venerdì 11 agosto 2023

80)- L’IO EMPIRICO È IL CERCHIO FINITO DELL’APPARIRE


Mi pregio di riportar la replica (scaglionandola) di Egon Key (EK) al mio post n° 78.

(Il suo testo completo è riportato a fine post. Chiedo PAZIENZA per le ripetizioni di frasi e concetti, ma è soltanto per maggior chiarezza, a scapito dello stile che non posseggo).

[1]

EK ha scritto:

<<Ciao. Allora, rispondo per punti. Dopo le citazioni dei punti 1) e 2) scrivi:

"[...] vi è una chiara DISTINZIONE tra la <<COSCIENZA>> dell’io dell’individuo ed il <<cerchio dell’apparire in cui l’Io del destino consiste>>, ove la prima <<può apparire solo come contenuto del cerchio dell’apparire in cui l’Io del destino consiste>>."

Non nego la distinzione tra i "due", ossia tra il cerchio dell'apparire e il suo contenuto inteso come un "mio" aver coscienza (per esempio di questa mela).

Scrivi, subito dopo: "Poiché <<CHI PROVA sconcerto e si turba È L’IO DELL’INDIVIDUO>>, è allora consequenziale come il PROVARE sconcerto e turbamento debba implicare un <<apparire a "me">> io individuale, altrimenti NON AVREBBE ALCUN SENSO affermare che <<CHI PROVA sconcerto e si turba È L’IO DELL’INDIVIDUO>>, giacché se NIENTE apparisse <<a "me">> io individuale, allora NON proverei neppure sconcerto e turbamento."

Ovviamente tu qui stai facendo valere l'autoevidenza dell'"apparire a me". Diciamo che tale "apparire a me" (la coscienza intesa come un prodotto del soggetto) non è certo un nulla: è esistente, è un positivo, ma non ha verità, cioè è appunto una persuasione (che è essa stessa un contenuto del cerchio dell'apparire), ma il suo contenuto è nullo. E' nulla il contenuto di questa persuasione (ossia la verità dell'"apparire a me" in quanto io empirico), ma non è certamente nulla questa persuasione (che è appunto il mostrarsi di un aspetto della terra isolata). Ora, è proprio la positività, l'esistenza di questa persuasione (nonostante il suo contenuto sia nulla) che consente di pensarla (e che consente a te di pensare che la mela appaia "a te")>>.

Sono D’ACCORDO con EK dove precisa:

Diciamo che tale "apparire a me" (la coscienza intesa come un prodotto del soggetto) non è certo un nulla: è esistente, è un positivo>>.

Dicevo (e continuo a dire) esattamente questo.

Paradossalmente, CONCORDO anche nel seguito di ciò che EK ha precisato:

<<ma non ha verità, cioè è appunto una persuasione (che è essa stessa un contenuto del cerchio dell'apparire), ma il suo contenuto è nullo [etc…]>>.

Paradossalmente, dicevo, perché il mio accordo mi pare che evidenzi come ANCHE per EK, l’io empirico, essendo TUTT’UNO con la <<l'esistenza di questa persuasione (nonostante il suo contenuto sia nulla) che consente di pensarla (e che consente a te di pensare che la mela appaia "a te")>>,

NON possa che aver <<lo SGUARDO della NON VERITÀ>>, e quindi che NON riesca ad assurgere alla consapevolezza di uno sguardo differente quale sarebbe l’Io del destino.

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[2]

EK:

<<Si diceva in altri post: "Si potrebbe affermare con verità l'esistenza di 'qualcuno' a cui l'apparire apparisse e che si costituisse come qualcosa di diverso dall'apparire stesso (ad esempio come "individuo umano", "persona", "corpo", "cervello", "mente", ecc.), solo se tale esistenza fosse qualcosa che appare 'nel' cerchio dell'apparire del destino della verità; ma allora il 'qualcuno' non sarebbe qualcosa di diverso dall'apparire, qualcosa 'a' cui l'apparire dovrebbe apparire, ma sarebbe, appunto, un contenuto dell'apparire. E' un contenuto dell'apparire del destino anche la 'prospettiva' specifica che costituisce ciò che, all'interno della terra isolata del cerchio originario, viene chiamato ' il mio corpo' o 'la mia psiche'. E' cioè un contenuto dell'apparire del destino anche il rapporto specifico che 'il mio corpo' o 'il mio psichismo' intrattengono con gli essenti che appaiono in quel cerchio e che differisce da quello intrattenuto dagli 'altri corpi' e dagli 'altri psichismi'" (La Gloria, pp. 213-214)>>.

