venerdì 20 dicembre 2024

141)- F. FAROTTI: IL DESTINO SEVERINIANO COME «MASSIMO DI RICONOSCIMENTO DEL VALORE DEL CRISTIANESIMO»

 
Se per il prof. Fabio Farotti (1), severiniano, il Cristianesimo è l’<<alter ego folle del destino>>, da parte mia ribalterei i termini:

il destino severiniano come alter ego FOLLE del Cristianesimo.

Ma non è di questo che vorrei parlare.

Mi piace, infatti, riportare una piccola parte di un suo bell’articolo sul rapporto Cristianesimo-Destino, tratto dal testo: <<Cristianesimo e Emanuele Severino. Quali possibilità di confronto? Approcci filosofici e teologici>> (PADOVA UNIVERSITY PRESS 2021).

Esso rappresenta _ per dirlo con le parole del suo autore _ <<il massimo di riconoscimento del valore del cristianesimo>>.

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 <<1. Cristianesimo come la più alta sapienza isolata.

Richiamandomi al nesso (necessario – secondo il destino della necessità) chiarito da Emanuele Severino ne La morte e la terra (2) fra terra isolata dal destino e pura terra (= la terra che appare nel destino non contrastato dall’isolamento nichilistico), onde ogni evento della terra isolata si fonda sulla terra non isolata o pura, rispetto alla quale non è tutt’altro, ma l’esito stravolto di un corrispondente essente non isolato; e considerando che ciò vale per qualsivoglia essente, dunque anche per ogni forma di sapienza isolata dal destino (dalla filosofia greca, alla scienza moderna, all’Illuminismo, all’Idealismo, al Comunismo…), alla luce insomma di questa corrispondenza fra terra isolata e terra pura, tento – nel saggio Presagi del destino. Emanuele Severino e il cristianesimo (3) di mostrare che fra tutte le forme di sapienza della terra isolata, il cristianesimo è la più simile al destino della verità (di cui i “cosiddetti” libri di E. Severino sono la testimonianza). Questo stesso – il destino stesso, cioè – ma, radicalmente stravolto in quanto preso nella rete sfigurante dell’ontologia greco-nichilistica che, del tutto condivisa, il cristianesimo si porta in seno. In contrapposizione, direi che la sapienza meno simile al destino, agli antipodi dunque, nell’isolamento, rispetto al cristianesimo è costituita dal pensiero di Leopardi e Nietzsche. Tra questi due estremi, si dispiegano tutti i medi da cui è costituita la cultura e la civiltà occidentale, ormai planetaria. Il cristianesimo, dunque, complessivamente considerato come la sapienza della terra isolata, nell’abissale distanza, più simile al destino della verità. Lo sforzo più disperatamente proteso ad affermare l’eternità di ogni essente nella Gioia, sulla base della persuasione preliminare – e fatale! – del diventar nulla e da nulla. (Non per caso, direi, nell’Opera severiniana ci si imbatte non di rado in preziose immagini tratte dalla grande miniera cristiana, per illustrare in forma metaforica, perciò più immediatamente fruibile, la spaventosa complessità concettuale del destino). Il cristianesimo dunque che, se per sé preso è contraddizione (duplice: 1. rispetto alle proprie premesse ontologiche greco-nichilistiche; 2. rispetto al destino), assunto invece come non separato dal destino (suo necessario retroscena, come di ogni cosa), ne è anche il più alto presagio. Si tratta della tesi di fondo del saggio: il cristianesimo come contraddizione e presagio (il più alto). Anche ogni altra forma di sapienza isolata stringe necessariamente un nesso di similarità col destino (= esprime, immersa nella follia, il destino o qualche suo tratto), ma, diciamo, complessivamente, restandone più remota e aliena: “meno simile”. E però il “cristianesimo” non si presenta come una sapienza compatta e univoca; anzi, come ben si sa, estremamente variegata e spesso duramente conflittuale. Di qui il problema. Tra le forme di “cristianesimo” così diverse e contrastanti