sabato 26 aprile 2025

172)- ASSOLUTO SENZA DISTINZIONI?


Riporto un estratto dal testo del prof. Aldo Stella, gentilmente trasmessomi dal suo allievo Marco Cavaioni (le parentesi quadre sono di quest’ultimo) https://series.morlacchilibri.com/.../riflessioniteoretiche:

<<L’assoluto è il valore che non può venire ridotto a funzione, per la ragione che la funzione lo disporrebbe in relazione ad altro da sé, laddove il valore configura proprio la negazione di questo altro.

Il valore dell’assoluto, pertanto, non può non (innegabilmente, necessariamente) sottrarsi alla riduzione a funzione [riferimento, relazione, ergo distinzione, dualità - ndr].

Questo costituisce il nodo teoretico [...] per lo meno se si esamina la questione intendendo porsi dal punto di vista dell’assoluto medesimo [che è il solo punto di vista vero e, quindi, non è un "punto di vista, "uno" tra più d'uno - ndr].

Ora, riteniamo importante apportare una precisazione al discorso svolto, affinché risulti chiara la ragione per la quale non si può evitare di parlare di funzione dell’assoluto [si tratta della dialettica tra questa "inevitabile" funzione e la "innegabilità" del valore dell'assoluto, che opera nell'inevitabile semplicemente essendo tale - ndr].

Se, infatti, l’intenzione di chi si volge all’assoluto è porsi dal punto di vista dell’assoluto stesso, tuttavia non si può non rilevare che, nel riferirsi all’assoluto, di fatto [inevitabilmente - ndr] si postula [si presuppone: si parte dal presupposto o “iniziale” proprio perché si inizia, ma “iniziale” non coincide con l'autentico “originario”, appunto l'innegabile, l'assoluto: da esso non si comincia né, a rigore, ad esso si perviene mai di fatto - ndr] come essente proprio quell’altro da esso che l'assoluto non può non escludere, ma che il riferimento (la relazione) non può non implicare.

Che è come dire: l’intenzione di coincidere con l’assoluto è innegabile; il fatto di “riferirsi” ad esso a muovere dall’altro da esso è inevitabile, sì che l’universo empirico-fattuale risulta innegabilmente inevitabile [innegabilmente solo presupposto da cui si inizia, per il fatto stesso di non poter non inevitabilmente iniziare - ndr].

L’inevitabile, quindi, indica l’impossibilità stessa di prescindere dai fatti (dalle determinazioni), una volta che si presupponga il porsi di quel soggetto empirico che è tale proprio perché è frontale e reciproco ad essi.

Innegabile, invece, è la necessità che tale soggetto empirico e il campo del suo disporsi vadano oltre la loro esistenza determinata, poiché l’esistente (l’ente, la determinazione) non può non intendere di essere veramente; dunque, non può non intendere di pervenire a quel vero [intenzionalmente ossia idealmente è già da sempre uno con esso, fattualmente mai], che è l’essere stesso (l’assoluto): l’intenzione, infatti, è la sua autentica essenza ontologica.

Nel caso dell’assoluto, ci sembra preferibile parlare di “funzione indiretta”, poiché essa non è svolta, appunto, nel senso che l’assoluto entra in relazione con ciò su cui svolge la sua funzione, dal momento che, al contrario, esso svolge la sua funzione precisamente per il suo non entrare in relazione con altro da sé. L’assoluto svolge, infatti, la sua funzione in conseguenza del suo essere ciò che è, cioè del suo valore, che lo sottrae ad ogni vincolo.

E tale funzione esprime l’effetto che l’assoluto ha sul relativo (condizionato), una volta che il relativo sia stato presupposto.

Orbene, come abbiamo detto, tale “effetto” non può venire inteso nel senso della funzione del fondare, stante che il fondamento assoluto non legittima affatto l’universo dei determinati. Al contrario, l’“effetto” deve venire inteso nel senso dello smascheramento: l’assoluto, si potrebbe anche dire, svolge la funzione del fondare non nel senso che pone le determinazioni, ma nel senso che, invece, nega la loro effettiva posizione, dal momento che si tratta di una mera presupposizione.

Precisamente per questa ragione, parliamo di funzione de-assolutizzante o relativizzante o critica. [...]