Parto dal fatto (per me innegabile) che il suddetto brano sia stato SCRITTO da un io empirico (Severino, EK, chiunque altro…).

Orbene, se accanto a ciò, si affianca il riconoscimento _ come in [1] mi pare che tale riconoscimento da parte di EK vi sia stato _ che

<<tale "apparire a me" non è certo un nulla: è esistente, è un positivo, ma non ha verità>>,

allora NON AVRÀ VERITÀ neppure che <<tale "apparire a me">> NON abbia verità>>,

appunto perché, CHI scrive/afferma ciò, è un io empirico, rispondente alla persona cui è EK (o Severino, etc…).

FONDAMENTALE:

riallacciandomi per un momento all’esser uomo discusso con EK nel post n° 77, proviamo a concedere (senza però accettare da parte mia) che l’io empirico o il comune individuo ( = l’esser uomo) NON sia soltanto ERRORE e nulla più, ma che sia, in sé stesso, la contesa tra errore e verità.

In questo caso direi:

(a)- in tale individuo o io empirico, la verità costituirebbe il suo <<inconscio dell’inconscio>>, e perciò di essa l’uomo NON solo non ne sarebbe consapevole, ma quella parte di errore da cui esso sarebbe parzialmente costituito NON POTREBBE CAPIRLA, NON potrebbe trascendersi verso di essa (verso la verità), perché la NEGA con la sua stessa presenza, contendendola (a sua insaputa) con il suo stesso esser uomo o almeno con quella sua parte consistente nell’essere ERRORE; 

(b)- sempre nel medesimo io empirico, la parte di verità in contesa con la parte errante, NON potrebbe trapelare nella coscienza dell’esser uomo, giacché, essendo essa il suo <<inconscio dell’inconscio>>, allora, quand’anche trapelasse e perciò laddove <<il linguaggio mortale [suonasse] identico a quello che testimonia il destino>>, quel linguaggio

<<è necessariamente un AFFIORARE ROVESCIATO (e dunque SVIANTE) dell’inconscio dell’inconscio (e che sia ROVESCIATO significa che sono IMPOSSIBILI LAMPI di COMPRENSIONE AUTENTICA)>>. (N. Cusano; purtroppo ritengo necessario ripetere citazioni già riportate);

(c)- insomma, nel medesimo io empirico o uomo, convivrebbero, in contesa, la verità e l’errore SENZA MAI che l’errore SAPPIA della verità, E SENZA MAI che la verità affiori allo sguardo (alla coscienza) dell’errore in modo NON-DISTORTO, visto che tale verità è <<l’inconscio dell’inconscio>> dell’individuo-io empirico…

(d)- inoltre, la stessa precisazione fornita sopra da EK, cioè:

<<che tale "apparire a me" […] non ha verità, […] il suo contenuto è nullo>>,

mi riconferma nella convinzione che l’io empirico sia UNICAMENTE ERRORE, proprio perché <<tale "apparire a me">> _ all’io empirico _ ha un <<contenuto NULLO>>, e come tale non può che esser soltanto ERRORE, NULLA, così come SOLTANTO ERRORI saranno gli scenari che si affacciano a/in questo <<contenuto NULLO>>, compresa perciò la tesi che tutto ciò che appare appaia all’Io del destino, cioè la tesi [2] testé riportata…

In sostanza, nel medesimo individuo-io empirico abbiamo un’incomunicabilità ontologica, tra errore e verità, nel senso che il primo NON può MAI intendere la seconda, quest’ultima può MAI riversarsi nel primo senza venir FRAINTESA e SVIATA.

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[3]

E ritornando ora alla tesi [2], aggiungo ad essa anche quest’altro passaggio di Severino a sua volta ripreso da EK:

<<la "mia" coscienza di qualcosa E' ESSA STESSA UN CONTENUTO CHE APPARE NEL CERCHIO DELL'APPARIRE. In tal senso, l'individuo o uomo o io empirico è inilluminabile, perché la verità non ha nulla a che fare con un atto soggettivo: la verità non è atto individuale, ma IL MOSTRARSI DI CIO' CHE APPARE (e questo mostrarsi ripetiamo non è un mio atto di coscienza, perchè anche tale atto di coscienza appare nel cerchio finito dell'apparire come suo contenuto)>>.

