sabato 12 agosto 2023

82)- CONGEDANDOMI DA UN ‘IO DEL DESTINO’ OVE «ALBEGGIA LA VERITÀ»…


La ragione di questo titolo apparirà alla fine del post.

Intanto, riporto le solite risposte (sempre da me scaglionate) di Egon Key (EK) al mio post n° 80.

[1]

EK:

<<Giusto una sortita velocissima, andando a toccare due punti nevralgici: e cioè (ancora una volta) l'apparire autoriflessivo severiniano e lo sfondo teorico in cui esso si inscrive.

In primo luogo, tu sostieni:

"<<l'apparire «a me»>> INCLUDE (è autocosciente di) ME stesso come proprio contenuto, e non un qualcosa che debba esser fondato onde evitare <<il progressus in indefinitum>>."

Le cose però non stanno propriamente come tu le descrivi.

Scrive Severino: "[...] il «pensiero» è innanzi tutto l'apparire degli enti. L' «io penso» viene infatti quasi sempre unito (in modo più o meno esplicito) a «gli enti appaiono a me»: io, che penso, sono appunto l'io a cui appaiono gli enti. L' «a cui» è la notizia che l'io ha di essi. Dire quindi che gli enti appaiono a me significa dire che l'apparire degli enti appare a me - appunto perché «a me» non può non significare, in questa prospettiva, «apparire a me»; sì che dire che l'apparire degli enti appare a me significa dire che l'apparire degli enti appare all'apparire a me ... et sic in indefinitum. In altri termini, che gli enti appaiano «a me» non significa, in quella prospettiva, che essi appaiono a un sasso o a un albero, ma che appaiono a una coscienza, cioè a un apparire; e se si intende tener fermo che l 'apparire è sempre un appare «a un io», «a una coscienza», allora l'apparire «a me» è l'apparire all'apparire a me, dove l' «a me» determina un progressus in indefinitum. Con la conseguenza che, se ciò a cui appaiono gli enti viene indefinitamente spostato e allontanato, gli enti non appaiono più a qualcuno, e chi crede che l'apparire possa essere solo un apparire a qualcuno è costretto a concludere che non appare alcun ente. (Cervello, mente, anima, pp. 26-27)>>.

Il discorso di Severino, ove dice:

<<Dire quindi che gli enti appaiono a me significa dire che l'apparire degli enti appare a me - appunto perché «a me» non può non significare, in questa prospettiva, «apparire a me»; sì che dire che l'apparire degli enti appare a me significa dire che l'apparire degli enti appare all'apparire a me ... et sic in indefinitum>>,

distorce l’impiego del termine verde-azzurro <<appare a me>>, laddove dice

(1) <<che dire che l'apparire degli enti appare a me significa dire che l'apparire degli enti appare all'apparire a me ... et sic in indefinitum>>,

inserendo indebitamente lo <<all’apparire>>, tra <<appare>> ed <<a me>>;  

no, perché, che gli enti appaiano a me, significa dire

(2) <<che l'apparire degli enti appare>> A ME, punto,

SENZA quel <<all’apparire>>, poiché quest’ultimo è SPURIO, in quanto esso è già stato detto/indicato da <<appare>>, come si vede nella frase (2).

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[2]

EK:

<<In secondo luogo, va ricordato che questa concezione dell'apparire è quella di un apparire in senso trascendentale (che nega radicalmente ogni gnoseologismo e quindi anche la persuasione che la realtà sia qualcosa di esterno e di indipendente rispetto al conoscere stesso), per cui aggiungiamo pure una limpida dimostrazione dell'infondatezza della posizione realistica. Scrive Severino:

