Mi pregio di riportar la replica (scaglionandola) di Egon Key (EK) al mio post n° 78.
(Il suo testo completo è riportato a fine post. Chiedo PAZIENZA
per le ripetizioni di frasi e concetti, ma è soltanto per maggior chiarezza, a
scapito dello stile che non posseggo).
[1]
EK ha scritto:
<<Ciao. Allora, rispondo per punti. Dopo le
citazioni dei punti 1) e 2) scrivi:
"[...] vi è una chiara DISTINZIONE tra
la <<COSCIENZA>> dell’io dell’individuo ed il <<cerchio
dell’apparire in cui l’Io del destino consiste>>, ove la prima
<<può apparire solo come contenuto del cerchio dell’apparire in cui l’Io
del destino consiste>>."
Non nego la distinzione tra i
"due", ossia tra il cerchio dell'apparire e il suo contenuto inteso
come un "mio" aver coscienza (per esempio di questa mela).
Scrivi, subito dopo: "Poiché <<CHI
PROVA sconcerto e si turba È L’IO DELL’INDIVIDUO>>, è allora
consequenziale come il PROVARE sconcerto e turbamento debba implicare un
<<apparire a "me">> io individuale, altrimenti NON
AVREBBE ALCUN SENSO affermare che <<CHI PROVA sconcerto e si turba È L’IO
DELL’INDIVIDUO>>, giacché se NIENTE apparisse <<a
"me">> io individuale, allora NON proverei neppure sconcerto e
turbamento."
Ovviamente tu qui stai facendo valere l'autoevidenza
dell'"apparire a me". Diciamo che tale "apparire a me" (la
coscienza intesa come un prodotto del soggetto) non è certo un nulla: è
esistente, è un positivo, ma non ha verità, cioè è appunto una persuasione (che
è essa stessa un contenuto del cerchio dell'apparire), ma il suo contenuto è
nullo. E' nulla il contenuto di questa persuasione (ossia la verità
dell'"apparire a me" in quanto io empirico), ma non è certamente
nulla questa persuasione (che è appunto il mostrarsi di un aspetto della terra
isolata). Ora, è proprio la positività, l'esistenza di questa persuasione
(nonostante il suo contenuto sia nulla) che consente di pensarla (e che
consente a te di pensare che la mela appaia "a te")>>.
Sono D’ACCORDO con EK dove precisa:
Diciamo che tale "apparire a me" (la coscienza
intesa come un prodotto del soggetto) non è certo
un nulla: è esistente, è un positivo>>.
Dicevo (e continuo a dire) esattamente questo.
Paradossalmente, CONCORDO anche nel seguito di ciò che EK ha
precisato:
<<ma
non ha verità, cioè è appunto
una persuasione (che è essa stessa un contenuto del cerchio dell'apparire), ma il suo contenuto è nullo [etc…]>>.
Paradossalmente, dicevo, perché il mio accordo mi pare
che evidenzi come ANCHE per EK, l’io empirico, essendo TUTT’UNO con la <<l'esistenza
di questa persuasione (nonostante il suo contenuto sia nulla) che consente di
pensarla (e che consente a te di pensare che la mela appaia "a te")>>,
NON possa che aver <<lo SGUARDO della
NON VERITÀ>>, e
quindi che NON riesca ad assurgere alla consapevolezza di uno sguardo
differente quale sarebbe l’Io del destino.
-----------
[2]
EK:
<<Si diceva in altri post: "Si potrebbe
affermare con verità l'esistenza di 'qualcuno' a cui l'apparire apparisse e che
si costituisse come qualcosa di diverso dall'apparire stesso (ad esempio come
"individuo umano", "persona", "corpo",
"cervello", "mente", ecc.), solo se tale esistenza fosse
qualcosa che appare 'nel' cerchio dell'apparire del destino della verità; ma
allora il 'qualcuno' non sarebbe qualcosa di diverso dall'apparire, qualcosa
'a' cui l'apparire dovrebbe apparire, ma sarebbe, appunto, un contenuto
dell'apparire. E' un contenuto dell'apparire del destino anche la 'prospettiva'
specifica che costituisce ciò che, all'interno della terra isolata del cerchio
originario, viene chiamato ' il mio corpo' o 'la mia psiche'. E' cioè un
contenuto dell'apparire del destino anche il rapporto specifico che 'il mio
corpo' o 'il mio psichismo' intrattengono con gli essenti che appaiono in quel
cerchio e che differisce da quello intrattenuto dagli 'altri corpi' e dagli
'altri psichismi'" (La Gloria, pp. 213-214)>>.