Premesso che, a mio parere, la questione mi sembra ancora INDECIDIBILE, in quanto entrambe le concezioni hanno punti criticabili e punti validi.

Tuttavia, al momento posso aggiungere che la MIA coscienza individuale è sia un contenuto ( = coscienza DI TUTTO ciò) che (MI) appare, che il contenente ( = auto-coscienza di essere il contenente) DI TUTTO ciò che (MI) appare.

In Essenza del nichilismo, pag. 239, nota 8, Severino osserva che l’apparire ALIENATO ( = l’apparire “a me”) è <<come una sorgente luminosa che illumina altre cose, restando essa all’oscuro>>, mentre l’apparire AUTENTICO sarebbe <<la sorgente che illumina [e che] si trova in compagnia delle cose illuminate>>.

Perciò penso che l’io individuale sia come quest’ultima sorgente di luce, senza comportare alcun regressus e quindi senza dover introdurre un Io del destino differente dall’io empirico.

Quindi, ove EK osserva che <<questo mostrarsi ripetiamo non è un mio atto di coscienza, perchè anche tale atto di coscienza appare nel cerchio finito dell'apparire come suo contenuto)>>,

ritradotto nell’io empirico, vuol dire che questo <<mio atto di coscienza>> è lo stesso cerchio finito dell'apparire in cui il mio io individuale consiste, il quale è cosciente ( = autocoscienza) di contenere anche sé stesso al modo in cui contiene (o è) la coscienza degli oggetti.  

Quindi, dove Severino osserva:

<<ma allora il 'qualcuno' non sarebbe qualcosa di diverso dall'apparire, qualcosa 'a' cui l'apparire dovrebbe apparire, ma sarebbe, appunto, un contenuto dell'apparire>>,

non tiene conto, stranamente, che tale esser <<un contenuto dell'apparire>> cioè dell’io è lo stesso NON esser <<qualcosa di diverso dall'apparire>> da parte dell’io che ha come contenuto (anche) sé stesso.

Pertanto non si vede perché questo passaggio di Severino non possa esser riferito all’io empirico:

<<Soltanto un apparire può rivolgersi a sé e vedere nel veduto lo stesso vedere, e dire 'io'>> (La Gloria, p. 60).

Ciò nonostante EK potrebbe riproporre (giustamente, dal suo punto di vista) che:

<<Ma se si parla di un "soggetto empirico", cioè di un "qualcuno" a cui una certo qualcosa debba apparire – si parla unicamente di regressus (o di un progressus, se preferisci) in indefinitum circa il fondamento dell'apparire e il suo perpetuo differimento; infatti: se "l'apparire è sempre un apparire «a un io», o «a una coscienza», allora l'apparire «a me» è l'apparire all'apparire a me, (dove l'«a me» determina il progressus in indefinitum). L'apparire autentico (secondo la struttura autoriflessiva che caratterizza l'apparire in senso severiniano) è dunque ciò che include sé stesso nel proprio contenuto. Ne segue, allora, che non si dà alcun "soggetto empirico" a cui qualcosa appaia>>.

Ma infatti <<l'apparire «a me»>> INCLUDE (è autocosciente di) ME stesso come proprio contenuto, e non un qualcosa che debba esser fondato onde evitare <<il progressus in indefinitum>>.

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[4]

EK:

<<Poi aggiungi: "<<l’io dell’individuo, in quanto non verità>>, è (o ha) altresì uno <<SGUARDO>> (cioè una COSCIENZA) il quale, però, <<è destinato a NON VEDERE altro che non verità>>, ossia l’io dell’individuo VEDE soltanto <<non verità>>, e non: NON vede nulla, non gli appare nulla. Per VEDERE soltanto <<non verità>>, lo <<SGUARDO>> dell’io individuale deve costituirsi come un <<apparire a "me">> (cioè all’io individuale), al cui "me" appaia, perciò, soltanto <<non verità>>. Dunque, l’io dell’individuo è (o ha) uno SGUARDO differente da (anzi: OPPOSTO a) l’Io del destino, quindi, ad egli QUALCOSA APPARE, il che vuol dire che qualcosa appare a "me", altrimenti sarebbe FALSO che l’io individuale sia <<destinato a NON VEDERE altro che non verità>>.