"Il problema allora è questo: l'affermazione di ciò che esiste indipendentemente dall'orizzonte delle rappresentazioni umane (e cioè indipendentemente dall'esperienza) può essere una proposizione sintetica a posteriori? O anche; l'affermazione di ciò che sta al di là dell'esperienza, può essere un'affermazione, il cui valore sia dato dall'attestazione dell'esperienza? Può essere fondata sull'esperienza? L'esperienza non può fondare un discorso che parla di cose che non appartengono all'esperienza. Questo "no" costituisce il primo motivo del toglimento idealistico della cosa in sé, ossia di una realtà in sé, indipendente dalle rappresentazioni umane. Allora questo atteggiamento realistico, che non abbiamo solo sulle labbra, ma anche in tutti i nostri atti, questa convinzione secondo la quale noi viviamo costantemente, questa convinzione si presenta come qualcosa che non sa esibire, nell'esperienza, il proprio valore. Se l'affermazione della realtà esterna non è una sintesi a posteriori, d'altra parte è una sintesi. Cosa vuol dire "sintesi"? Vuol dire che il predicato è semanticamente diverso dal soggetto, cioè l'esternità (o indipendenza) si distingue dal concetto di realtà. Nella proposizione "la realtà è esterna alla mente", il soggetto è "realtà"; il predicato è "esternità alla mente". Si dice che è una sintesi, perché l'analisi del significato "realtà" non esibisce il predicato, cioè l'"esternità alla mente" non è una proprietà che è immediatamente rilevata nel concetto di realtà. Quando il predicato appartiene al soggetto, tutte le volte che c'è il soggetto, ci dev'essere anche il predicato; allora il predicato "esternità alla mente" non può essere un predicato analiticamente esistente nel soggetto, perché ciò vorrebbe dire che ovunque c'è realtà c'è esternità alla mente; e questo renderebbe impensabile lo stesso concetto di mentalità: tutto il reale sarebbe esterno alla mente, la mente dovrebbe essere essa stessa esterna alla mente. Ma se questo è l'assurdo cui porta l'ipotesi di un rapporto analitico tra soggetto e predicato, è però sufficiente l'analisi di questi due significati per vedere che il predicato è formalmente altro dal soggetto. Realtà vuol dire realtà, esternità alla mente vuol dire qualcosa che non è realtà. Qual è allora il fondamento della posizione realistica? L'idealismo - inteso nel senso più ampio - è la coscienza dell'infondatezza della convinzione realistica. (Istituzioni di filosofia, pp. 10-11 e 66-67)>>.

Ma è IMPOSSIBILE <<esibire nell'esperienza, il […] valore>> del realismo mediante una procedura unicamente argomentativa e quindi NON-esperienziale, INTERNA al soggetto e quindi ALTRA rispetto ad esso, senza perciò ricorrere a tale ALTRO dal soggetto cui è l’esperienza, perché se il tacito presupposto di partenza consiste nella convinzione che l’ALTRO dal soggetto è pur sempre INTERNO ad una coscienza differente dal soggetto, tale da includerlo, allora qualsiasi procedura è già viziata in partenza.

Con <<"esternità alla mente">> ci si deve riferire alla mente dellindividuo, e dunque è necessario basarsi su quell’esperienza negletta a priori sulla scorta di ragionamenti come quello su esposto da Severino.

Egli scrive che

<<questo atteggiamento realistico, che non abbiamo solo sulle labbra, ma anche in tutti i nostri atti, questa convinzione secondo la quale noi viviamo costantemente, questa convinzione si presenta come qualcosa che non sa esibire, nell'esperienza, il proprio valore>>.

Ora, a me pare che Severino non si accorga come, affermando che <<questo atteggiamento realistico>> che abbiamo <<in tutti i nostri atti>>, CONTRADDICA ove scrive che <<questa convinzione si presenta come qualcosa che non sa esibire, nell'esperienza, il proprio valore>>,

perché è proprio la sua presenza che ci guida <<in tutti i nostri atti>> ad ESIBIRE IL PROPRIO VALORE.

Se infatti chiudessi gli occhi e mi mettessi alla guida di un’automobile in città, la perdita dei sensi in cui incapperei sicuramente una volta schiantatomi contro una casa, sarebbe o no l’attestazione della posizione realistica?

Se no, PERCHÉ?

QUALE ARGOMENTAZIONE potrà mai negare che la perdita dei sensi IMPLICHI la temporanea SCOMPARSA di ciò che abitualmente tutti noi riteniamo essere esterno alla mente dell’individuo?