A quanto abbiamo detto si deve aggiungere anche un’altra precisazione. Se si pretendesse che l’assoluto svolga la funzione che il finito gli richiede, e che consisterebbe nel legittimare il determinato così come questo si presenta, allora ci si troverebbe nella seguente situazione:

l'assoluto verrebbe incluso in quella presunta relazione legittimante che non soltanto lo vincolerebbe al finito, ma inoltre decreterebbe la sua stessa finitezza.

In tal modo, l’assoluto verrebbe negato nella sua assolutezza e, dunque, nel suo valore, così che perderebbe eo ipso la sua funzione autenticamente legittimante, che è la funzione de-assolutizzante, volta a ricondurre il finito alla sua vera natura. [...]

Con il seguente approdo, che è di primaria importanza: è in virtù dell'essere incondizionato (il vero essere) che il condizionato cessa di pretendere di valere come assoluto, cioè come vero essere. [...]

Tale pretesa, smascherata dall’atto [la coscienza trascendentale - ndr] che trascende il finito, diventa poi [ecco, di nuovo, l'intreccio dialettico tra le “due” dimensioni o livelli - ndr] inevitabilmente contenuto della coscienza empirica, e per questa ragione può venire detta, ma il contenuto non può venire confuso con ciò in virtù di cui (l’atto condizionato dall’incondizionato) si pone in quanto contenuto determinato.

Sia la funzione sia la mediazione [della coscienza trascendentale - ndr], dunque, sono il modo finito, cioè inevitabile, di indicare l’assoluto, che invece è innegabile: l’innegabile stesso.

Funzione e mediazione costituiscono, pertanto, il fungere e l'operare l'innegabile nell’inevitabile, nonostante che, dal punto di vista l'innegabile, quest’ultimo non entri in rapporto con l’inevitabile né si sottragga ad esso, stante che per l’innegabile c’è solo l’innegabile>>. – A. Stella, Riflessioni teoretiche, Morlacchi 2023, pp. 33-37.

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1)

Il mio intento è mostrare come l’assoluto-UNO-parmenideo-eckhartiano (quello a cui si rifanno il prof. Aldo Stella e Marco Cavaioni) NON riesca ad essere puramente UNO-senza-distinzioni bensì intrinsecamente DISTINTO/DIFFERENTE (NB: non però distinto alla maniera severiniana, che postula un’unità dei distinti ma non un vero UNO-indistinto), senza che ciò infranga minimamente la sua assolutezza o il suo esser UNO-senza-distinzioni (ma quest’ultimo aspetto non verrà trattato qui). Quindi, di passaggio in passaggio cercherò di evidenziare la presenza della DISTINZIONE-NON-PRESUPPOSTA ma realmente POSTA in seno all’UNO.  

Esso non riesce a costituirsi come UNO-senza-distinzioni perché la contraddittorietà della presenza in esso della distinzione è tale in forza del principio di non-contraddizione ( = PdNC) secondo cui, se l’assoluto avesse intrinseche (nonché esterne) distinzioni, cesserebbe di essere assoluto poiché si ridurrebbe a PARTE quindi in RELAZIONE con quell’altra PARTE cui è <<quell’altro da esso>>, minando ( = contraddicendo) così l’interezza dell’UNO.

Questa è la contraddizione indicata da Aldo Stella/Marco Cavaioni che li conduce, perciò, a relegare la differenza/relazione al rango di mero PRESUPPOSTO.

Ed è il PdNC a sancire che la parte, DIFFERENDO dall’intero o dall’assoluto, venga da quest’ultimo ESCLUSA/NEGATA, come d’altronde esplicita la seguente affermazione di Stella:

<<si postula come essente proprio quell’altro da esso che l'assoluto non può non ESCLUDERE>> (maiuscolo mio: RF).

Ciò, però, conduce a quell’altra contraddizione (RESPINTA da Aldo Stella/Marco Cavaioni) secondo la quale anche l’UNO-senza-distinzioni debba SOGGIACERE al nomos del PdNC anziché sottrarvisi.

