La ragione di questo titolo apparirà alla fine del post.
Intanto, riporto le solite risposte (sempre da me
scaglionate) di Egon
Key (EK) al mio post n° 80.
[1]
EK:
<<Giusto una sortita velocissima, andando a toccare
due punti nevralgici: e cioè (ancora una volta) l'apparire autoriflessivo
severiniano e lo sfondo teorico in cui esso si inscrive.
In primo luogo, tu sostieni:
"<<l'apparire «a me»>>
INCLUDE (è autocosciente di) ME stesso come proprio contenuto, e non un
qualcosa che debba esser fondato onde evitare <<il progressus in
indefinitum>>."
Le cose però non stanno propriamente come tu le descrivi.
Scrive Severino: "[...] il «pensiero» è innanzi tutto
l'apparire degli enti. L' «io penso» viene infatti quasi sempre unito (in modo
più o meno esplicito) a «gli enti appaiono a me»: io, che penso, sono appunto
l'io a cui appaiono gli enti. L' «a cui» è la notizia che l'io ha di essi. Dire
quindi che gli enti appaiono a me significa dire che l'apparire degli enti
appare a me - appunto perché «a me» non può non significare, in questa
prospettiva, «apparire a me»; sì che dire che l'apparire degli enti appare a me
significa dire che l'apparire degli enti appare all'apparire a me ... et sic
in indefinitum. In altri termini, che gli enti appaiano «a me» non
significa, in quella prospettiva, che essi appaiono a un sasso o a un albero,
ma che appaiono a una coscienza, cioè a un apparire; e se si intende tener
fermo che l 'apparire è sempre un appare «a un io», «a una coscienza», allora
l'apparire «a me» è l'apparire all'apparire a me, dove l' «a me» determina un progressus
in indefinitum. Con la conseguenza che, se ciò a cui appaiono gli enti
viene indefinitamente spostato e allontanato, gli enti non appaiono più a
qualcuno, e chi crede che l'apparire possa essere solo un apparire a qualcuno è
costretto a concludere che non appare alcun ente. (Cervello, mente, anima, pp.
26-27)>>.
Il discorso di Severino, ove dice:
<<Dire quindi che gli enti appaiono a me significa
dire che l'apparire degli enti appare
a me - appunto perché
«a me» non può non significare, in questa prospettiva, «apparire a me»; sì che dire che l'apparire degli enti appare
a me significa dire che l'apparire degli enti appare all'apparire a
me ... et sic in indefinitum>>,
distorce l’impiego del termine verde-azzurro <<appare a me>>, laddove
dice
(1) <<che dire che l'apparire degli enti appare a me
significa dire che l'apparire degli enti appare all'apparire a
me ... et sic in indefinitum>>,
inserendo indebitamente lo <<all’apparire>>, tra <<appare>> ed
<<a me>>;
no, perché, che gli enti appaiano a me, significa dire
(2) <<che l'apparire degli enti appare>> A ME, punto,
SENZA quel <<all’apparire>>, poiché quest’ultimo è
SPURIO, in quanto esso è già stato detto/indicato da <<appare>>, come si
vede nella frase (2).
------------
[2]
EK:
<<In secondo luogo, va ricordato che questa
concezione dell'apparire è quella di un apparire in senso trascendentale (che
nega radicalmente ogni gnoseologismo e quindi anche la persuasione che la
realtà sia qualcosa di esterno e di indipendente rispetto al conoscere stesso),
per cui aggiungiamo pure una limpida dimostrazione dell'infondatezza della
posizione realistica. Scrive Severino:
"Il problema allora è questo: l'affermazione di ciò che
esiste indipendentemente dall'orizzonte delle rappresentazioni umane (e cioè
indipendentemente dall'esperienza) può essere una proposizione sintetica a
posteriori? O anche; l'affermazione di ciò che sta al di là dell'esperienza,
può essere un'affermazione, il cui valore sia dato dall'attestazione dell'esperienza?