NEPPURE se si tirasse in ballo una maxi-mente onniavvolgente ( = l’Io del destino) si riuscirebbe ad eliminare il realismo, giacché, restando all’esempio della guida dell’auto con gli occhi bendati, se perdessi i sensi, e se perciò ANCHE tale perdita dei sensi fosse INTERNA alla maxi-mente onniavvolgente, ebbene, l’individuo DOVREBBE POTER TRANQUILLAMENTE OSSERVARE (essere consapevole di) TUTTO COME SE NON FOSSE MAI SVENUTO, appunto perché l’evento che gli ha causato la perdita di coscienza NON sarebbe a lui ESTERNO bensì TUTTO INTERNO alla maxi-mente…

Comunque, la su esposta tesi di Severino la commenterò in altro momento su altro post…

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[3]

EK

<<Pertanto, occorre: 1) riflettere adeguatamente sulla questione dell'apparire autoriflessivo; 2) sull'infondatezza della posizione realistica (e la tua è, innanzitutto, una posizione realistica)>>.

Spero che quanto ho scritto sopra ai punti [1] e [2] rappresenti la mia riflessione sul tema indicato.

Per questo, adesso, attenderei le altrettante personali riflessioni di EK (e pregherei: NON soltanto citazioni altrui) in senso contrario a quanto da me scritto.

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[4]

EK:

<<Poi dici:

"<<l’Io del destino SPERIMENTA il dolore e l’angoscia, MA LASCIA che sia l’io dell’individuo a PROVARE sconcerto, turbamento [etc…]>> Però, quel <<MA>> avversativo deve implicare che l’io empirico PROVI sconcerto, cioè che PROVI qualcosa di DIVERSO dall’Io del destino, mentre quest’ultimo si limita a SPERIMENTARE <<il dolore e l’angoscia>> MA NON lo <<sconcerto ed il turbamento>>, altrimenti, al posto del <<MA>>, avremmo dovuto aspettarci la congiunzione <<E>>."

Qui va sottolineato che "sperimentare" vuol dire APPARIRE DEL dolore, del turbamento, dello sconcerto o di qualsiasi altra cosa sia; si dice nel testo: "l'Io del destino sperimenta il dolore dell'io dell'individuo, OSSIA il dolore in cui questo io si sente radicalmente estraniato da sé. L'Io del destino vede la NON VERITÀ di questo sentirsi estraniati [per vedere la non verità di questo sentirsi estraniati, deve apparirgli lo straniamento; se no, di che parliamo, di ciò che neppure appare?], ma, appunto, né è l'apparire, ossia lo sperimenta e, in questo senso, 'prova' il dolore in cui quel sentire consiste". Abbiamo detto che "sperimentare" il dolore, significa APPARIRE DEL dolore. Tu hai mai visto il dolore andarsene da solo in giro, senza lo sgomento o il tormento o l'estraneità che produce? Quindi quando riporti "l’Io del destino SPERIMENTA il dolore e l’angoscia, MA LASCIA che sia l’io dell’individuo a PROVARE sconcerto, turbamento [etc…]>>", il filosofo intende dire che all'apparire (cioè al Destino stesso, perché l'apparire può apparire solo a sé medesimo!) appare quel dolore col tormento/sgomento/estraneità ad esso connessi, ma come qualcosa che NON HA VERITÀ: il contenuto che appare, in quanto contraddittorietà (cioè come contenuto del contraddirsi) è un niente, ossia esiste solo come contenuto di una fede. ecc ecc.>>.

Senonché, i suddetti brani severiniani citati da me e, qui, nuovamente da EK, NON mi pare che intendano affermare che

<<il filosofo intende dire che all'apparire (cioè al Destino stesso, perché l'apparire può apparire solo a sé medesimo!) appare quel dolore col tormento/sgomento/estraneità ad esso connessi, ma come qualcosa che NON HA VERITÀ: il contenuto che appare, in quanto contraddittorietà (cioè come contenuto del contraddirsi) è un niente, ossia esiste solo come contenuto di una fede>>,

perché <<L'Io del destino vede la NON VERITÀ di questo sentirsi estraniati>>, sì, certo,

ma appunto, la vede SOLO LUI, perché quando Severino scrive che l’Io del destino

<<LASCIA che sia l’io dell’individuo a PROVARE sconcerto, turbamento>>,

NON sta dicendo, a mio parere, che il NON AVER VERITÀ da parte del tormento/sgomento/estraneità sia ciò che l’Io del destino lascia provare all’io empirico!