Notare come sia l’UNO stesso ad essere giudicato dal PdNC e non già il linguaggio mediante cui lo diciamo, perché è proprio l’UNO a non poter <<non ESCLUDERE>> <<quell’altro>> da sé cui è la parte.

Pertanto, contrariamente alle intenzioni di Aldo Stella/Marco Cavaioni, affermare che <<l'assoluto non può non ESCLUDERE>>, equivale e dire che l’assoluto non può non DIFFERIRE-NON-PRESUPPOSITIVAMENTE da <<quell’altro>> da sé che esso ha NEGATO/ESCLUSO. 

Il tentativo di preservare l’UNO dalla presenza in esso della (PRESUNTA contraddittoria) differenza la quale, perciò, viene da Stella ESCLUSA in nome del PdNC, sortisce l’effetto contrario, consistente nel reintrodurre quella differenza che si voleva escludere/negare ritenendola mera presupposizione, poiché dire esclusione/negazione equivale a dire DIFFERENZA-NON-PRESUPPOSITIVA.

2)

Analogamente dicasi per altri passaggi dell’ottimo articolo del prof. Stella:

<<L’assoluto è il valore che non può venire ridotto a funzione, per la ragione che la funzione lo disporrebbe in relazione ad altro da sé, laddove il valore configura proprio la negazione di questo altro. Il valore dell’assoluto, pertanto, non può non (innegabilmente, necessariamente) sottrarsi alla riduzione a funzione [riferimento, relazione, ergo distinzione, dualità - ndr]>>.

Anche qui, paradossalmente questa tesi comporta la riaffermazione di ciò ( = la differenza, il riferimento, la relazione) che voleva negare.

Che il valore configuri <<proprio la negazione di questo altro>>, importa che il valore, negando <<questo altro>>, lo ESCLUDA da sé conformemente al dettato del PdNC, implicando, perciò, la DIFFERENZA sostanziale (nonché la RELAZIONE) tra il <<valore>> cioè l’assoluto, e la <<funzione>>, ossia il disporsi <<in relazione ad altro da sé>> da parte dell’assoluto.

3)

Senonché, leggiamo che <<quell’altro>> da sé (cioè <<l’intenzione di chi si volge all’assoluto>>) è soltanto POSTULATO ( = PRESUPPOSTO) <<come essente>>, sottintendendo che NON sia mai stato reale:

<<Ora, riteniamo importante apportare una precisazione al discorso svolto, affinché risulti chiara la ragione per la quale non si può evitare di parlare di funzione dell’assoluto […]. Se, infatti, l’intenzione di chi si volge all’assoluto è porsi dal punto di vista dell’assoluto stesso, tuttavia non si può non rilevare che, nel riferirsi all’assoluto, di fatto [inevitabilmente - ndr] si postula [si presuppone] come essente proprio quell’altro da esso che l'assoluto non può non escludere, ma che il riferimento (la relazione) non può non implicare. Che è come dire: l’intenzione di coincidere con l’assoluto è innegabile; il fatto di “riferirsi” ad esso a muovere dall’altro da esso è inevitabile, sì che l’universo empirico-fattuale risulta innegabilmente inevitabile [innegabilmente solo presupposto da cui si inizia, per il fatto stesso di non poter non inevitabilmente iniziare - ndr]. L’inevitabile, quindi, indica l’impossibilità stessa di prescindere dai fatti (dalle determinazioni), una volta che si presupponga il porsi di quel soggetto empirico che è tale proprio perché è frontale e reciproco ad essi>>.

Dunque, il soggetto empirico quale PRESUPPOSTO <<inevitabile>>, la cui inevitabilità è <<l’impossibilità stessa di prescindere dai fatti (dalle determinazioni)>>.

Questa <<impossibilità stessa di prescindere dai fatti (dalle determinazioni)>> è anch’essa solo PRESUPPOSTA?

Se lo fosse, NON sarebbe una reale impossibilità, poiché il PRESUPPOSTO è lo stesso impossibile, il mai posto (sempre secondo Aldo Stella/Marco Cavaioni), per cui nemmeno tale <<impossibilità>> sarebbe mai stata reale, posta.