Dico che lo sperimentante è sempre l'io del destino, laddove lo sperimentare è appunto l'APPARIRE DEL provare-sconcerto-e turbamento-da- parte-di-un-io-individuale. Ma l'io-individuale-che-crede-sia-un-suo-contenuto-il-provare-sconcerto-e-turbamento (ossia l'atto di coscienza in cui tale contenuto consiste) è appunto un contenuto dell'io del destino, il quale però sa della non verità di tale contenuto. Cio' che accade è ciò che è destino che appaia. Ma occorre un riferimento alla cosiddetta testimonianza del destino: essa non appare in tutti i "cerchi", ma solo in alcuni (finché la testimonianza del destino sarà linguaggio dei popoli). Ma anche questo non apparire attuale, in ogni cerchio, della testimonianza del destino è una "volontà" del destino (che non ha nulla a che fare con la volontà di potenza dell'individuo). (La Gloria, p. 72)>>.

Certamente, per Severino, <<lo SPERIMENTANTE è sempre l'io del destino>>.

Infatti scrive:

<<l’Io del destino SPERIMENTA il dolore e l’angoscia, MA LASCIA che sia l’io dell’individuo a PROVARE sconcerto, turbamento [etc…]>>.

Però, quel <<MA>> avversativo deve implicare che l’io empirico PROVI sconcerto, cioè che PROVI qualcosa di DIVERSO dall’Io del destino, mentre quest’ultimo si limita a SPERIMENTARE <<il dolore e l’angoscia>> MA NON lo <<sconcerto ed il turbamento>>, altrimenti, al posto del <<MA>>, avremmo dovuto aspettarci la congiunzione <<E>>.

Perché se l’Io del destino PROVASSE <<sconcerto ed il turbamento>>, PROVEREBBE ciò che NON lo renderebbe in alcun modo DIFFERENTE dall’io empirico, ossia <<sconcerto ed il turbamento>>, il che è appunto impossibile, perché l’Io del destino non erra e quindi non si sconcerta/turba…

Sulla scorta di ciò, devo dissentire da EK ove scrive:

<<Ma l'io-individuale-che-crede-sia-un-suo-contenuto-il-PROVARE-sconcerto-e-turbamento (ossia l'atto di coscienza in cui tale contenuto consiste) è appunto un contenuto dell'io del destino, il quale però sa della non verità di tale contenuto>>,

appunto perché lo <<sconcerto ed il turbamento>> sono PROVATI soltanto dall’io empirico, mentre l’Io del destino ESPERISCE ciò che l’io empirico PROVA ciò che gli compete di PROVARE in quanto È io empirico e non del destino, perché _ mi ripeto _, l’Io del destino NON può mai PROVARE alcun <<sconcerto, turbamento>>.

In caso contrario, non si capirebbe più nulla…

Che differenza vi è, dunque, tra SPERIMENTARE e PROVARE?

Quel <<MA>> avversativo DEVE implicare una pur qualche minima differenza

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[5]

EK:

<<In alcuni cerchi, dunque, albeggia la testimonianza del destino, la quale però è essa stessa non verità, perché è innanzitutto una volontà di testimoniarla. Nondimeno, la stessa alienazione della testimonianza del destino è saputa qua talis. D'altronde, anche nei cerchi dove non albeggia la testimonianza del destino "[...] le tracce enigmatiche e svianti lasciate dalla Gioia e dal cerchio finito del destino sulla terra isolata non sono l'assenza di ogni traccia. In enigma e come in uno specchio deformante la Gioia si fa sentire da chiunque, fa sentire a chiunque di essere la Gioia" (La Gloria, p. 72)>>.

Però mi chiedo: ma se tale testimonianza ALBEGGIANTE <<è essa stessa non verità>>, allora che testimonianza del destino è?

Aggiunge EK:

<<Nondimeno, la stessa alienazione della testimonianza del destino è saputa qua talis. D'altronde, anche nei cerchi dove non albeggia la testimonianza del destino "[...] le tracce ENIGMATICHE e SVIANTI lasciate dalla Gioia e dal cerchio finito del destino sulla terra isolata non sono l'assenza di ogni traccia. IN ENIGMA e come in uno SPECCHIO DEFORMANTE la Gioia si fa sentire da chiunque, fa sentire a chiunque di essere la Gioia" (La Gloria, p. 72)>>.

Direi, però, che se le tracce del destino sono <<ENIGMATICHE e SVIANTI>> e cioè sono <<IN ENIGMA e come in uno SPECCHIO DEFORMANTE>>,

allora NON si capisce COME da tale deformazione e sviamento sia possibile sostener in modo NON-deformato e NON-sviato, che <<la stessa alienazione della testimonianza del destino è saputa qua talis>> sol perché ci si è convinti che tali deformazioni non siano <<l'assenza di ogni traccia>>.