Può essere fondata sull'esperienza? L'esperienza non può fondare un discorso
che parla di cose che non appartengono all'esperienza. Questo "no"
costituisce il primo motivo del toglimento idealistico della cosa in sé, ossia
di una realtà in sé, indipendente dalle rappresentazioni umane. Allora questo
atteggiamento realistico, che non abbiamo solo sulle labbra, ma anche in tutti
i nostri atti, questa convinzione secondo la quale noi viviamo costantemente,
questa convinzione si presenta come qualcosa che non sa esibire,
nell'esperienza, il proprio valore. Se l'affermazione della realtà esterna non
è una sintesi a posteriori, d'altra parte è una sintesi. Cosa vuol dire
"sintesi"? Vuol dire che il predicato è semanticamente diverso dal
soggetto, cioè l'esternità (o indipendenza) si distingue dal concetto di
realtà. Nella proposizione "la realtà è esterna alla mente", il
soggetto è "realtà"; il predicato è "esternità alla mente".
Si dice che è una sintesi, perché l'analisi del significato "realtà"
non esibisce il predicato, cioè l'"esternità alla mente" non è una
proprietà che è immediatamente rilevata nel concetto di realtà. Quando il
predicato appartiene al soggetto, tutte le volte che c'è il soggetto, ci
dev'essere anche il predicato; allora il predicato "esternità alla
mente" non può essere un predicato analiticamente esistente nel soggetto,
perché ciò vorrebbe dire che ovunque c'è realtà c'è esternità alla mente; e
questo renderebbe impensabile lo stesso concetto di mentalità: tutto il reale
sarebbe esterno alla mente, la mente dovrebbe essere essa stessa esterna alla
mente. Ma se questo è l'assurdo cui porta l'ipotesi di un rapporto analitico
tra soggetto e predicato, è però sufficiente l'analisi di questi due
significati per vedere che il predicato è formalmente altro dal soggetto.
Realtà vuol dire realtà, esternità alla mente vuol dire qualcosa che non è
realtà. Qual è allora il fondamento della posizione realistica? L'idealismo -
inteso nel senso più ampio - è la coscienza dell'infondatezza della convinzione
realistica. (Istituzioni di filosofia, pp. 10-11 e 66-67)>>.
Ma è IMPOSSIBILE <<esibire nell'esperienza, il […]
valore>> del realismo mediante una procedura unicamente argomentativa
e quindi NON-esperienziale, INTERNA al soggetto e quindi ALTRA rispetto ad
esso, senza perciò ricorrere a tale ALTRO dal soggetto cui è l’esperienza,
perché se il tacito presupposto di partenza consiste nella convinzione che l’ALTRO
dal soggetto è pur sempre INTERNO ad una coscienza differente dal soggetto,
tale da includerlo, allora qualsiasi procedura è già viziata in partenza.
Con <<"esternità alla mente">>
ci si deve riferire alla mente dell’individuo,
e dunque è necessario basarsi su quell’esperienza negletta a priori sulla
scorta di ragionamenti come quello su esposto da Severino.
Egli scrive che
<<questo atteggiamento realistico, che non abbiamo
solo sulle labbra, ma
anche in tutti i nostri atti, questa convinzione secondo la quale noi
viviamo costantemente, questa convinzione si presenta come qualcosa che non sa esibire,
nell'esperienza, il proprio valore>>.
Ora, a me pare che Severino non si accorga come, affermando
che <<questo atteggiamento realistico>> che abbiamo <<in tutti i nostri atti>>,
CONTRADDICA ove scrive che <<questa convinzione si presenta come
qualcosa che non sa
esibire, nell'esperienza, il proprio valore>>,
perché è proprio la sua presenza che ci guida <<in tutti i nostri atti>>
ad ESIBIRE IL PROPRIO VALORE.
Se infatti chiudessi gli occhi e mi mettessi alla guida di un’automobile
in città, la perdita dei sensi in cui incapperei sicuramente una volta
schiantatomi contro una casa, sarebbe o no l’attestazione della posizione
realistica?
Se no, PERCHÉ?
QUALE ARGOMENTAZIONE potrà mai negare che la perdita
dei sensi IMPLICHI la temporanea SCOMPARSA di ciò che abitualmente tutti noi riteniamo
essere esterno alla mente dell’individuo?
