giovedì 10 ottobre 2024

121)- ECKHART, BACCHIN E L’APORIA DELL’«UNO SENZA DISTINZIONE»

 

Riprendendo il tema dei post nn. 119 e 120, Marco Cavaioni ( = MC) ha scritto:

<<Su Eckhart vengono meno anche le nostre rispettive distinzioni, lo sappiamo. Lo «sprofondare nella pura sostanza», nell'«uno senza distinzione» (in cui non tanto si toglie la distinzione, ma radicalmente in cui essa mai c'è stata), non è, forse, quella ablatio alteritatis che Severino non riesce ad accettare, volendo tener ferma la distinzione ad ogni costo, e su cui invece insiste, ribadendo che l'intero (appunto l'uno) è la stessa sua indivisibilità, la Scuola padovano-perugina di Bacchin, in particolare nella rigorizzazione massima datane da Aldo Stella? L'acutissima – una delle tante – osservazione critica ribadita a più riprese da Stella, non compresa appieno dagli allievi di Severino a mio modo di vedere, consiste non a caso nel rilevare che "due inseparabili" (appunto i distinti, sacri alla "struttura originaria" severiniana) è locuzione scorretta e non adeguatamente rigorosa. Si tratta, infatti, di "un inseparabile" (indivisibile), rispetto al quale la distinzione (divisione in due, il due simpliciter) è già tutta la contraddizione della impossibile "divisione dell'indivisibile" o "separazione dell'inseparabile". Rispetto a tale osservazione risulta spuntata, anzi vana, la solita difesa severiniana che fa leva sul refrain "distinti, ma non separati". Non credi?>>

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Già il termine «uno senza distinzione» (nel Vedanta detto Uno senza secondo) presuppone <<il due simpliciter>> cioè la distinzione e quindi la negazione di sé in quanto «uno senza distinzione».

Infatti, proprio essendo «senza distinzione», implica quella distinzione dalla quale esso si distingue (essendo, appunto, «uno senza distinzione») escludendola da sé (se non la escludesse, sarebbe l’uno con distinzione o distinguentesi), col risultato di NON esser, perciò, «senza distinzione» e quindi è Uno tra i molti.

Al che, MC osserva che <<nell'«uno senza distinzione» […] non tanto si toglie la distinzione, ma radicalmente […] essa mai c'è stata>>.

Anche qui, dire che ‘x’ non c’è mai stato presuppone la PRESENZA di ‘x’, altrimenti, se davvero niente (la distinzione, ‘x’…) vi fosse mai stato, NON potremmo neppure dire il SUO (di che cosa?) non esserci mai stato!

Quindi, perché è APORETICO l’«uno senza distinzione»?

Perché è assoggettato al principio di non-contraddizione ( = PdNC), e lo è nel momento stesso in cui MC richiama <<la contraddizione della impossibile "divisione dell'indivisibile" o "separazione dell'inseparabile">>.

Infatti, tale contraddizione (e relativa impossibilità) è rilevabile grazie al PdNC secondo cui è contraddittorio che l’«uno senza distinzione» sia <<il due simpliciter>> o che sia <<"divisione dell'indivisibile" o "separazione dell'inseparabile">>.

È sì vero che l'«uno senza distinzione» debba essere senza divisione né separazione, ma questo è soltanto l’aspetto astratto, se assolutizzato; l’Uno concretamente intese deve permanere nella sua unità/indivisibilità/indistinzione ed al contempo preservare, SENZA ESCLUDERE, la distinzione e quindi l’alterità…  

Certamente anche l'Uno-differenziantesi risulta contraddittorio in base al PdNC, ma ciò accade perché tale Uno viene assoggettato alla negazione ESCLUDENTE che vige nei rapporti tra enti… (Si veda: Massimo Donà: "Sulla negazione", Bompiani 2004).

Ricapitolando: l’Uno ( = Dio) è sia «senza distinzione», sia in sé DISTINTO, senza che ciò DIVIDA o SEPARI il Suo esser «uno senza distinzione» e, perciò, senza che quest’ultimo si eserciti quale ablatio alteritatis nei confronti delle proprie distinzioni (né del molteplice finito).

 

Roberto Fiaschi

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