Certo, NON ne sono <<l’assenza>>, ma la DEFORMAZIONE sì; il che è come dire che esse, nella loro autenticità o verità, sono ASSENTI, sono soltanto PRESUNTE, CREDUTE  

A ciò EK risponde:

<<Ora, la stessa testimonianza del destino è non verità perché è alienazione (è volontà interpretante, linguaggio...), ma, si diceva, in essa l'alienazione è saputa qua talis; se indico la verità, certamente questo è un errare, ma non è un errare "ciò" che viene indicato (appunto perché il "significato" si distingue dalla "parola", cioè oltrepassa la parola. Ma qui andiamo a toccare un tema essenziale: quello del rapporto tra verità ed errore. Partendo dal linguaggio (visto che il destino della verità si presenta nel linguaggio), occorrerà distinguere il "significato" dalla "parola": se tutto ciò che appare apparisse come interpretazione, non apparirebbe mai l'interpretato, e dunque non potrebbe apparire neppure l'interpretazione come tale. Quindi è assolutamente necessario che appaia qualcosa che non è a sua volta interpretazione, e questo "qualcosa" è appunto la terra che si mostra nello sguardo del destino (la "pura terra"). Del resto, "L'uomo non solo è eterno, come ogni ente, ma è anche il luogo in cui l'eterno eternamente si manifesta" (EdN, p. 198), o, ancora:" L'essere è destinato ad apparire. In questa destinazione risiede l'essenza dell'uomo. Il significato originario dell''anima' - e della 'mente', del 'pensiero', della 'coscienza', ecc. - è il loro porsi come apparire dell'essere. E 'io' significa l'apparire in quanto ha come contenuto se medesimo; cioè esprime in forma brachilogica l'identità della forma e del contenuto" (ibidem). Se, dunque, un qualsiasi linguaggio negasse l'innegabile, esso negherebbe, ipso facto, la propria negazione dell'innegabile>>.

Dunque _ dice EK _ <<se indico la verità, CERTAMENTE QUESTO È UN ERRARE, ma non è un errare "ciò" che viene indicato>>;

e tuttavia, poiché l’indicazione della verità avviene all’insegna dell’ERRARE DA PARTE DELLERRORE (perché non è certo la verità ad errare), allora l’ERRORE NON PUÒ SAPERE che <<non è un errare "ciò" che viene indicato>>, perché se lo sapesse, esso NON sarebbe ERRORE l’indicazione della verità avverrebbe all’insegna dell’ERRARE.

Ovvero:

siccome l’indicazione della verità avviene all’insegna dell’ERRARE, ciò vuol dire inevitabilmente che tale indicazione sia testimonianza DELL’ERRORE.

Bene; poiché tale testimonianza è OPERA DELL’ERRORE, allora NON ci si può aspettare (NON si può sostenere) che l’ERRORE SAPPIA che <<non è un errare "ciò" che viene indicato>>, perché altrimenti l’ERRORE saprebbe già quanto basta per NON ritenerlo ERRORE, in quanto SAPREBBE, appunto, sia di essere errore (cosa invece preclusagli), sia che <<non è un errare "ciò" che viene indicato>>.

Per cui l’errore può assurgere SOLTANTO ad una verità INTERNA al NICHILISMO cioè all’ERRORE, senza neppure poter sapere di esser interno al nichilismo, visto che l’errore IGNORA di esser errore…

Stesso discorso, perciò va fatto per la seguente affermazione:

<<Se, dunque, un qualsiasi linguaggio negasse l'innegabile, esso negherebbe, ipso facto, la propria negazione dell'innegabile>>.

Infatti, il <<linguaggio dell’errare>> _ così lo chiama Severino _, non potrà mai negare l’innegabile, ma soltanto perché l’errore NON PUÒ CONOSCERE il destino severiniano giacché, se lo conoscesse, NON lo negherebbe poiché in tal caso l’errore NON SAREBBE PIÙ (o mai stato) errore (in quanto conoscerebbe la verità).

In relazione a questo discorso, osserva altrove EK:

<<Poi quel passo di N. Cusano  intende dire che l'io empirico è inilluminabile perché dire della verità (anche nella testimonianza del destino) è pur sempre volontà interpretante, ossia non verità, ma ciò non toglie che, nella testimonianza del destino, l'errare in cui essa stessa consiste, non sia l'apparire dell'alienazione COME TALE. Distinguiamo allora la volontà di dare testimonianza della verità, la quale è un errare, da CIO' che viene indicato: ossia la verità: "Il senso non è il segno e la malattia del segno non è la malattia del senso in quanto senso" (Destino della necessità, p. 548)>>.