Parto dal fatto (per me innegabile) che il suddetto brano sia
stato SCRITTO da un io empirico (Severino, EK, chiunque altro…).
Orbene, se accanto a ciò, si affianca il riconoscimento _
come in [1] mi pare che tale riconoscimento da parte di EK vi sia stato
_ che
<<tale "apparire a me" non è certo un nulla: è esistente, è un positivo, ma non ha verità>>,
allora NON
AVRÀ VERITÀ neppure
che <<tale "apparire a me">> NON abbia verità>>,
appunto perché, CHI scrive/afferma ciò, è un io empirico,
rispondente alla persona cui è EK (o Severino, etc…).
FONDAMENTALE:
riallacciandomi per un momento all’esser uomo discusso con EK nel post n° 77, proviamo a concedere (senza però accettare
da parte mia) che l’io empirico o il comune individuo ( = l’esser uomo) NON sia soltanto ERRORE
e nulla più, ma che sia, in sé stesso, la contesa tra errore e verità.
In questo caso direi:
(a)- in
tale individuo o io empirico, la verità costituirebbe il suo <<inconscio
dell’inconscio>>, e perciò di essa l’uomo NON solo non ne sarebbe consapevole, ma
quella parte di errore da cui esso sarebbe parzialmente costituito NON POTREBBE CAPIRLA,
NON potrebbe
trascendersi verso di essa (verso la verità), perché la NEGA con la sua stessa
presenza, contendendola (a sua insaputa) con il suo stesso esser uomo o almeno con quella sua parte
consistente nell’essere ERRORE;
(b)- sempre nel medesimo io empirico, la parte di verità in contesa con la
parte errante, NON potrebbe trapelare nella coscienza dell’esser uomo, giacché, essendo essa il suo <<inconscio
dell’inconscio>>, allora, quand’anche trapelasse e perciò laddove
<<il linguaggio mortale [suonasse] identico a
quello che testimonia il destino>>, quel linguaggio
<<è necessariamente un AFFIORARE
ROVESCIATO (e
dunque SVIANTE) dell’inconscio dell’inconscio (e che
sia ROVESCIATO significa che sono IMPOSSIBILI LAMPI
di COMPRENSIONE AUTENTICA)>>.
(N. Cusano;
purtroppo ritengo necessario ripetere citazioni già riportate);
(c)- insomma, nel medesimo io empirico o uomo, convivrebbero, in
contesa, la verità
e l’errore SENZA
MAI che l’errore
SAPPIA della verità,
E SENZA MAI che la verità
affiori allo sguardo (alla coscienza) dell’errore in modo NON-DISTORTO, visto che tale
verità è <<l’inconscio dell’inconscio>> dell’individuo-io
empirico…
(d)- inoltre, la stessa precisazione fornita sopra da EK,
cioè:
<<che tale "apparire a me" […] non
ha verità, […] il suo contenuto è nullo>>,
mi riconferma nella convinzione che l’io empirico sia UNICAMENTE ERRORE,
proprio perché <<tale "apparire a me">> _ all’io
empirico _ ha un <<contenuto NULLO>>, e come tale non può che esser soltanto ERRORE,
NULLA, così come SOLTANTO ERRORI saranno gli scenari che si affacciano a/in questo
<<contenuto NULLO>>,
compresa perciò la tesi che tutto ciò che appare appaia all’Io del destino,
cioè la tesi [2] testé riportata…
In sostanza, nel medesimo individuo-io empirico abbiamo
un’incomunicabilità ontologica, tra errore e verità,
nel senso che il primo NON
può MAI intendere la seconda, NÉ quest’ultima può MAI riversarsi nel primo senza venir
FRAINTESA e SVIATA.
--------
[3]
E ritornando ora alla tesi [2], aggiungo ad essa anche
quest’altro passaggio di Severino a sua volta ripreso da EK:
<<la "mia" coscienza di qualcosa E' ESSA STESSA UN CONTENUTO CHE
APPARE NEL CERCHIO DELL'APPARIRE. In tal senso, l'individuo o uomo o io
empirico è inilluminabile,
perché la verità non ha nulla a che fare con un atto soggettivo: la verità non
è atto individuale, ma IL MOSTRARSI DI CIO' CHE APPARE (e questo mostrarsi
ripetiamo non è un mio atto
di coscienza, perchè anche tale atto di coscienza appare
nel cerchio finito dell'apparire come suo contenuto)>>.
Premesso che, a mio parere, la questione mi sembra ancora
INDECIDIBILE, in quanto entrambe le concezioni hanno punti criticabili e punti
validi.