Giacché, per l’io empirico, il tormento/sgomento/estraneità HA VERITÀ!

Cioè, che il tormento/sgomento/estraneità NON ABBIA VERITÀ, è ciò che esperisce ( = che sa) SOLTANTO l’Io del destino, NON l’io empirico!

Quest’ultimo, infatti, si tormenta/sgomenta/estranea perché NON SA ( = NON VEDE) la NON VERITÀ di ciò che, invece, VEDE l’Io del destino.

Dunque, quel <<MA LASCIA che sia l’io dell’individuo a PROVARE sconcerto, turbamento>>,

DEVE PER FORZA indicare una DIFFERENZA tra <<esperire>> da parte dell’Io del destino ed il PROVARE da parte dell’io empirico, altrimenti, ripeto, NON si capisce niente.

E questo riconferma come ANCHE ALL’io empirico APPAIA UN MODO, seppur di contraddizioni, ma pur sempre apparire è.

E dove EK osserva:

<<L'Io del destino vede la NON VERITÀ di questo sentirsi estraniati [per vedere la non verità di questo sentirsi estraniati, deve apparirgli lo straniamento; se no, di che parliamo, di ciò che neppure appare?]>>,

vero,

ma infatti, proprio perché <<LASCIA che sia l’io dell’individuo a PROVARE sconcerto, turbamento>>,

l’Io del destino ESPERISCE LA NON VERITÀ di tale sconcerto, turbamento, certo, <<MA>> non PROVA lo sconcerto, turbamento che invece PROVA l’io empirico, perché quest’ultimo lo prova COME VERITÀ, e non come NON VERITÀ!

Avevo infatti scritto (post n° 80) che

“se l’Io del destino PROVASSE sconcerto ed il turbamento, PROVEREBBE ciò che NON lo renderebbe in alcun modo DIFFERENTE dall’io empirico, ossia sconcerto ed il turbamento, il che è appunto impossibile, perché l’Io del destino non erra e quindi non si sconcerta/turba”.

E non si sconcerta/turba, appunto perché l’Io del destino VEDE la NON VERITÀ di tale sconcerto ed il turbamento.

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[5]

EK:

<<Ci sarebbero molti temi punti ancora da trattare, ma il discorso sarebbe lungo, e qui possiamo (dobbiamo!) essere il più possibile brachilogici! Ciao.

P.s. Te l'immaginini, dico, se, come tu dici, l'io del destino vedesse solo il dolore, ma non vedesse anche lo sgomento, l'angoscia, il tormento, l'estraneità che esso produce? Significherebbe che quei positivi che essi sono, sarebbero nulla, cioè non sarebbero. Essi appaiono nello sguardo del destino, MA come qualcosa il cui contenuto è nulla>>.

Ottima domanda/riflessione, alla quale rispondo:

Te l'immaginini, dico, se, come tu dici, l'io del destino vedesse tutto nel modo preciso in cui lo vede l’io empirico?

Vorrebbe dire che l’Io del destino, PROVANDO sconcerto e turbamento, e credendo che essi ABBIANO VERITÀ, allora NON si distinguerebbe più in nulla dall’io empirico.

Questo, se vogliamo, è un ulteriore motivo per sancire la CONTRADDITTORIETÀ della relazione Io del destino-io empirico.

Inoltre, le ragioni qui addotte da EK possono aver valore UNICAMENTE SE si condivide l’eternità dell’ente, altrimenti restano soltanto meri PRESUPPOSTI.

