Nella filosofia di Emanuele Severino, la contraddizione C
<<è la contraddizione del cerchio finito
dell’apparire del destino della verità. Consiste nella manifestazione finita
del Tutto, ossia nel non essere, tale manifestazione, l’apparire del Tutto che
d’altra parte, come significato formale, è manifesto nel cerchio del destino ed
è il luogo semantico in cui appaiono tutte le determinazioni che appaiono. In
relazione al non apparire del Tutto, la contraddizione della verità [ = la
contraddizione C] è contraddizione infinita, ed è contraddizione finita in
relazione al non apparire di una certa parte del Tutto. Tuttavia il toglimento
della contraddizione della verità non è la negazione del suo contenuto, ma è
l’affermazione concreta di esso, ossia è l’apparire di ciò che con la sua
assenza provoca la contraddizione della verità>>. (Severino: La
Gloria; pag. 52).
La contraddizione
C _ secondo
Severino _ differisce dalla contraddizione normale, giacché quest’ultima
indica l’impossibile che va perciò negato, mentre la prima indica il NON
MANIFESTARSI MAI, da parte di qualsiasi ente, di ciò che esso VERAMENTE È, cioè nella sua CONCRETA VERITÀ giacché, affinché
accada, sarebbe necessario che apparisse la totalità di tutto ciò
che quell’ente non
è e che, sola,
ne determina la verità ( = il CHE COS’È),
il che, nell’apparire finito, è impossibile. La contraddizione C, secondo
Severino, è invece da sempre risolta nell’apparire infinito, ove appare
la totalità degli enti e dove perciò ogni ente appare nella sua verità poiché è in
relazione necessaria con ogni altro.
Per cui, secondo Severino, se l’apparire infinito ( = la
Gioia) è il toglimento già da sempre realizzatosi di tale contraddizione,
nell’apparire finito tale toglimento è costituito dall’infinito incremento dell’apparire
diacronico degli essenti ( = la Gloria), restringendo sempre di più (ma senza
mai concludersi) la non-verità di ciò che appare a favore dell’aumento della
concretezza ( = della verità) di ciò che va via via apparendo.
Tuttavia, tale incremento, per quanto prolungantesi
all’infinito nel cerchio finito, non consentirà MAI che appaia la verità sic et
simpliciter di ciò che in esso si mostra, perché il cerchio finito MAI
diventerà l’apparire infinito (né l’astratto mai diverrà concreto).
Pertanto,
CIÒ CHE APPARE, NON
È MAI CIÒ CHE ESSO, APPARENDO, DICE DI ESSERE:
la
verità concreta di ogni
ente che appare resta perciò _ nel cerchio finito _ infinitamente CELATA,
in quanto non potrà mai apparire la totalità concreta ed infinita dell’altro
da x il quale, perciò, appare privo dell’apparire della propria concreta
verità.
Osserva
ancora Severino:
<<La
contraddizione [ = la contraddizione C] dell’originario [ = cerchio
finito], in quanto esso è contraddizione [ = contraddizione C],
non è autonegazione in quanto essa è il toglimento concreto della
contraddizione originaria, cioè in quanto essa nega l’originario non in quanto
l’originario è dire _ non per quello che esso dice _, ma in quanto esso
è un non dire, per quello che
esso non dice, in quanto cioè
esso non dice il Tutto, ma una parte, dice il Tutto solo in modo formale; sì
che il toglimento della contraddizione dell’originario sarebbe lo stesso
svelarsi, in esso, del Tutto>>.
(Severino: La struttura originaria; pag. 74).
Direi,
però, che la contraddizione C sarebbe <<il toglimento concreto della
contraddizione originaria>>, o anche, il <<toglimento della
contraddizione dell’originario sarebbe lo stesso svelarsi, in esso, del Tutto>>
soltanto SE
il Tutto, nell’originario, si svelasse TUTTO cioè concretamente quindi sincronicamente,
come nell’apparire infinito, il che è negato da Severino poiché il finito non
può diventare infinito, né questo può apparire concretamente nel finito.
Quindi, la contraddizione C non può esser <<l’affermazione
concreta>> del suo contenuto, perché svelandosi diacronicamente
all’infinito, il toglimento completo della contraddizione è RINVIATO
all’infinito, ossia non è MAI COMPIUTO, per cui non è neppure MAI
AFFERMATO concretamente ciò che MAI può essere tolto, cosicché, ciò
che l’essente veridicamente è NON APPARE MAI compiutamente, resta sempre
un’ipotesi, una parvenza, un’astrazione, un’intenzione, una fede (nel
senso negativo conferito a quest’ultimo termine da Severino).