Tuttavia, al momento posso aggiungere che la MIA coscienza individuale
è sia un contenuto ( = coscienza DI TUTTO ciò) che (MI) appare, che il
contenente ( = auto-coscienza di essere il contenente) DI TUTTO ciò che (MI) appare.
In Essenza del nichilismo, pag. 239, nota 8, Severino
osserva che l’apparire ALIENATO ( = l’apparire “a me”) è <<come
una sorgente luminosa che illumina altre cose, restando essa all’oscuro>>,
mentre l’apparire AUTENTICO sarebbe <<la sorgente che illumina [e
che] si trova in compagnia delle cose illuminate>>.
Perciò penso che l’io individuale sia come
quest’ultima sorgente di luce, senza comportare alcun regressus e
quindi senza dover introdurre un Io del destino differente dall’io empirico.
Quindi, ove EK osserva che <<questo mostrarsi
ripetiamo non è un mio atto di coscienza, perchè anche tale atto di coscienza appare nel
cerchio finito dell'apparire come suo contenuto)>>,
ritradotto nell’io empirico, vuol dire che questo <<mio atto di coscienza>> è lo stesso cerchio finito
dell'apparire in cui il mio
io individuale consiste, il quale è cosciente ( = autocoscienza) di contenere
anche sé stesso al modo in cui contiene (o è) la coscienza degli oggetti.
Quindi, dove Severino osserva:
<<ma allora il 'qualcuno' non sarebbe qualcosa di
diverso dall'apparire, qualcosa 'a' cui l'apparire dovrebbe apparire, ma
sarebbe, appunto, un contenuto dell'apparire>>,
non tiene conto, stranamente, che tale esser <<un
contenuto dell'apparire>> cioè dell’io è lo stesso NON esser <<qualcosa
di diverso dall'apparire>> da parte dell’io che ha come contenuto
(anche) sé stesso.
Pertanto non si vede perché questo passaggio di Severino non
possa esser riferito all’io empirico:
<<Soltanto un apparire può rivolgersi a sé e vedere
nel veduto lo stesso vedere, e dire 'io'>> (La Gloria, p. 60).
Ciò nonostante EK potrebbe riproporre (giustamente, dal suo
punto di vista) che:
<<Ma se si parla di un "soggetto
empirico", cioè di un "qualcuno" a cui una certo qualcosa debba apparire – si parla
unicamente di regressus (o di un progressus, se preferisci) in
indefinitum circa il fondamento dell'apparire e il suo perpetuo differimento; infatti: se
"l'apparire è sempre un apparire «a un io», o «a una coscienza»,
allora l'apparire «a me» è l'apparire all'apparire
a me, (dove l'«a me» determina il progressus
in indefinitum). L'apparire autentico (secondo la struttura autoriflessiva
che caratterizza l'apparire in senso severiniano) è dunque ciò che include sé
stesso nel proprio contenuto. Ne segue, allora, che non si dà alcun
"soggetto empirico" a cui qualcosa appaia>>.
Ma infatti <<l'apparire «a me»>> INCLUDE (è autocosciente di) ME stesso come
proprio contenuto, e non un qualcosa che debba esser fondato onde evitare <<il
progressus in indefinitum>>.
---------------
[4]
EK:
<<Poi aggiungi: "<<l’io
dell’individuo, in quanto non verità>>, è (o ha) altresì uno
<<SGUARDO>> (cioè una COSCIENZA) il quale, però, <<è
destinato a NON VEDERE altro che non verità>>, ossia l’io dell’individuo
VEDE soltanto <<non verità>>, e non: NON vede nulla, non gli appare
nulla. Per VEDERE soltanto <<non verità>>, lo
<<SGUARDO>> dell’io individuale deve costituirsi come un
<<apparire a "me">> (cioè all’io individuale), al cui
"me" appaia, perciò, soltanto <<non verità>>. Dunque,
l’io dell’individuo è (o ha) uno SGUARDO differente da (anzi: OPPOSTO a) l’Io
del destino, quindi, ad egli QUALCOSA APPARE, il che vuol dire che qualcosa
appare a "me", altrimenti sarebbe FALSO che l’io individuale sia
<<destinato a NON VEDERE altro che non verità>>.