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[6]

EK:

<<Poi ho detto giorni fa, e ti eri detto d'accordo, di evitare le lungaggini e i papiri sterminati, e di replicare, con commenti che hanno un numero di caratteri umanamente tollerabili, direttamente nel thread. Ma niente. Subito traditi i buoni propositi. E siamo sempre al punto: non hai ancora afferrato la concezione severiniana dell'apparire autoriflessivo (La dimostrazione che hai fornito sul tuo "apparire a me" autofondato, a cui appare pure una realtà esterna indipendente da esso, non è una dimostrazione di alcunché. Se si sa cos'è una dimostrazione). È del dono della sintesi che si ha bisogno in queste beghe facebookiane. Per cui, o ci si dà alla sintesi, oppure non se fa più niente (cosa di cui, peraltro, non mi addololerò). Rebus sic stantibus...>>.

Mi dispiace per i miei <<papiri sterminati>>, peraltro già abbastanza sintetici.

Certe tematiche non riesco a sviscerarle con poche battute, le quali creerebbero equivoci che a loro volta imporrebbero ulteriori precisazioni e quindi <<lungaggini>> per chiarire, etc…

Tuttavia, vorrei pacatamente ricordarTI _ e qui passo alla seconda persona _ che fosti TU ad intervenire, NON ti ci ho tirato dentro io, per cui, quando una persona interviene nella discussione di un post sterminato, do per scontato che abbia preso atto della lunghezza, e perciò che l’abbia in qualche modo accettata, altrimenti _ immagino _ non sarebbe intervenuta del tutto.

Per quanto riguarda la questione dell’<<"apparire a me" autofondato>>, ne ho già indicato qualcosa sopra, al punto [2] CON PAROLE MIE, per cui mi aspetterei ARGOMENTAZIONI TUE PERSONALI, anziché un’esposizione di brani severiniani i quali, guarda caso, sono proprio quelli messi a tema…

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[7]

Infine EK:

<<Last but not least, l'io del destino (l'apparire del destino della verità) è quella dimensione che, come tale, non può essere 'affettività', ma che si rapporta all'affettività solo come a uno dei contenuti che si mostrano all'interno della terra isolata, cioè ne è appunto l'apparire, ossia una positività che appare (per esempio, nello specifico, il dolore col suo straniamento), ma il cui contenuto è però nullo. Ma, at the heart of it all, caro, ti dimentichi che, per Severino, c'è sempre una persintassi e una iposintassi, una forma e un contenuto, uno sfondo e delle varianti - e il rapporto tra io del destino e io empirico è sempre questo stesso rapporto (tenendo ferma, of course, la struttura autoriflessiva dell'apparire). Se vuoi replicare, puoi farlo con commenti in questo thread, a cui, tempo permettendo, risponderò. Se mi vuoi propinare un altro post della rubrica "i nuovi mostri", che trovo cosa scorrettissima e di cattivo gusto già in partenza, puoi scordarti una replica (sapendo fin da ora che ciò ti addolorerà grandemente). Un caro saluto e buon ferragosto>>.

Eh sì, purtroppo non c’è niente da fare.

Constato come il tentativo di esser gentili con te sia destinato a naufragare.

Comunque, guarda, stai sereno: io continuerò a scrivere sul mio povero blog e a linkarlo sulla mia pagina Facebook finché avrò vita; lo farei quand’anche il sottoscritto fosse l’UNICA persona a leggere ciò che scrivo, il che è anche probabile, ma non me ne importa nulla.

Per cui,

TANTI SALUTI:

meglio NESSUN lettore che lettori COME TE.

Se tu non vorrai replicare, pazienza, vivrò ugualmente bene, in fondo, chi ti credi di essere?

Beh, chi tu creda di essere, sei tu stesso ad averlo reso noto:

<<p.s. ovviamente perché per esempio io-Egon Key sa quanto ho detto sopra? Perché il cerchio di Egon Key è uno dei cerchi in cui albeggia la testimonianza del destino. (Cioè così si direbbe in termini severiniani). Nel muratore che stava scatarrando dal tetto, sto pomeriggio, non credo che albeggi>>.

Eh certo, il muratore deve lavorare duramente, mica stare sul tetto in attesa che ALBEGGI la verità…

Peccato che, nonostante l’ALBA, non sia tu l’interesse dei miei post, bensì gli argomenti, i temi, per cui non presumere troppo di te…


Roberto Fiaschi

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