Se invece riteniamo che quell’impossibilità sia reale/posta, allora quei <<fatti>>, quelle <<determinazioni>>, essendo imprescindibili, NON possono esser ritenuti PRESUPPOSTI, giacché la loro impossibile prescindibilità li PONE realmente cioè differentemente dal PRESUPPOSTO il quale _ sempre secondo Marco Cavaioni _ è invece posto ed al contempo NON È (MAI) POSTO: esso è il NON-REALE…

E se <<il valore>> cioè l’UNO <<configura proprio la negazione di questo altro>> cioè del PRESUPPOSTO, non potrà però negare che <<questo altro>> sul quale si esercita la negazione sia appunto altro ( = DIFFERENTE) dall’assoluto, altrimenti NON lo negherebbe in quanto non vi sarebbe niente da negare e perciò sarebbe, tale altro, esso stesso non-PRESUPPOSTO. Ciò vuol dire che l’assoluto <<configura la negazione di questo altro>> implicandone perciò la presenza come altro/DISTINTO dall’assoluto, implicando cioè il proprio NON riuscire ad essere l’UNO-senza-distinzioni.   

4)

Stella: 

<<Innegabile, invece, è la necessità che tale soggetto empirico e il campo del suo disporsi vadano oltre la loro esistenza determinata, poiché l’esistente (l’ente, la determinazione) non può non intendere di essere veramente; dunque, non può non intendere di pervenire a quel vero [intenzionalmente ossia idealmente è già da sempre uno con esso, fattualmente mai], che è l’essere stesso (l’assoluto)>>.

Qui, l’andare <<oltre la loro esistenza determinata>> che cosa vuol dire, se non che <<tale soggetto empirico e il campo del suo disporsi>> debbano DIFFERENZIARSI da ciò che sono, per <<pervenire a quel vero […], che è l’essere stesso (l’assoluto)>>?

E la stessa <<loro esistenza determinata>> che cos’è, se non il DIFFERIRE NON-PRESUPPOSTO dall’indeterminatezza spettante all’<<essere stesso (l’assoluto)>>?

5)

Stella: 

<<Nel caso dell’assoluto, ci sembra preferibile parlare di “funzione indiretta”, poiché essa non è svolta, appunto, nel senso che l’assoluto entra in relazione con ciò su cui svolge la sua funzione, dal momento che, al contrario, esso svolge la sua funzione precisamente per il suo non entrare in relazione con altro da sé. L’assoluto svolge, infatti, la sua funzione in conseguenza del suo essere ciò che è, cioè del suo valore, che lo sottrae ad ogni vincolo. E tale funzione esprime l’effetto che l’assoluto ha sul relativo (condizionato), una volta che il relativo sia stato presupposto>>.

Come visto al punto 2, l’assoluto, non potendo, in quanto valore, << venire ridotto a funzione, per la ragione che la funzione lo disporrebbe in relazione ad altro da sé, laddove il valore configura proprio la negazione di questo altro>>, può però esser considerato in qualità di <<“funzione indiretta”>>.

Quindi l’assoluto, al fine di preservarlo dalla RELAZIONE (nonché dalla DIFFERENZA) con il relativo ( = le determinazioni), la quale comporterebbe in esso una intrinseca contraddittoria DISTINZIONE, esercita pur tuttavia un <<“effetto”>> <<sul relativo (condizionato)>>.

E, sempre al fine di preservare l’UNO dalla RELAZIONE con il relativo, l’<<“effetto”>> della <<“funzione indiretta”>> dell’assoluto <<non può venire inteso nel senso della funzione del fondare, stante che il fondamento assoluto non legittima affatto l’universo dei determinati. Al contrario, l’“effetto” deve venire inteso nel senso dello smascheramento: l’assoluto, si potrebbe anche dire, svolge la funzione del fondare non nel senso che pone le determinazioni, ma nel senso che, invece, nega la loro effettiva posizione, dal momento che si tratta di una mera presupposizione>>.

È tutto chiaro.

L’assoluto NON fonda né legittima bensì SMASCHERA/NEGA l’<<effettiva posizione>> delle determinazioni, relegandola a <<mera presupposizione>>.

Ma allora COME SI SPIEGA la pur evidente presenza di tale <<mera presupposizione>> da smascherare?

DA DOVE deriva?

PERCHÉ appare qualcosa come una <<mera presupposizione>>?