NEPPURE se si tirasse in ballo una maxi-mente onniavvolgente ( = l’Io
del destino) si riuscirebbe ad eliminare il realismo, giacché, restando all’esempio
della guida dell’auto con gli occhi bendati, se perdessi i sensi, e se perciò
ANCHE tale perdita dei sensi fosse INTERNA alla maxi-mente onniavvolgente, ebbene,
l’individuo DOVREBBE POTER TRANQUILLAMENTE OSSERVARE (essere consapevole di) TUTTO
COME SE NON FOSSE MAI SVENUTO, appunto perché l’evento che gli ha causato la
perdita di coscienza NON sarebbe a lui ESTERNO bensì TUTTO INTERNO alla
maxi-mente…
Comunque, la su esposta tesi di Severino la commenterò in
altro momento su altro post…
--------------
[3]
EK
<<Pertanto, occorre: 1) riflettere adeguatamente
sulla questione dell'apparire autoriflessivo; 2) sull'infondatezza della
posizione realistica (e la tua è, innanzitutto, una posizione realistica)>>.
Spero che quanto ho scritto sopra ai punti [1] e [2]
rappresenti la mia riflessione sul tema indicato.
Per questo, adesso, attenderei le altrettante personali riflessioni
di EK (e pregherei: NON soltanto citazioni altrui) in senso contrario
a quanto da me scritto.
---------------
[4]
EK:
<<Poi dici:
"<<l’Io del destino SPERIMENTA il
dolore e l’angoscia, MA LASCIA che sia l’io dell’individuo a PROVARE sconcerto,
turbamento [etc…]>> Però, quel <<MA>> avversativo deve
implicare che l’io empirico PROVI sconcerto, cioè che PROVI qualcosa di DIVERSO
dall’Io del destino, mentre quest’ultimo si limita a SPERIMENTARE <<il
dolore e l’angoscia>> MA NON lo <<sconcerto ed il
turbamento>>, altrimenti, al posto del <<MA>>, avremmo dovuto
aspettarci la congiunzione <<E>>."
Qui va sottolineato che "sperimentare" vuol dire
APPARIRE DEL dolore, del turbamento, dello sconcerto o di qualsiasi altra cosa
sia; si dice nel testo: "l'Io del destino sperimenta il dolore dell'io
dell'individuo, OSSIA il dolore in cui questo io si sente radicalmente
estraniato da sé. L'Io del destino vede la NON VERITÀ di questo sentirsi
estraniati [per vedere la non verità di questo sentirsi estraniati, deve
apparirgli lo straniamento; se no, di che parliamo, di ciò che neppure
appare?], ma, appunto, né è l'apparire, ossia lo sperimenta e, in questo senso,
'prova' il dolore in cui quel sentire consiste". Abbiamo detto che
"sperimentare" il dolore, significa APPARIRE DEL dolore. Tu hai mai
visto il dolore andarsene da solo in giro, senza lo sgomento o il tormento o
l'estraneità che produce? Quindi quando riporti "l’Io del destino
SPERIMENTA il dolore e l’angoscia, MA LASCIA che sia l’io dell’individuo a
PROVARE sconcerto, turbamento [etc…]>>", il filosofo intende
dire che all'apparire (cioè al Destino stesso, perché l'apparire può apparire
solo a sé medesimo!) appare quel dolore col tormento/sgomento/estraneità ad
esso connessi, ma come qualcosa che NON HA VERITÀ: il contenuto che appare, in
quanto contraddittorietà (cioè come contenuto del contraddirsi) è un niente,
ossia esiste solo come contenuto di una fede. ecc ecc.>>.
Senonché, i suddetti brani severiniani citati da me e, qui,
nuovamente da EK, NON
mi pare che intendano affermare che
<<il filosofo intende dire che all'apparire (cioè al
Destino stesso, perché l'apparire può apparire solo a sé medesimo!) appare quel
dolore col tormento/sgomento/estraneità ad esso connessi, ma come qualcosa che
NON HA VERITÀ: il contenuto che appare, in quanto contraddittorietà (cioè come
contenuto del contraddirsi) è un niente, ossia esiste solo come contenuto di
una fede>>,
perché <<L'Io del destino vede la NON VERITÀ di
questo sentirsi estraniati>>, sì, certo,
ma appunto, la vede SOLO LUI, perché quando Severino scrive che l’Io
del destino
<<LASCIA che sia l’io dell’individuo a PROVARE
sconcerto, turbamento>>,
NON sta dicendo, a mio parere,
che il NON AVER VERITÀ da parte del tormento/sgomento/estraneità
sia ciò che l’Io del destino lascia provare all’io empirico!
