, ripeto, ma di essere ricevuto…

Severino vede tutto soltanto in termini di imposizione e di violenza, giacché per lui tutto è violenza (come s’è già avuto modo di constatare nel post n° 14), anche l’amore, e nonostante per lui tutto sia violenza tranne il (suo) destino, bisognerà invece dire che tutto è violenza compreso (e soprattutto) il (suo) destino, giacché la violenza è tale soltanto grazie al destino, cioè in forza della sua ‘legge’ secondo la quale ogni ente è identico a sé e differente dal proprio altro.

Legge che perciò eternizza ogni dolore, ogni imposizione, ogni sofferenza in nome dell’inviolabilità ontologica del proprio esser ente identico a sé.

Fondamentale è appurare come l’autentica e non-annientabile violenza che Severino attribuisce alla fede (ma poi ad ogni/qualsiasi altro essente o positivo significare del nulla, costituente tutto il mondo del mortale) sia innanzitutto da ascrivere, compretamente e senza residui, proprio al destino severiniano.

Esso, infatti, è il solo ed autentico violento, giacché annovera in sé come parte imprescindibile di sé la violenza (in tutte le sue individuazioni), seppur destinata ad esser oltrepassata (ma eternamente conservata come violenza inviolabile cioè non-annientabile).

Non solo la violenza è un ente (o un insieme di enti) eterno, ma altresì il destino la invia nel cerchio originario dell’apparire (cioè la invia all’essenza di ciò che ognuno di noi sarebbe, sempre secondo Severino) ove appunto essa si squaderna nelle innumerevoli forme di violenza/sofferenza delle quali siamo tutti perfettamente quanto dolorosamente coscienti.

Pertanto il primo ed il solo responsabile di ogni forma di violenza da noi esperita non può che essere il destino severiniano.

Essendo perciò parte eterna ed incancellabile del destino, ha ben poco senso affermare che <<La verità autentica – che non è né nociva né innocente – non soffoca e non annienta la non verità: la lascia assolutamente libera, non le impone alcunché>>, giacché la <<verità autentica>> (severiniana) è tale proprio perché nega l’errore e la violenza senza annullarli, cosicché la violenza (nelle vesti eufemistiche dell’ ‘errore’) sia eternamente necessaria alla verità severiniana cosiddetta non-violenta (perché, come recita il brano di Severino posto all’inizio del post, essa non si imporrebbe, a differenza della fede)…

Per scagionare la verità dall’esser violenza, Severino precisa:

<<ed è appunto e solo per questo carattere di autonegazione, essenzialmente posseduto dalla non verità, che la verità è negazione della non verità>>.

Dunque, a dire di Severino, la verità non sarebbe violenta giacché è la non-verità ad infliggersi la propria negazione.

Ma, in tal caso:

1) se la non-verità fosse auto-negantesi soltanto per conto proprio, cioè senza che tale autonegazione sia operata dalla verità ma soltanto dalla negazione di essa, allora l’auto-negarsi della non-verità non avrebbe nulla a che fare con la verità, giacché in questa evenienza l’auto-negazione della non-verità si costituirebbe come caratteristica tutta interna a sé ( = alla non-verità) la quale, perciò, non avrebbe alcun rapporto con la verità e quindi quest’ultima non potrebbe esser ritenuta oggetto di negazione alcuna, ossia non sarebbe ciò la cui negazione è auto-negazione.

Se a ciò si replicasse osservando che nel termine non-verità ( = nella negazione-della-verità) sia già implicato il rapporto con la verità (cosicché la non-verità abbia relazione con la verità e quindi sia auto-negantesi), allora sarebbe la struttura della verità a far sì che la non-verità si auto-neghi (o che sia da sempre auto-negantesi), per cui sarebbe falso che sia

<<solo per questo carattere di autonegazione, essenzialmente posseduto dalla non verità, che la verità è negazione della non verità>>,

giacché tale <<carattere di autonegazione>> della non-verità è strutturato sulla struttura della verità, per cui, anche qui, il primato dell’imposizione spetta ancora una volta alla (presunta) verità (severiniana) della cui struttura il <<carattere di autonegazione>> della non-verità ne costituisce l’espressione impositivo-violenta.

