Riprendendo il tema dei post nn. 119 e 120, Marco
Cavaioni ( = MC) ha scritto:
<<Su Eckhart vengono meno anche le nostre rispettive
distinzioni, lo sappiamo. Lo «sprofondare nella pura sostanza», nell'«uno senza
distinzione» (in cui non tanto si toglie la distinzione, ma radicalmente in cui
essa mai c'è stata), non è, forse, quella ablatio alteritatis che
Severino non riesce ad accettare, volendo tener ferma la distinzione ad ogni
costo, e su cui invece insiste, ribadendo che l'intero (appunto l'uno) è la
stessa sua indivisibilità, la Scuola padovano-perugina di Bacchin, in
particolare nella rigorizzazione massima datane da Aldo Stella? L'acutissima –
una delle tante – osservazione critica ribadita a più riprese da Stella, non
compresa appieno dagli allievi di Severino a mio modo di vedere, consiste non a
caso nel rilevare che "due inseparabili" (appunto i distinti, sacri
alla "struttura originaria" severiniana) è locuzione scorretta e non
adeguatamente rigorosa. Si tratta, infatti, di "un inseparabile"
(indivisibile), rispetto al quale la distinzione (divisione in due, il due simpliciter)
è già tutta la contraddizione della impossibile
"divisione
dell'indivisibile" o "separazione dell'inseparabile". Rispetto a
tale osservazione risulta spuntata, anzi vana, la solita difesa severiniana che
fa leva sul refrain "distinti, ma non separati". Non credi?>>
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Già il termine «uno senza distinzione» (nel Vedanta
detto Uno senza secondo) presuppone <<il due simpliciter>>
cioè la distinzione
e quindi la negazione di sé in quanto «uno senza distinzione».
Infatti, proprio essendo «senza distinzione», implica quella distinzione dalla quale
esso si distingue
(essendo, appunto, «uno senza
distinzione») escludendola da sé (se non la escludesse, sarebbe l’uno con
distinzione o distinguentesi), col risultato di NON esser, perciò, «senza distinzione» e quindi è Uno
tra i molti.
Al che, MC osserva che <<nell'«uno senza distinzione»
[…] non tanto si toglie la distinzione, ma radicalmente […] essa mai c'è stata>>.
Anche qui, dire che ‘x’ non c’è mai stato presuppone la PRESENZA
di ‘x’, altrimenti, se davvero niente (la distinzione, ‘x’…) vi fosse mai stato, NON
potremmo neppure dire il SUO (di che cosa?) non esserci mai stato!
Quindi, perché è APORETICO l’«uno senza distinzione»?
Perché è assoggettato al principio di non-contraddizione ( =
PdNC), e lo è nel momento stesso in cui MC richiama <<la contraddizione
della
impossibile
"divisione
dell'indivisibile" o "separazione dell'inseparabile">>.
Infatti, tale contraddizione (e relativa impossibilità) è rilevabile
grazie al PdNC secondo cui è contraddittorio che l’«uno senza distinzione»
sia <<il due simpliciter>> o che sia <<"divisione
dell'indivisibile" o "separazione dell'inseparabile">>.
È sì vero che l'«uno senza distinzione» debba essere senza
divisione né separazione, ma questo è soltanto l’aspetto astratto, se
assolutizzato; l’Uno concretamente intese deve permanere nella sua unità/indivisibilità/indistinzione
ed al contempo preservare, SENZA ESCLUDERE, la distinzione e quindi l’alterità…
Certamente anche l'Uno-differenziantesi risulta contraddittorio in
base al PdNC, ma ciò accade perché tale Uno viene assoggettato alla negazione
ESCLUDENTE che vige nei rapporti tra enti… (Si veda: Massimo Donà: "Sulla negazione", Bompiani 2004).
Ricapitolando: l’Uno ( = Dio) è sia «senza distinzione», sia
in sé DISTINTO, senza che ciò DIVIDA o SEPARI il Suo esser «uno senza distinzione»
e, perciò, senza che quest’ultimo si eserciti quale ablatio
alteritatis nei confronti delle proprie distinzioni (né del molteplice
finito).
Roberto Fiaschi
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