Per poterla smascherare, tale <<mera presupposizione>> deve infatti APPARIRE.

Quindi DA DOVE arriva e PERCHÉ vi è <<l’universo dei determinati>>?

Poiché l’UNO/l’assoluto NON fonda NÉ pone <<l’universo dei determinati>> (pena il suo RELAZIONARSI ad esso), quest’ultimo è una presenza la cui DIFFERENZA dall’assoluto ci si illude di ritenerla nulla o meramente presupposta, affermando appunto l’equivalenza tra nullità e <<mera presupposizione>>, senza però accorgersi che tale <<smascheramento>> comporta comunque la NON-PRESUPPOSTA DIFFERENZA tra l’ESSER-POSTA e il NON-ESSERE-MAI-STATA-POSTA, perché se anche tale differenza fosse <<mera presupposizione>>, allora l’ESSER-POSTA e il NON-ESSERE-MAI-STATA-POSTA sarebbero indistinguibili e lo smascheramento fallirebbe.   

Lo stesso dicasi per la NON-PRESUPPOSTA DIFFERENZA tra FONDARE i determinati e NEGARLI…

Poi leggiamo:

<<una volta che il relativo sia stato presupposto>>; sì, ma DA CHI?

Dall’intelletto anch’esso meramente presupposto?

E allora DONDE tale intelletto?

PERCHÉ vi è un momento (eterno o cominciato che sia) in cui il relativo viene presupposto?

Forse, che le determinazioni siano presupposte dalla stessa <<“funzione indiretta”>> dell’assoluto il quale <<nega la loro effettiva posizione, dal momento che si tratta di una mera presupposizione>>?

Se sì, come non vedere, allora, la posizione della DISTINZIONE NON-PRESUPPOSTA senza la quale l’assoluto NON potrebbe negare l’<<effettiva posizione>> dei meramente presupposti?

6)

<<Sottolineo>> _ scrive Marco Cavaioni _ <<che la stessa dualità dei livelli sussiste […] solo per il livello dell'inevitabile>>, che chiamerò L2.

E prosegue: <<Potremmo dire, in estrema sintesi e spero senza tradire il discorso di Stella: a livello dell'inevitabile la dualità dei livelli è posta, mentre a livello dell'innegabile [che chiamerò L1] essa è radicalmente e originariamente tolta ( = mai stata). Sicché, poi – ed è questa la funzione dell'innegabile nell'inevitabile – quella “posizione” (“posizione” nella prospettiva dell'inevitabile) della dualità o distinzione viene smascherata, in forza dell'innegabile, come meramente "presupposta”, e presupposto si rivela l'inevitabile come tale, del resto>>.

Sarà davvero sostenibile questo discorso?

Direi di no: la DIFFERENZA sussiste (è saputa) anche dal punto di vista di L1.

Infatti, L1 almeno questo non può non SAPERE/VEDERE:

che L2 sia <<interamente presupposto>>, e lo SA grazie a sé stesso, a ciò che esso è e quindi al suo “effetto”.

Se L1 non lo SAPESSE/VEDESSE, allora NON eserciterebbe quell’“effetto” derivantegli dal suo essere <<“funzione indiretta”>>, “effetto” teso a SMASCHERARE/NEGARE/ESCLUDERE/TOGLIERE l’<<effettiva posizione>> dell’<<l’universo dei determinati>>:

<<l’“effetto” deve venire inteso nel senso dello smascheramento: l’assoluto, si potrebbe anche dire, svolge la funzione del fondare non nel senso che pone le determinazioni, ma nel senso che, invece, nega la loro effettiva posizione, dal momento che si tratta di una mera presupposizione>> (A. Stella).

Quindi, lo smascheramento/negazione di L2 non comporta pur sempre una RELAZIONE/DIFFERENZA NON-PRESUPPOSTA con il negato/smascherato da parte di L1?

Direi proprio di sì, altrimenti L1 smaschererebbe SOLO PRESUPPOSITIVAMENTE!

Per cui la DISTINZIONE o <<la dualità dei livelli>> tra L1 e L2 è tale NON-PRESUPPOSITIVAMENTE anche (e soprattutto) per L1.