Il <<passo di N. Cusano>> a cui EK si riferisce è il seguente:

<<Si deve pertanto concludere che nel pensiero dell’isolamento un lampo di comprensione autentica [del destino] è IMPOSSIBILE (nello stesso senso e per lo stesso motivo per cui lo si deve escludere in relazione all’io dell’individuo): è necessario che, all’interno del suo isolamento dalla verità del destino, il pensiero mortale [dell’io individuale, dunque] FRAINTENDA, SEMPRE E INEVITABILMENTE, le tracce della Gioia. Se dunque “anche nell’isolamento della terra il destino lascia la propria traccia”, questa “non può non essere ambigua, sviante, cioè NON PUÒ CONDURRE GLI ABITATORI DELLA TERRA ISOLATA ALLA LUCE DEL DESTINO. ALTRIMENTI LA TERRA NON SAREBBE ISOLATA”. – (Nicoletta Cusano: Emanuele Severino. Oltre il nichilismo. pag. 447. Maiuscoli e parentesi quadre miei: RF).

Ecco, mi spiace dover contraddire EK, ma <<quel passo di N. Cusano>> NON intende tanto riferire l’inilluminabilità dell’io empirico alla <<volontà interpretante>>, quanto, innanzitutto, alle <<premesse fondamentali>> del pensiero dell’io empirico, le quali appartengono <<all’isolamento della verità, e cioè a una visione necessariamente DISTORCENTE, ROVESCIANTE, E SVIANTE>> (Cusano, op. cit. pag. 447), e prosegue in nota 13:

<<[…] nell’isolamento non si possono avere tracce dirette della verità dell’essere>>, per cui <<la loro presenza non può essere un “problema” aperto” [come invece sostiene Umberto Soncini]: si tratta di tracce alterate e svianti della verità, e la loro presenza non è problematica, ma necessaria>>.     

Dunque, direi, che tutto ciò TOLGA

<<che, nella testimonianza del destino, l'errare in cui essa stessa consiste, non sia l'apparire dell'alienazione COME TALE>>,

per cui è da RESPINGERE l’invito di EK ove esorta a distinguere

<<la volontà di dare testimonianza della verità, la quale è un errare, da CIO' che viene indicato: ossia la verità: "Il senso non è il segno e la malattia del segno non è la malattia del senso in quanto senso" (Destino della necessità, p. 548)>>.

Ciò va respinto, dicevo, perché l’errare a cui si riferisce la Cusano (ed il sottoscritto), concerne proprio <<CIO' che viene indicato: ossia la verità>>, giacché l’alienazione come tale, consiste proprio <<nell’isolamento>> nel quale <<non si possono avere tracce dirette della verità dell’essere>> a beneficio di NESSUN io empirico, incluso Severino.

Aggiungo, perciò, che se <<la malattia del segno non è la malattia del senso in quanto senso>>, allora NON È VERO che <<nell’isolamento>> dal destino <<non si possono avere tracce dirette della verità dell’essere>>.

Inoltre, se, come riconosce Severino, il segno è malato, allora il senso indicato dal segno sarà come minimo ambiguo, indecidibile, per non dire INCOMPRENSIBILE, come infatti la Cusano attesta a proposito della visione <<DISTORCENTE, ROVESCIANTE, E SVIANTE>> presente nell’isolamento della verità.

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[6]

Infine, riporto anche il seguente passaggio di EK:

<<Poi dicevo che questo io empirico/corporeità umana non va in giro da solo, ma è unito all'io del destino come suo contenuto (infatti il mio stesso atto di coscienza è uno dei contenuti che appaiono nel cerchio dell'apparire). Di conseguenza (per l'identità di identità) l'Io-che-è-includente-il-suo-contenuto è lo-stesso-suo-contenuto-che-è-incluso-nell'Io>>.

Ma ecco, che l’<<io empirico/corporeità umana non [vada] in giro da solo>> in quanto sarebbe <<unito all'io del destino come suo contenuto>> è l’ennesima consapevolezza NON RAGGIUNGIBILE DALL’io empirico inilluminabile, cioè da colui che, nel suo voler indicare la verità, ERRA, come anche EK ha riconosciuto poco sopra nella parte n° [5]:

<<se indico la verità, CERTAMENTE QUESTO È UN ERRARE>>.