Dico che lo sperimentante è sempre l'io del destino, laddove
lo sperimentare è appunto l'APPARIRE DEL provare-sconcerto-e turbamento-da-
parte-di-un-io-individuale. Ma
l'io-individuale-che-crede-sia-un-suo-contenuto-il-provare-sconcerto-e-turbamento
(ossia l'atto di coscienza in cui tale contenuto consiste) è appunto un
contenuto dell'io del destino, il quale però sa della non verità di tale
contenuto. Cio' che accade è ciò che è destino che appaia. Ma occorre un
riferimento alla cosiddetta testimonianza del destino: essa non appare in tutti
i "cerchi", ma solo in alcuni (finché la testimonianza del destino
sarà linguaggio dei popoli). Ma anche questo non apparire attuale, in ogni
cerchio, della testimonianza del destino è una "volontà" del destino
(che non ha nulla a che fare con la volontà di potenza dell'individuo). (La
Gloria, p. 72)>>.
Certamente, per Severino, <<lo SPERIMENTANTE è sempre l'io del destino>>.
Infatti scrive:
<<l’Io del destino SPERIMENTA il dolore e l’angoscia, MA LASCIA che sia l’io
dell’individuo a PROVARE
sconcerto, turbamento [etc…]>>.
Però, quel <<MA>> avversativo deve implicare che l’io
empirico PROVI
sconcerto, cioè che PROVI qualcosa di DIVERSO dall’Io del destino, mentre
quest’ultimo si limita a SPERIMENTARE
<<il dolore e l’angoscia>> MA NON lo <<sconcerto ed il
turbamento>>, altrimenti, al posto del <<MA>>, avremmo
dovuto aspettarci la congiunzione <<E>>.
Perché se l’Io del destino PROVASSE <<sconcerto ed il turbamento>>,
PROVEREBBE
ciò che NON lo renderebbe in alcun modo DIFFERENTE dall’io
empirico, ossia <<sconcerto ed il turbamento>>, il che è
appunto impossibile, perché l’Io del destino non erra e quindi non si
sconcerta/turba…
Sulla scorta di ciò, devo dissentire da EK ove scrive:
<<Ma l'io-individuale-che-crede-sia-un-suo-contenuto-il-PROVARE-sconcerto-e-turbamento
(ossia l'atto di coscienza in cui tale contenuto consiste) è appunto un
contenuto dell'io del destino, il quale però sa della non verità di tale
contenuto>>,
appunto perché lo <<sconcerto ed il turbamento>>
sono PROVATI
soltanto dall’io empirico, mentre l’Io del destino ESPERISCE ciò che l’io empirico PROVA ciò che gli compete
di PROVARE in quanto È
io empirico e non del destino, perché _ mi ripeto _, l’Io del destino NON può
mai PROVARE
alcun <<sconcerto, turbamento>>.
In caso contrario, non si capirebbe più nulla…
Che differenza vi è, dunque, tra SPERIMENTARE e PROVARE?
Quel <<MA>> avversativo DEVE implicare una pur qualche minima
differenza…
----------
[5]
EK:
<<In alcuni cerchi, dunque, albeggia la
testimonianza del destino, la quale però è essa stessa non verità, perché è
innanzitutto una volontà di testimoniarla. Nondimeno, la stessa alienazione
della testimonianza del destino è saputa qua talis. D'altronde, anche
nei cerchi dove non albeggia la testimonianza del destino "[...] le tracce
enigmatiche e svianti lasciate dalla Gioia e dal cerchio finito del destino
sulla terra isolata non sono l'assenza di ogni traccia. In enigma e come in uno
specchio deformante la Gioia si fa sentire da chiunque, fa sentire a chiunque
di essere la Gioia" (La Gloria, p. 72)>>.
Però mi chiedo: ma se tale testimonianza ALBEGGIANTE <<è
essa stessa non verità>>,
allora che testimonianza del destino è?
Aggiunge EK:
<<Nondimeno, la stessa alienazione della
testimonianza del destino è saputa qua talis. D'altronde, anche nei
cerchi dove non albeggia la testimonianza del destino "[...] le tracce ENIGMATICHE
e SVIANTI lasciate dalla Gioia e dal cerchio finito del destino sulla terra
isolata non sono l'assenza di ogni traccia. IN ENIGMA e come in uno SPECCHIO
DEFORMANTE la Gioia si fa sentire da chiunque, fa sentire a chiunque di essere
la Gioia" (La Gloria, p. 72)>>.
Direi, però, che se le tracce del destino sono <<ENIGMATICHE
e SVIANTI>> e
cioè sono <<IN ENIGMA
e come in uno SPECCHIO DEFORMANTE>>,
allora NON
si capisce COME
da tale deformazione e sviamento sia possibile sostener in modo NON-deformato e
NON-sviato, che <<la stessa alienazione della testimonianza del
destino è saputa qua talis>>
sol perché ci si è convinti che tali deformazioni non siano <<l'assenza
di ogni traccia>>.