O anche: <<l’apparire di ciò che con la sua assenza
provoca la contraddizione della verità>> non riesce ad essere <<il
toglimento della contraddizione della verità>>, perché tale assenza dovrebbe
colmarsi integralmente mediante l’impossibile apparire dell’infinito nel
finito.
Un
toglimento diacronico/graduale (quindi parziale) <<della contraddizione della verità>> non equivale ad un’<<affermazione
concreta>> della verità, ma sempre e soltanto ad una sua ‘concretezza’
parziale,
ovvero ad una sua completa
astrazione, considerando l’infinita concretezza che nel finito non
apparirà mai.
Inoltre,
e soprattutto, il <<non dire>>
ciò ( = la verità) che deve esser detto da parte dell’essente affinché si
presenti nella sua verità, è non-dire la (sua) verità.
Ossia
il <<non
dire>>
( = il non apparire de) il Tutto CONCRETO che ne costituisce
VERITATIVAMENTE la determinatezza
(e che per Severino non rende la contraddizione C una negazione di <<quello
che esso [ = l’originario] dice>>), comporta che, di x, si
dica il suo esser non-x,
appunto perché la infinita concretezza del non-x viene TACIUTA ossia NON-APPARE
MAI, per via dell’impossibilità che (nel finito) essa appaia concretamente.
Venendo
taciuta, di x NON viene detto ( = non appare) ciò che lo renderebbe VERIDICAMENTE x.
Che
il Tutto appaia formalmente, infatti, non toglie che x NON SIA ciò (x)
che dice di essere ma ne ribadirà l’INDETERMINATEZZA, perché il Tutto formale è a
sua volta una parte, e come tale soggetta anch’essa alla (o espressione della)
contraddizione C:
Neppure
il Tutto formale dice con verità ciò che dice di essere.
Per
cui, il <<non
dire>>
( = il non apparire di) ciò ( = la totalità infinita del non-x) senza il quale
x non sarebbe x,
costituisce una CONTRADDIZIONE NORMALE perché x, dicendo di sé di
esser soltanto x ( = ossia apparendo come ciò che esso non è, giacché la
concretezza del non-x non può mai apparire), È (x) ED INSIEME NON
È CIÒ (x) CHE DICE
DI ESSERE.
Pertanto,
e contrariamente a quanto sopra precisato da Severino, dobbiamo concludere che
la contraddizione C sia AUTO-NEGANTESI (secondo ciò che Severino chiama:
“contraddizione normale”), giacché essa ritiene di mostrare con verità che nessun
ente che appare (nell’apparire finito) si mostri con verità, tale
tesi essendo essa stessa un ente che appare nel cerchio finito e che,
perciò, appare senza
quella verità che dovrebbe accompagnarla nelle vesti del Tutto concreto,
negando perciò il proprio contenuto che dice (mostra) di esser ciò ( =
contraddizione C) che in verità non è.
Per
questo nemmeno
la contraddizione C (come qualsiasi altro ente) dice veridicamente
ciò che dice di essere, ossia NON È MAI
la manifestazione della sua verità, giacché,
ripeto, il suo DIRE appare privo della
concreta totalità infinita che ne determini la verità in sé.
È
palese, dunque, come tutto ciò investa anche il concetto di “verità”:
infatti,
CHE COS’È la verità, se la verità di ciò che appare, per esser tale,
deve rinviare al non-apparire della verità concreta ( = della
totalità) soltanto la quale potrebbe rispondere a questa domanda?
Se
non appare la concretezza
del non-x che determinerebbe veridicamente la verità di x, allora non apparirà neppure la
verità di x, cosicché x (nel finito) resti infinitamente (diacronicamente) indeterminato, non-vero.
Quindi,
ne va di mezzo anche l’élenchos (e tutto ciò che si presenta
finitamente)…
Roberto
Fiaschi
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Eccellente argomentazione.
RispondiEliminaIl non manifestarsi mai è d'altra parte il già manifesto da sempre e per sempre. Il manifestarsi mai è la terra e la terra è l'apparire del finito all'infinito: l'apparire della terra o cerchio finito dell'apparire appare all'infinito perché è l'apparire dello sfondo sulla terra o apparire del finito all'infinito. Quando la terra si crede tutto ciò che appare allora è contraddizione normale. Tutto qui
RispondiEliminaAlessandro Vaglia