La quale unità con l’Io del destino, perciò, NON TOGLIE all’io empirico la sua costituzione ontica di ERRORE impossibilitato a riconoscere tale unità con l’Io del destino.

Ricambio i cari saluti.

 

Roberto Fiaschi

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Ecco il testo completo di Egon Key:

<<Ciao. Allora, rispondo per punti. Dopo le citazioni dei punti 1) e 2) scrivi: "[...] vi è una chiara DISTINZIONE tra la <<COSCIENZA>> dell’io dell’individuo ed il <<cerchio dell’apparire in cui l’Io del destino consiste>>, ove la prima <<può apparire solo come contenuto del cerchio dell’apparire in cui l’Io del destino consiste>>."

Non nego la distinzione tra i "due", ossia tra il cerchio dell'apparire e il suo contenuto inteso come un "mio" aver coscienza (per esempio di questa mela).

Scrivi, subito dopo: "Poiché <<CHI PROVA sconcerto e si turba È L’IO DELL’INDIVIDUO>>, è allora consequenziale come il PROVARE sconcerto e turbamento debba implicare un <<apparire a "me">> io individuale, altrimenti NON AVREBBE ALCUN SENSO affermare che <<CHI PROVA sconcerto e si turba È L’IO DELL’INDIVIDUO>>, giacché se NIENTE apparisse <<a "me">> io individuale, allora NON proverei neppure sconcerto e turbamento."

Ovviamente tu qui stai facendo valere l'autoevidenza dell'"apparire a me". Diciamo che tale "apparire a me" (la coscienza intesa come un prodotto del soggetto) non è certo un nulla: è esistente, è un positivo, ma non ha verità, cioè è appunto una persuasione (che è essa stessa un contenuto del cerchio dell'apparire), ma il suo contenuto è nullo. E' nulla il contenuto di questa persuasione (ossia la verità dell'"apparire a me" in quanto io empirico), ma non è certamente nulla questa persuasione (che è appunto il mostrarsi di un aspetto della terra isolata). Ora, è proprio la positività, l'esistenza di questa persuasione (nonostante il suo contenuto sia nulla) che consente di pensarla (e che consente a te di pensare che la mela appaia "a te"). Si diceva in altri post: "Si potrebbe affermare con verità l'esistenza di 'qualcuno' a cui l'apparire apparisse e che si costituisse come qualcosa di diverso dall'apparire stesso (ad esempio come "individuo umano", "persona", "corpo", "cervello", "mente", ecc.), solo se tale esistenza fosse qualcosa che appare 'nel' cerchio dell'apparire del destino della verità; ma allora il 'qualcuno' non sarebbe qualcosa di diverso dall'apparire, qualcosa 'a' cui l'apparire dovrebbe apparire, ma sarebbe, appunto, un contenuto dell'apparire. E' un contenuto dell'apparire del destino anche la 'prospettiva' specifica che costituisce ciò che, all'interno della terra isolata del cerchio originario, viene chiamato ' il mio corpo' o 'la mia psiche'. E' cioè un contenuto dell'apparire del destino anche il rapporto specifico che 'il mio corpo' o 'il mio psichismo' intrattengono con gli essenti che appaiono in quel cerchio e che differisce da quello intrattenuto dagli 'altri corpi' e dagli 'altri psichismi'" (La Gloria, pp. 213-214).

Poi aggiungi: "<<l’io dell’individuo, in quanto non verità>>, è (o ha) altresì uno <<SGUARDO>> (cioè una COSCIENZA) il quale, però, <<è destinato a NON VEDERE altro che non verità>>, ossia l’io dell’individuo VEDE soltanto <<non verità>>, e non: NON vede nulla, non gli appare nulla. Per VEDERE soltanto <<non verità>>, lo <<SGUARDO>> dell’io individuale deve costituirsi come un <<apparire a "me">> (cioè all’io individuale), al cui "me" appaia, perciò, soltanto <<non verità>>. Dunque, l’io dell’individuo è (o ha) uno SGUARDO differente da (anzi: OPPOSTO a) l’Io del destino, quindi, ad egli QUALCOSA APPARE, il che vuol dire che qualcosa appare a "me", altrimenti sarebbe FALSO che l’io individuale sia <<destinato a NON VEDERE altro che non verità>>.