Certo, NON ne sono <<l’assenza>>, ma la DEFORMAZIONE sì; il che è
come dire che esse, nella loro autenticità o verità, sono ASSENTI, sono
soltanto PRESUNTE, CREDUTE…
A ciò EK risponde:
<<Ora, la stessa testimonianza del destino è non
verità perché è alienazione (è volontà interpretante, linguaggio...), ma, si
diceva, in essa l'alienazione è saputa qua talis; se indico la verità,
certamente questo è un errare, ma non è un errare "ciò" che viene
indicato (appunto perché il "significato" si distingue dalla
"parola", cioè oltrepassa la parola. Ma qui andiamo a toccare un tema
essenziale: quello del rapporto tra verità ed errore. Partendo dal linguaggio
(visto che il destino della verità si presenta nel linguaggio), occorrerà
distinguere il "significato" dalla "parola": se tutto ciò
che appare apparisse come interpretazione, non apparirebbe mai l'interpretato,
e dunque non potrebbe apparire neppure l'interpretazione come tale. Quindi è
assolutamente necessario che appaia qualcosa che non è a sua volta
interpretazione, e questo "qualcosa" è appunto la terra che si mostra
nello sguardo del destino (la "pura terra"). Del resto, "L'uomo
non solo è eterno, come ogni ente, ma è anche il luogo in cui l'eterno
eternamente si manifesta" (EdN, p. 198), o, ancora:" L'essere è
destinato ad apparire. In questa destinazione risiede l'essenza dell'uomo. Il
significato originario dell''anima' - e della 'mente', del 'pensiero', della
'coscienza', ecc. - è il loro porsi come apparire dell'essere. E 'io' significa
l'apparire in quanto ha come contenuto se medesimo; cioè esprime in forma
brachilogica l'identità della forma e del contenuto" (ibidem). Se,
dunque, un qualsiasi linguaggio negasse l'innegabile, esso negherebbe, ipso
facto, la propria negazione dell'innegabile>>.
Dunque _ dice EK _ <<se indico la verità, CERTAMENTE QUESTO È UN ERRARE, ma non è un errare "ciò" che viene indicato>>;
e tuttavia, poiché l’indicazione della verità avviene all’insegna
dell’ERRARE DA PARTE DELL’ERRORE (perché non è
certo la verità ad errare), allora l’ERRORE NON PUÒ SAPERE che <<non è un errare
"ciò" che viene indicato>>, perché se lo sapesse, esso NON sarebbe ERRORE NÉ l’indicazione
della verità avverrebbe all’insegna dell’ERRARE.
Ovvero:
siccome l’indicazione della verità avviene all’insegna
dell’ERRARE, ciò
vuol dire inevitabilmente che tale indicazione sia testimonianza DELL’ERRORE.
Bene; poiché tale testimonianza è OPERA DELL’ERRORE,
allora NON ci si può aspettare (NON si può sostenere) che l’ERRORE SAPPIA che <<non
è un errare "ciò" che viene indicato>>, perché altrimenti
l’ERRORE saprebbe già quanto basta per NON ritenerlo ERRORE, in quanto SAPREBBE, appunto,
sia di essere errore (cosa invece preclusagli), sia che <<non è
un errare "ciò" che viene indicato>>.
Per cui l’errore può assurgere SOLTANTO ad una ‘verità’
INTERNA al NICHILISMO
cioè all’ERRORE,
senza neppure poter sapere di esser interno al nichilismo, visto che
l’errore IGNORA
di esser errore…
Stesso discorso, perciò va fatto per la seguente
affermazione:
<<Se, dunque, un qualsiasi linguaggio negasse
l'innegabile, esso negherebbe, ipso facto, la propria negazione
dell'innegabile>>.
Infatti, il <<linguaggio dell’errare>> _ così lo
chiama Severino _, non
potrà mai negare l’innegabile, ma soltanto perché l’errore NON PUÒ CONOSCERE il destino
severiniano giacché, se lo conoscesse, NON lo negherebbe poiché in tal caso l’errore
NON SAREBBE PIÙ (o mai stato) errore (in quanto conoscerebbe la verità).
In relazione a questo discorso, osserva altrove EK:
<<Poi quel passo di N.
Cusano
intende dire che l'io
empirico è inilluminabile perché dire della verità (anche nella testimonianza
del destino) è pur sempre volontà interpretante, ossia non verità, ma ciò non
toglie che, nella testimonianza del destino, l'errare in cui essa stessa
consiste, non sia l'apparire dell'alienazione COME TALE. Distinguiamo allora la
volontà di dare testimonianza della verità, la quale è un errare, da CIO' che
viene indicato: ossia la verità: "Il senso non è il segno e la malattia
del segno non è la malattia del senso in quanto senso" (Destino della
necessità, p. 548)>>.