In effetti, il destino (o la cosiddetta <<verità autentica>>) è ben peggiore della presunta violenza della fede che pure è sua (del destino) eterna figlia.

Infatti, la cosiddetta ‘verità’ del DESTINO non solo si impone violentemente all’errore cui è l’io empirico (il mortale) attraverso il suo ‘nascere’, venendo al mondo senza averlo chiesto, ma tale destino gli s’impone violentemente ( = come vita e quindi gli s’impone alla coscienza) mediante tutta una sconfinata serie di essenti violenti ( = situazioni, accadimenti, malattie, guerre…) e per giunta tutti eterni.

Che poi questa violenza sia soltanto <<un punto>> oltrepassabile nell’infinito Tutto, come dice Severino, poco anzi nulla cambia, giacché laddove la dignità ontologica degli essenti è rinvenuta nella loro eternità, allora anche la violenza, in quanto ente eterno, possiede costitutivamente la stessa dignità ontologica spettante a qualsiasi altro ente.

Un destino eternamente bifronte, ove la violenza, essendo anch’essa eterna, ha il medesimo diritto di cittadinanza della non-violenza o della verità, per cui risulta vano in quanto insensato _ in regime di eternità concernente ogni essente _ discettare sul discrimine tra violenza e non-violenza, laddove entrambe sono necessarie ed eterne:

sarebbe come se il destino severiniano discriminasse da se stesso!

Dunque, la ‘verità severiniana necessita, a livello onto-logico, dell’imporsi di sé sulla non-verità per garantire di essere verità innegabile, così come necessita, a livello ontico-esistenziale, dell’imporsi di quegli errori (inviandoli) a spese dei ‘mortali’, facendo patir loro (imponendogli) quegli eterni violenti da un lato non voluti, dall’altro, invece, a loro stessi eternamente connaturati.  

Pertanto, il destino severiniano rappresenta la quintessenza nonché il non plus ultra della violenza e dell’imposizione, la loro istituzione ontologica, proprio in forza della tesi secondo la quale <<La verità autentica – che non è né nociva né innocente – non soffoca e non annienta la non verità [ = l’errore, il dolore, la violenza, l’imposizione]: la lascia assolutamente libera, non le impone alcunché>>;

la lascia così tanto <<libera>> da imperversare nella sua impossibilità di essere redimibile, eliminabile…

Non solo, ma che la <<verità autentica>> (severiniana) non soffochi e non annienti la non verità ( = l’errore, la violenza) lasciandola <<assolutamente libera>> in quanto <<non le impone alcunché>> non è sostenibile proprio dalla teoresi severiniana, innanzitutto perché nessun essente, nel destino severiniano, è lasciato <<assolutamente liber[o]>>, essendo ognuno di essi connesso a ciascun altro da una ferrea ed inviolabile necessità _ appunto il destino _, e stupisce che Severino ricorra positivamente alla libertà quando torna utile ad una sua tesi e al contempo la neghi quale espressione del nichilismo!

Per cui non solo il destino severiniano non lascia affatto <<libera>> la non-verità, ma, al contrario, la vincola a sé onde potersi confermare _ sul piano logico-speculativo _ come verità innegabile, necessitandogli (al destino severiniano) il necessario gemello eterozigote cui è l’errore/violenza, grazie al quale la verità gli s’impone negandolo ma senza annullarlo, sì che tale errore/violenza permanga eternamente come ciò sul quale s’impone la verità _ altro che errore assolutamente lasciato libero! _, così come a quest’ultimo è strutturalmente (nonché eternamente) imposto di negarsi cioè di subire l’imposizione della verità.

 

Roberto Fiaschi

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