Non solo, ma si osservi nuovamente ove Marco Cavaioni ha scritto:

<<a livello dell'inevitabile [L2] la dualità dei livelli è posta, mentre a livello dell'innegabile [L1] essa è radicalmente e originariamente tolta ( = mai stata). Sicché, poi – ed è questa la funzione dell'innegabile nell'inevitabile – quella “posizione” (“posizione” nella prospettiva dell'inevitabile) della dualità o distinzione viene smascherata, in forza dell'innegabile [L1], come meramente "presupposta”, e presupposto si rivela l'inevitabile [L2] come tale, del resto>>.

Quindi, la dualità dei livelli, per L1, <<è radicalmente e originariamente tolta ( = mai stata)>>; L2 è, infatti, <<meramente "presupposta”>>.

Ma che bisogno c’è di smascherare ciò che NON È MAI STATO?

Che bisogno c’è di smascherare una DISTINZIONE che NON C’È MAI STATA?

Sarebbe stato smascheramento-di-niente: un NON-smascheramento.

A ciò si replicherà:

L1 smaschera ciò che per/in L2 è considerato realtà senza esserlo, L2 incluso.

Senonché, per esser smascherato, L2 deve innanzitutto almeno APPARIRE, esser noto, saputo, creduto, preteso…

Quindi, DA DOVE arriva questo suo APPARIRE/esser noto/saputo/creduto/preteso?

Si potrebbe rispondere:

L2 appare soltanto presuppositivamente.

Ma allora DA DOVE proviene la presuppositività dell’apparire?

E qui NON è più possibile procedere oltre rispondendo nuovamente con la presuppositività, ma si deve prendere atto che essa appare NON-PRESUPPOSITIVAMENTE e, con essa, appare NON-PRESUPPOSITIVAMENTE anche la DIFFERENZA tra essa (L2) e L1…

7)

Infine ancora Stella: 

<<è in virtù dell'essere incondizionato (il vero essere)>> cioè di L1 <<che il condizionato [L2] cessa di pretendere di valere come assoluto, cioè come vero essere. [...] Tale pretesa, smascherata dall’atto [la coscienza trascendentale - ndr] che trascende il finito, diventa poi [ecco, di nuovo, l'intreccio dialettico tra le “due” dimensioni o livelli - ndr] inevitabilmente contenuto della coscienza empirica, e per questa ragione può venire detta, ma il contenuto non può venire confuso con ciò in virtù di cui (l’atto condizionato dall’incondizionato) si pone in quanto contenuto determinato. Sia la funzione sia la mediazione [della coscienza trascendentale - ndr], dunque, sono il modo finito, cioè inevitabile, di indicare l’assoluto, che invece è innegabile: l’innegabile stesso. Funzione e mediazione costituiscono, pertanto, il fungere e l'operare l'innegabile nell’inevitabile, nonostante che, dal punto di vista l'innegabile, quest’ultimo non entri in rapporto con l’inevitabile né si sottragga ad esso, stante che per l’innegabile c’è solo l’innegabile>>.

Se l’<<intreccio dialettico>> tra L1 e L2 è REALE ed INNEGABILE come è REALE ed INNEGABILE L1, allora la DISTINZIONE tra L1 e L2 NON può essere fittizia, presupposta, ma REALE quanto L1.

D’altronde che cos’è l’<<intreccio dialettico>>, se non la RELAZIONE dialettica tra reali DIFFERENTI?

Esso non potrebbe certo esser l’inconcepibile intreccio tra il <<solo>> REALE L1 e il non-mai-stato-reale (L2)!

Se invece tale intreccio fosse solo PRESUPPOSTO tanto quanto lo è L2, allora non si vede come <<l'intreccio dialettico tra le “due” dimensioni o livelli>> possa andare oltre la semplice parvenza di realtà, ritrovandosi anch’esso ad esser perciò <<meramente presupposto>>.

In tal modo cadrebbe tutto il discorso incentrato sulla <<pretesa di valere come assoluto>> da parte di L2 che diventerebbe <<poi inevitabilmente contenuto della coscienza empirica>> quale <<modo finito, cioè inevitabile, di indicare l’assoluto>>.