Il <<passo di N. Cusano>> a cui EK si
riferisce è il seguente:
<<Si deve pertanto concludere che nel pensiero dell’isolamento
un lampo di comprensione autentica [del destino] è IMPOSSIBILE (nello
stesso senso e per lo stesso motivo per cui lo si deve escludere in relazione
all’io dell’individuo): è necessario che, all’interno del suo isolamento dalla
verità del destino, il pensiero mortale [dell’io individuale, dunque]
FRAINTENDA, SEMPRE E INEVITABILMENTE, le tracce della Gioia. Se dunque “anche
nell’isolamento della terra il destino lascia la propria traccia”, questa “non
può non essere ambigua, sviante, cioè NON PUÒ CONDURRE GLI ABITATORI DELLA
TERRA ISOLATA ALLA LUCE DEL DESTINO. ALTRIMENTI LA TERRA NON SAREBBE ISOLATA”.
– (Nicoletta Cusano: Emanuele Severino. Oltre il nichilismo. pag. 447.
Maiuscoli e parentesi quadre miei: RF).
Ecco, mi spiace dover contraddire EK, ma <<quel
passo di N. Cusano>> NON intende tanto riferire
l’inilluminabilità dell’io empirico alla <<volontà interpretante>>, quanto, innanzitutto, alle
<<premesse fondamentali>> del pensiero dell’io empirico, le
quali appartengono <<all’isolamento della verità, e cioè a una visione
necessariamente DISTORCENTE, ROVESCIANTE, E SVIANTE>> (Cusano, op.
cit. pag. 447), e prosegue in nota 13:
<<[…] nell’isolamento non si possono avere tracce dirette
della verità dell’essere>>, per cui <<la loro presenza non
può essere un “problema” aperto” [come invece sostiene Umberto Soncini]:
si tratta di tracce alterate e svianti della verità, e la loro presenza non è
problematica, ma necessaria>>.
Dunque, direi, che tutto ciò TOLGA
<<che, nella testimonianza del destino, l'errare in
cui essa stessa consiste, non sia l'apparire dell'alienazione COME TALE>>,
per cui è da RESPINGERE l’invito di EK ove esorta a distinguere
<<la volontà di dare testimonianza della verità, la
quale è un errare, da CIO' che viene indicato: ossia la verità: "Il senso
non è il segno e la malattia del segno non è la malattia del senso in quanto
senso" (Destino della necessità, p. 548)>>.
Ciò va respinto, dicevo, perché l’errare a cui si
riferisce la Cusano (ed il sottoscritto), concerne proprio <<CIO' che
viene indicato: ossia la verità>>,
giacché l’alienazione come tale, consiste proprio <<nell’isolamento>>
nel quale <<non
si possono avere tracce dirette della verità dell’essere>> a beneficio di NESSUN io empirico, incluso
Severino.
Aggiungo, perciò, che se <<la malattia del segno non
è la malattia del senso in quanto senso>>, allora NON È VERO che <<nell’isolamento>>
dal destino <<non
si possono avere tracce dirette della verità dell’essere>>.
Inoltre, se, come riconosce Severino, il segno è malato,
allora il senso indicato dal segno sarà come minimo ambiguo, indecidibile, per non
dire INCOMPRENSIBILE, come infatti la Cusano attesta a proposito della
visione <<DISTORCENTE, ROVESCIANTE, E SVIANTE>> presente
nell’isolamento della verità.
----------
[6]
Infine, riporto anche il seguente passaggio di EK:
<<Poi dicevo che questo io empirico/corporeità umana
non va in giro da solo,
ma è unito
all'io del destino come suo contenuto (infatti il mio stesso atto di coscienza
è uno dei contenuti che appaiono nel cerchio dell'apparire). Di conseguenza
(per l'identità di identità) l'Io-che-è-includente-il-suo-contenuto
è lo-stesso-suo-contenuto-che-è-incluso-nell'Io>>.
Ma ecco, che l’<<io empirico/corporeità umana non [vada] in giro da solo>>
in quanto sarebbe <<unito
all'io del destino come suo contenuto>> è l’ennesima consapevolezza NON RAGGIUNGIBILE DALL’io
empirico inilluminabile,
cioè da colui che, nel suo voler indicare la verità, ERRA, come anche EK ha riconosciuto poco
sopra nella parte n° [5]:
<<se indico la verità, CERTAMENTE QUESTO È UN
ERRARE>>.