Giacché, per l’io empirico, il tormento/sgomento/estraneità
HA VERITÀ!
Cioè, che il tormento/sgomento/estraneità NON ABBIA
VERITÀ, è ciò che esperisce ( = che sa) SOLTANTO l’Io del destino, NON l’io empirico!
Quest’ultimo, infatti, si tormenta/sgomenta/estranea
perché NON SA ( = NON VEDE) la NON
VERITÀ di ciò che, invece, VEDE l’Io del destino.
Dunque, quel <<MA LASCIA che sia l’io dell’individuo a
PROVARE sconcerto, turbamento>>,
DEVE PER FORZA indicare una DIFFERENZA tra <<esperire>> da parte
dell’Io del destino ed il PROVARE
da parte dell’io empirico, altrimenti, ripeto, NON si capisce niente.
E questo riconferma come ANCHE ALL’io empirico APPAIA UN MODO, seppur
di contraddizioni, ma pur sempre apparire è.
E dove EK osserva:
<<L'Io del destino vede la NON VERITÀ di questo
sentirsi estraniati [per vedere la non verità di questo sentirsi estraniati,
deve apparirgli lo straniamento; se no, di che parliamo, di ciò che neppure
appare?]>>,
vero,
ma infatti, proprio perché <<LASCIA che sia
l’io dell’individuo a PROVARE
sconcerto, turbamento>>,
l’Io del destino ESPERISCE LA NON VERITÀ di tale sconcerto, turbamento, certo,
<<MA>>
non PROVA lo
sconcerto, turbamento che invece PROVA l’io empirico, perché quest’ultimo lo
prova COME VERITÀ,
e non come NON
VERITÀ!
Avevo infatti scritto (post n° 80) che
“se l’Io del destino PROVASSE sconcerto ed il turbamento, PROVEREBBE ciò che NON
lo renderebbe in alcun modo DIFFERENTE dall’io empirico, ossia sconcerto
ed il turbamento, il che è appunto impossibile, perché l’Io del destino non
erra e quindi non si sconcerta/turba”.
E non si sconcerta/turba, appunto perché l’Io del destino VEDE la NON
VERITÀ di tale sconcerto ed il turbamento.
-----------
[5]
EK:
<<Ci sarebbero molti temi punti ancora da trattare,
ma il discorso sarebbe lungo, e qui possiamo (dobbiamo!) essere il più
possibile brachilogici! Ciao.
P.s. Te l'immaginini, dico, se, come tu dici, l'io del
destino vedesse solo il dolore, ma non vedesse anche lo sgomento, l'angoscia,
il tormento, l'estraneità che esso produce? Significherebbe che quei positivi
che essi sono, sarebbero nulla, cioè non sarebbero. Essi appaiono nello
sguardo del destino, MA come qualcosa il cui contenuto è nulla>>.
Ottima domanda/riflessione, alla quale rispondo:
Te l'immaginini, dico, se, come tu dici, l'io del destino
vedesse tutto
nel modo preciso in cui lo vede l’io empirico?
Vorrebbe dire che l’Io del destino, PROVANDO sconcerto
e turbamento, e credendo che essi ABBIANO VERITÀ, allora NON si distinguerebbe
più in nulla dall’io empirico.
Questo, se vogliamo, è un ulteriore motivo per sancire
la CONTRADDITTORIETÀ
della relazione Io del destino-io empirico.
Inoltre, le ragioni qui addotte da EK possono aver valore UNICAMENTE SE si condivide l’eternità
dell’ente, altrimenti restano soltanto meri PRESUPPOSTI.