Stella avverte che <<il contenuto [ = della coscienza empirica] non può venire confuso con ciò in virtù di cui (l’atto condizionato dall’incondizionato) si pone in quanto contenuto determinato>>.

L’attenzione sul <<non può venire confuso>> implica il dovere di mantenere ben ferma la DIFFERENZA tra <<il contenuto>> e <<l’atto condizionato dall’incondizionato>> mediante cui <<si pone>> _ si PONE!!! _ il contenuto determinato che per Stella e Marco Cavaioni NON È MAI (STATO) POSTO…

Daccapo, si ripresenta l’ulteriore impossibilità di disfarsi, in seno all’UNO, della DIFFERENZA non-presuppositivamente considerata…

 

Roberto Fiaschi

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mercoledì 23 aprile 2025

171)- F. NIETZSCHE: «DIRE SÌ AL FATO»?

Mi domando se ad alcune prospettive metafisiche _ in questo caso l’Amor fati stoico-nietzschiano _, corrisponda REALMENTE un sentito, profondo desiderio che porti a dire:

<<Amor fati: sia questo d’ora innanzi il mio amore! […] quando che sia, voglio soltanto essere, d’ora in poi, uno che dice !>> - (Friedrich Nietzsche: “La gaia scienza”, 276);

ed anche:

<<La mia formula per giudicare della grandezza dell’uomo, è amor fati: cioè, non volere che le cose siano diverse, che non evadano né avanti, né indietro, per tutta l’eternità. Non soltanto sopportare il Necessario, e ancor meno nasconderlo (ogni idealismo è menzogna di fronte al Necessario); bensì amarlo>> - (Nietzsche: “Ecce Homo”).

È davvero possibile dire sempre ( = <<per tutta l’eternità>>) a tutto ciò che ci viene incontro _ e per di più amandolo _, senza perciò <<volere che le cose siano diverse>> da come ci vengono incontro?

Riguardo all’espressione del filosofo stoico Cleante: Ducunt volentem fata, nolentem trahunt = <<Il fato conduce colui che vuole lasciarsi guidare, trascina colui che non vuole>> - (Seneca: “Epistole a Lucilio” 107, 11, 5”), <<uno che dice !>> a tutto è colui che ACCETTA tutto, quindi è espressione del ducunt volentem fata; mentre, il nolentem trahunt è incarnato dalla maggioranza se non dalla totalità delle persone.

Ebbene, <<uno che dice !>> a tutto _ e, ricordiamolo, lo deve dire <<per tutta l’eternità>> _, costituisce la più radicale NEGAZIONE del dire a tutto!

Perché?

Colui che <<dice !>> a tutto e che perciò NON vuole <<che le cose siano diverse>> poiché le vuole ACCETTARE tutte, dice anche il più grande NO, perché dice NO al NON dire a tutto.

Siccome dice a tutto, e il tutto include ogni evento, nessuno escluso _ anche Auschwitz _, allora, dicendo , egli al contempo dice un grande NO agli innumerevoli NO che normalmente avrebbe detto ma che ora intende NON dire più, giacché vorrebbe accogliere tutto con il .   

Dunque, essere <<uno che dice !>> a tutto, vuol dire essere uno che NON <<dice !>> a tutto.

Essere uno che ACCETTA tutto, vuol dire essere uno che NON ACCETTA tutto, perché egli NON ACCETTA di ( = dice NO al) NON accettare tutto.

Essere uno che NON vuole <<che le cose siano diverse>>, vuol dire essere uno che VUOLE <<che le cose siano diverse>>, perché VUOLE che esse DIFFERISCANO dal loro esser VOLUTE diversamente da come sono.

Da ciò deriva l’illusorietà del progetto ‘super-oltreoministico’ del nuovo tipo ‘umano’ (!) nietzschiano…

 

Roberto Fiaschi

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sabato 19 aprile 2025

170)- I FANATICI DEL ‘DIO’ P.d.N.C.

 

Il FANATISMO purtroppo INFETTA tutto, in primis la religione, ove esso si manifesta più esplicitamente, tanto che molti identificano _ spesso giustamente _ religione e fanatismo.