La quale unità con l’Io del destino, perciò, NON TOGLIE all’io
empirico la sua costituzione ontica di ERRORE impossibilitato a riconoscere tale
unità con
l’Io del destino.
Ricambio i cari saluti.
Roberto Fiaschi
-------------------------------------------------------
Ecco il testo completo di Egon Key:
<<Ciao. Allora, rispondo per punti. Dopo le citazioni
dei punti 1) e 2) scrivi: "[...] vi è una chiara DISTINZIONE tra la
<<COSCIENZA>> dell’io dell’individuo ed il <<cerchio
dell’apparire in cui l’Io del destino consiste>>, ove la prima
<<può apparire solo come contenuto del cerchio dell’apparire in cui
l’Io del destino consiste>>."
Non nego la distinzione tra i "due", ossia tra il
cerchio dell'apparire e il suo contenuto inteso come un "mio" aver
coscienza (per esempio di questa mela).
Scrivi, subito dopo: "Poiché <<CHI PROVA sconcerto
e si turba È L’IO DELL’INDIVIDUO>>, è allora consequenziale come il
PROVARE sconcerto e turbamento debba implicare un <<apparire a
"me">> io individuale, altrimenti NON AVREBBE ALCUN SENSO
affermare che <<CHI PROVA sconcerto e si turba È L’IO
DELL’INDIVIDUO>>, giacché se NIENTE apparisse <<a
"me">> io individuale, allora NON proverei neppure sconcerto e
turbamento."
Ovviamente tu qui stai facendo valere l'autoevidenza
dell'"apparire a me". Diciamo che tale "apparire a me" (la
coscienza intesa come un prodotto del soggetto) non è certo un nulla: è
esistente, è un positivo, ma non ha verità, cioè è appunto una persuasione (che
è essa stessa un contenuto del cerchio dell'apparire), ma il suo contenuto è
nullo. E' nulla il contenuto di questa persuasione (ossia la verità dell'"apparire
a me" in quanto io empirico), ma non è certamente nulla questa persuasione
(che è appunto il mostrarsi di un aspetto della terra isolata). Ora, è proprio
la positività, l'esistenza di questa persuasione (nonostante il suo contenuto sia
nulla) che consente di pensarla (e che consente a te di pensare che la mela
appaia "a te"). Si diceva in altri post: "Si potrebbe affermare
con verità l'esistenza di 'qualcuno' a cui l'apparire apparisse e che si
costituisse come qualcosa di diverso dall'apparire stesso (ad esempio come
"individuo umano", "persona", "corpo",
"cervello", "mente", ecc.), solo se tale esistenza fosse
qualcosa che appare 'nel' cerchio dell'apparire del destino della verità; ma
allora il 'qualcuno' non sarebbe qualcosa di diverso dall'apparire, qualcosa
'a' cui l'apparire dovrebbe apparire, ma sarebbe, appunto, un contenuto
dell'apparire. E' un contenuto dell'apparire del destino anche la 'prospettiva'
specifica che costituisce ciò che, all'interno della terra isolata del cerchio
originario, viene chiamato ' il mio corpo' o 'la mia psiche'. E' cioè un
contenuto dell'apparire del destino anche il rapporto specifico che 'il mio
corpo' o 'il mio psichismo' intrattengono con gli essenti che appaiono in quel
cerchio e che differisce da quello intrattenuto dagli 'altri corpi' e dagli
'altri psichismi'" (La Gloria, pp. 213-214).
Poi aggiungi: "<<l’io dell’individuo, in quanto
non verità>>, è (o ha) altresì uno <<SGUARDO>> (cioè una
COSCIENZA) il quale, però, <<è destinato a NON VEDERE altro che non
verità>>, ossia l’io dell’individuo VEDE soltanto <<non
verità>>, e non: NON vede nulla, non gli appare nulla. Per VEDERE
soltanto <<non verità>>, lo <<SGUARDO>> dell’io
individuale deve costituirsi come un <<apparire a "me">>
(cioè all’io individuale), al cui "me" appaia, perciò, soltanto
<<non verità>>. Dunque, l’io dell’individuo è (o ha) uno SGUARDO
differente da (anzi: OPPOSTO a) l’Io del destino, quindi, ad egli QUALCOSA
APPARE, il che vuol dire che qualcosa appare a "me", altrimenti
sarebbe FALSO che l’io individuale sia <<destinato a NON VEDERE altro che
non verità>>.