----------------
[6]
EK:
<<Poi ho detto giorni fa, e ti eri detto d'accordo,
di evitare le lungaggini e i papiri sterminati, e di replicare, con commenti
che hanno un numero di caratteri umanamente tollerabili, direttamente nel
thread. Ma niente. Subito traditi i buoni propositi. E siamo sempre al
punto: non hai ancora afferrato la concezione severiniana dell'apparire
autoriflessivo (La dimostrazione che hai fornito sul tuo "apparire a
me" autofondato, a cui appare pure una realtà esterna indipendente da
esso, non è una dimostrazione di alcunché. Se si sa cos'è una dimostrazione). È
del dono della sintesi che si ha bisogno in queste beghe facebookiane. Per cui,
o ci si dà alla sintesi, oppure non se fa più niente (cosa di cui, peraltro,
non mi addololerò). Rebus sic stantibus...>>.
Mi dispiace per i miei <<papiri sterminati>>,
peraltro già abbastanza sintetici.
Certe tematiche non riesco a sviscerarle con poche battute,
le quali creerebbero equivoci che a loro volta imporrebbero ulteriori precisazioni
e quindi <<lungaggini>> per chiarire, etc…
Tuttavia, vorrei pacatamente ricordarTI _ e qui passo alla
seconda persona _ che fosti TU ad intervenire, NON ti ci ho tirato dentro io,
per cui, quando una persona interviene nella discussione di un post sterminato,
do per scontato che abbia preso atto della lunghezza, e perciò che l’abbia in
qualche modo accettata, altrimenti _ immagino _ non sarebbe intervenuta del
tutto.
Per quanto riguarda la questione dell’<<"apparire
a me" autofondato>>, ne ho già indicato qualcosa sopra, al punto
[2] CON PAROLE MIE, per cui mi aspetterei ARGOMENTAZIONI TUE PERSONALI, anziché un’esposizione
di brani severiniani i quali, guarda caso, sono proprio quelli messi a tema…
----------------
[7]
Infine EK:
<<Last but not least, l'io del destino
(l'apparire del destino della verità) è quella dimensione che, come tale, non
può essere 'affettività', ma che si rapporta all'affettività solo come a uno
dei contenuti che si mostrano all'interno della terra isolata, cioè ne è
appunto l'apparire, ossia una positività che appare (per esempio, nello specifico,
il dolore col suo straniamento), ma il cui contenuto è però nullo. Ma, at
the heart of it all, caro, ti dimentichi che, per Severino, c'è sempre una persintassi e una iposintassi, una
forma e un contenuto, uno sfondo e delle varianti - e il rapporto tra io del
destino e io empirico è sempre questo stesso rapporto (tenendo ferma, of
course, la struttura autoriflessiva dell'apparire). Se vuoi replicare, puoi
farlo con commenti in questo thread, a cui, tempo permettendo, risponderò. Se
mi vuoi propinare un altro post della rubrica "i nuovi mostri", che
trovo cosa scorrettissima e di cattivo gusto già in partenza, puoi scordarti
una replica (sapendo fin da ora che ciò ti addolorerà grandemente). Un caro
saluto e buon ferragosto>>.
Eh sì, purtroppo non c’è niente da fare.
Constato come il tentativo di esser gentili con te sia
destinato a naufragare.
Comunque, guarda, stai sereno: io continuerò a scrivere sul mio povero blog e a linkarlo sulla mia pagina Facebook finché avrò vita; lo farei quand’anche il sottoscritto fosse l’UNICA persona a leggere ciò che scrivo, il che è anche probabile, ma non me ne importa nulla.
Per cui,
TANTI SALUTI:
meglio NESSUN lettore che lettori COME TE.
Se tu non vorrai replicare, pazienza, vivrò ugualmente bene, in
fondo, chi ti credi di essere?
Beh, chi tu creda di essere, sei tu stesso ad averlo reso
noto:
<<p.s. ovviamente perché per esempio io-Egon Key sa quanto ho detto sopra?
Perché il cerchio di Egon
Key è uno dei cerchi in cui albeggia la testimonianza del destino. (Cioè
così si direbbe in termini severiniani). Nel muratore che
stava scatarrando dal tetto, sto pomeriggio, non credo che albeggi>>.
Eh certo, il muratore deve lavorare duramente, mica stare sul tetto in attesa che ALBEGGI la verità…
Peccato che, nonostante l’ALBA, non sia tu l’interesse dei
miei post, bensì gli argomenti, i temi, per cui non presumere troppo di te…
Roberto Fiaschi
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