Dico che lo sperimentante è sempre l'io del destino, laddove lo sperimentare è appunto l'APPARIRE DEL provare-sconcerto-e turbamento-da- parte-di-un-io-individuale. Ma l'io-individuale-che-crede-sia-un-suo-contenuto-il-provare-sconcerto-e-turbamento (ossia l'atto di coscienza in cui tale contenuto consiste) è appunto un contenuto dell'io del destino, il quale però sa della non verità di tale contenuto. Cio' che accade è ciò che è destino che appaia. Ma occorre un riferimento alla cosiddetta testimonianza del destino: essa non appare in tutti i "cerchi", ma solo in alcuni (finché la testimonianza del destino sarà linguaggio dei popoli). Ma anche questo non apparire attuale, in ogni cerchio, della testimonianza del destino è una "volontà" del destino (che non ha nulla a che fare con la volontà di potenza dell'individuo). In alcuni cerchi, dunque, albeggia la testimonianza del destino, la quale però è essa stessa non verità, perché è innanzitutto una volontà di testimoniarla. Nondimeno, la stessa alienazione della testimonianza del destino è saputa qua talis. D'altronde, anche nei cerchi dove non albeggia la testimonianza del destino "[...] le tracce enigmatiche e svianti lasciate dalla Gioia e dal cerchio finito del destino sulla terra isolata non sono l'assenza di ogni traccia. In enigma e come in uno specchio deformante la Gioia si fa sentire da chiunque, fa sentire a chiunque di essere la Gioia" (La Gloria, p. 72).

Al punto 3) Vale anche qui quello che dicevo sopra: perché l'io individuale che si persuade della terra isolata appare esattamente nel cerchio dell'apparire come questo stesso contenuto essente, cioè come qualcosa che l'io del destino sperimenta, ne è infatti l'APPARIRE, sapendo, tuttavia, che il contenuto di tale persuasione è nullo. Per cui sostengo che la tesi severiniana dell'apparire che appare a sé medesimo sia corretta.

Quanto poi alla questione dell'errore e della terra isolata ecc.: "il destino non “illumina” l’io della terra isolata – la verità non può illuminare la non verità ->> (La Gloria, p. 77), sappiamo che se fosse vero il contrario, la terra isolata non sarebbe tale. Ora, la stessa testimonianza del destino è non verità perché è alienazione (è volontà interpretante, linguaggio...), ma, si diceva, in essa l'alienazione è saputa qua talis; se indico la verità, certamente questo è un errare, ma non è un errare "ciò" che viene indicato (appunto perché il "significato" si distingue dalla "parola", cioè oltrepassa la parola. Ma qui andiamo a toccare un tema essenziale: quello del rapporto tra verità ed errore. Partendo dal linguaggio (visto che il destino della verità si presenta nel linguaggio), occorrerà distinguere il "significato" dalla "parola": se tutto ciò che appare apparisse come interpretazione, non apparirebbe mai l'interpretato, e dunque non potrebbe apparire neppure l'interpretazione come tale. Quindi è assolutamente necessario che appaia qualcosa che non è a sua volta interpretazione, e questo "qualcosa" è appunto la terra che si mostra nello sguardo del destino (la "pura terra"). Del resto, "L'uomo non solo è eterno, come ogni ente, ma è anche il luogo in cui l'eterno eternamente si manifesta" (EdN, p. 198), o, ancora:" L'essere è destinato ad apparire. In questa destinazione risiede l'essenza dell'uomo. Il significato originario dell''anima' - e della 'mente', del 'pensiero', della 'coscienza', ecc. - è il loro porsi come apparire dell'essere. E 'io' significa l'apparire in quanto ha come contenuto se medesimo; cioè esprime in forma brachilogica l'identità della forma e del contenuto" (ibidem). Se, dunque, un qualsiasi linguaggio negasse l'innegabile, esso negherebbe, ipso facto, la propria negazione dell'innegabile (il linguaggio che testimonia il destino "indica" appunto i tratti dell'innegabile, anche se sappiamo che la persintassi infinita non potrà mai entrare per intero nel linguaggio). La cosiddetta struttura originaria è assolutamente libera dalla propria negazione, perché è essenzialmente legata all’autonegazione della propria negazione (di conseguenza anche gli "errori" teoretici di Severino, è necessario che siano, già da sempre, oltrepassati). La Necessità è tale perché la negazione della Necessità è di necessità autonegazione. Questo è quanto. Un caro saluto>>.

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