quali la (sua) storia ci mostra, quale privilegiare come la più simile, nella distanza incolmabile, al destino? In fondo abbiamo già risposto: quella meno segnata dalla coerenza nichilistica che necessariamente, per altro, gli urge dentro, e dunque quella in cui, nonostante tutto (e cioè contraddittoriamente), l’impegno di assegnazione dell’eternità gioiosa ad ogni cosa è massimo. Sino a raggiungere persino i corpi individuali (nella resurrezione finale). Questo il criterio del privilegiamento: il “cristianesimo” nella sua forma più contraddittoria e perciò meno rispettosa delle proprie premesse greche – quasi non ci fossero, nel mentre che pure sono riconosciute con viva potenza – circa la “certezza inconcussa” riguardo all’“esperienza” intesa come ciò in cui si mostra con evidenza il diventar nulla e da nulla (donde un Dio che crea ex nihilo, il dolore come vero annientamento, e il libero arbitrio dell’uomo, analiticamente implicante l’ancor nulla del futuro). Daccapo: lo sforzo più potente (rispetto a ogni altra sapienza della terra isolata, Oriente incluso) di affermare l’eternità di ogni cosa, restando totalmente immersi nella persuasione del divenire come creazione e annientamento. Sì che proprio esso che, a suo modo (e cioè alla rovescia), ci indica la via, proprio esso è destinato necessariamente a perderla (a non trovarla sin da principio né mai) e ad annunziare che Dio è morto: speculativamente parlando è il cristianesimo stesso infatti (e, alla sua radice, la Grecia) che parla in nome della “verità” (= della coerenza della follia) in Leopardi e Nietzsche. Dunque non il cristianesimo demistificato (demitizzato) e cioè progressivamente svuotato rispetto alle sue più grandi intuizioni (i “dogmi”), ove l’alibi dello spazio da riconoscere allo “spirito” – che poi a ben vedere è sempre lo “spirito del divenire” –, liberandolo dalla lettera e dal mito, finisce per ucciderlo proprio nella sua presaga grandezza. Allora quello più tradizionale e “dogmatico” (da S. Paolo, suo “fondatore”, ad Agostino e Tommaso, sino ai più grandi papi del nostro tempo: Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), quello cioè che fermamente sostiene la trascendenza di Dio e il suo essere atto puro, l’incarnazione storica del Figlio, la sua nascita dalla vergine Maria, la sua morte (reale, storica) e la sua resurrezione (non metaforica!), la provvidenzialità della storia, l’idea di “uomo” come figlio di Dio, l’Apocalisse, il Giudizio Universale e la resurrezione dei morti (imprescindibile!) e anzi dell’intera Natura. Quello più tradizionale, s’è detto […]>>.

[…]

<<3. Destino e fede (cristiana).

Cristianesimo e destino si danno dunque la mano? Ma anche l’errore più grave e aberrante (che in quanto errare è ben qualcosa) è tenuto per mano dal destino (fondamento della stessa contraddizione – distinta come tale e cioè in quanto essente dal suo contenuto nullo). Cui nulla sfugge, escluso il nulla. Che però, essendo nulla, neppure può sfuggire (mentre il suo positivo significare – come di ogni altro concetto autocontraddittorio – è a sua volta un non-niente, dunque parte del destino e del Tutto). A maggior ragione il cristianesimo. Che non è solo “qualcosa”, ma una grande forma di sapienza. Profondamente avvelenata bensì, ma non a tal punto da non potersi costituire – essa, davanti a tutte – come l’alter ego folle del destino. Il che ci sembra proprio il massimo di riconoscimento del valore del cristianesimo>>.

NOTE:

(1) Fabio Farotti – Docente al Master Death Studies & the end of life all’Università Degli Studi di Padova.

(2) EMANUELE SEVERINO, La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011.

(3) FABIO FAROTTI, Presagi del destino. Emanuele Severino e il cristianesimo, University Press, Padova 2021.

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