Dico che lo sperimentante è sempre l'io del destino, laddove
lo sperimentare è appunto l'APPARIRE DEL provare-sconcerto-e turbamento-da-
parte-di-un-io-individuale. Ma l'io-individuale-che-crede-sia-un-suo-contenuto-il-provare-sconcerto-e-turbamento
(ossia l'atto di coscienza in cui tale contenuto consiste) è appunto un
contenuto dell'io del destino, il quale però sa della non verità di tale
contenuto. Cio' che accade è ciò che è destino che appaia. Ma occorre un
riferimento alla cosiddetta testimonianza del destino: essa non appare in tutti
i "cerchi", ma solo in alcuni (finché la testimonianza del destino
sarà linguaggio dei popoli). Ma anche questo non apparire attuale, in ogni
cerchio, della testimonianza del destino è una "volontà" del destino
(che non ha nulla a che fare con la volontà di potenza dell'individuo). In
alcuni cerchi, dunque, albeggia la testimonianza del destino, la quale però è
essa stessa non verità, perché è innanzitutto una volontà di testimoniarla.
Nondimeno, la stessa alienazione della testimonianza del destino è saputa qua
talis. D'altronde, anche nei cerchi dove non albeggia la testimonianza del
destino "[...] le tracce enigmatiche e svianti lasciate dalla Gioia e dal
cerchio finito del destino sulla terra isolata non sono l'assenza di ogni
traccia. In enigma e come in uno specchio deformante la Gioia si fa sentire da
chiunque, fa sentire a chiunque di essere la Gioia" (La Gloria, p. 72).
Al punto 3) Vale anche qui quello che dicevo sopra: perché
l'io individuale che si persuade della terra isolata appare esattamente nel
cerchio dell'apparire come questo stesso contenuto essente, cioè come qualcosa
che l'io del destino sperimenta, ne è infatti l'APPARIRE, sapendo, tuttavia,
che il contenuto di tale persuasione è nullo. Per cui sostengo che la tesi
severiniana dell'apparire che appare a sé medesimo sia corretta.
Quanto poi alla questione dell'errore e della terra isolata
ecc.: "il destino non “illumina” l’io della terra isolata – la verità non
può illuminare la non verità ->> (La Gloria, p. 77), sappiamo che se
fosse vero il contrario, la terra isolata non sarebbe tale. Ora, la stessa
testimonianza del destino è non verità perché è alienazione (è volontà interpretante,
linguaggio...), ma, si diceva, in essa l'alienazione è saputa qua talis; se
indico la verità, certamente questo è un errare, ma non è un errare
"ciò" che viene indicato (appunto perché il "significato"
si distingue dalla "parola", cioè oltrepassa la parola. Ma qui
andiamo a toccare un tema essenziale: quello del rapporto tra verità ed errore.
Partendo dal linguaggio (visto che il destino della verità si presenta nel
linguaggio), occorrerà distinguere il "significato" dalla
"parola": se tutto ciò che appare apparisse come interpretazione, non
apparirebbe mai l'interpretato, e dunque non potrebbe apparire neppure
l'interpretazione come tale. Quindi è assolutamente necessario che appaia
qualcosa che non è a sua volta interpretazione, e questo "qualcosa" è
appunto la terra che si mostra nello sguardo del destino (la "pura
terra"). Del resto, "L'uomo non solo è eterno, come ogni ente, ma è
anche il luogo in cui l'eterno eternamente si manifesta" (EdN, p. 198), o,
ancora:" L'essere è destinato ad apparire. In questa destinazione risiede
l'essenza dell'uomo. Il significato originario dell''anima' - e della 'mente',
del 'pensiero', della 'coscienza', ecc. - è il loro porsi come apparire
dell'essere. E 'io' significa l'apparire in quanto ha come contenuto se medesimo;
cioè esprime in forma brachilogica l'identità della forma e del contenuto"
(ibidem). Se, dunque, un qualsiasi linguaggio negasse l'innegabile, esso
negherebbe, ipso facto, la propria negazione dell'innegabile (il linguaggio che
testimonia il destino "indica" appunto i tratti dell'innegabile,
anche se sappiamo che la persintassi infinita non potrà mai entrare per intero
nel linguaggio). La cosiddetta struttura originaria è assolutamente libera
dalla propria negazione, perché è essenzialmente legata all’autonegazione della
propria negazione (di conseguenza anche gli "errori" teoretici di
Severino, è necessario che siano, già da sempre, oltrepassati). La Necessità è
tale perché la negazione della Necessità è di necessità autonegazione. Questo è
quanto. Un caro saluto>>.
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