Senonché, il fanatismo può celarsi anche laddove non ci aspetteremmo di trovarlo cioè negli ambiti culturali laici ritenuti (FANATICAMENTE) immuni da esso, come la scienza, la filosofia, etc…

Ad esempio, vi è un estimatore (che chiamerò X) del filosofo Emanuele Severino che si fa promotore dell’anti-fanatismo in ambito POLITICO (giacché tutte le sue affermazioni qui riportate le ho tratte dalle sue discussioni politiche):

<<Nella mia attività contro il fanatismo […]>>;

<<[…] L’unica cosa importante è far emergere le contraddizioni perché solo così la verità può avere spazio. Il mio è antifanatismo concreto>>.

Nonostante egli rifiuti di venir considerato

<<alla stregua di altri severiniani, che hanno scambiato Severino per oracolo o altro, senza tenere conto di quanto scrivo e dico è un’offesa che rimando al mittente. Sono anni che ne scrivo e ti rimando a quanto ho scritto. Certi sedicenti severiniani sono fanatici e non meritano di parlare di Severino da quella loro posizione perché portano nocumento alla filosofia e al pensiero in generale e a quello di Severino in particolare. Persone come Dell’Albani che si fregiano di portare avanti il pensiero di Severino, con il loro fanatismo lo danneggiano>>,

è difficile non prendere atto che, nel suo anti-fanatismo, egli si ritrovi ad esser altrettanto (se non di più) FANATICO del fanatismo (o dei fanatici) che egli vorrebbe combattere, giacché attinge da esso la stessa intransigente unilateralità tipica di ciò che (o di chi) intende avversare.

In qualche modo ne è consapevole, infatti si affretta a precisare:

<<E' un errore combattere il fanatismo con un fanatismo uguale e contrario. Per combatterlo occorre che nei discorsi, negli scritti nei video si faccia prevalere sempre la ragione, la logica e la verità, contro l'irrazionale, l'illogico e il verosimile>>.

Ma, anche qui, la <<ragione, la logica e la verità>> egli le trae dalla ragione, dalla logica e dalla (presunta) verità della filosofia di Severino, che i severiniani ritengono esser LA Verità tout court, l’UNICA Verità incontrovertibile apparsa nella storia umana, e le trapianta incautamente nell’analisi politica, ritenendo che la logica e la (presunta) verità filosofica severiniana possano tranquillamente giocare a suo favore cioè ‘incontroveribilmente’ (!) una volta applicate all’analisi politica. Da qui, il suo utilizzo IMPROPRIO quanto FANATICO del principio di non-contraddizione ( = PdNC) in ambito politico.

Non entro affatto nel merito degli orientamenti politici di X, che posso anche condividere criticamente.

Piuttosto, vorrei far notare come egli, ‘forte’ del PdNC, si scagli sempre contro la FEDE simpliciter, la fides qua (e, a maggior ragione, la fides quae). Qualsiasi discorso in qualsiasi contesto che egli disapprovi è, per lui, immancabilmente FEDE cioè ERRORE.

Infatti, egli equipara FANATICAMENTE il fanatismo alla FEDE qua talis, senza mai operare alcuna distinzione (egli sentenzia immancabilmente: <<la follia del credere>>);

poi quindi equipara la FEDE alla MENZOGNA;

la MENZOGNA alla CONTRADDIZIONE;

la CONTRADDIZIONE (udite udite!) al MALE, come si evince in queste sue affermazioni FANATICAMENTE lapidarie:

<<[…] denunciano la tua fede e quindi la tua contraddittorietà>>,

e:

<<La contraddizione è il male>>.

Sembra che, per X, in una discussione storico-politica ci si debba avvalere degli stessi principii vigenti in una discussione filosofica:

<<è necessario che le critiche [politiche] siano corrette ossia rispettino il principio di non contraddizione, altrimenti come potrebbe far emergere le contraddizioni nel discorso altrui?>>

Ma che cos’è, questa, se non una FANATICA divinizzazione del PdNC che lo porta all’altrettanto FANATICO compulsivo ricorso ad esso, il più delle volte a SPROPOSITO?

Infatti, nel dialogo politico con un suo interlocutore, egli scrive:

<<A me le tue posizioni politiche non mi interessano, nel senso che puoi credere in ciò che vuoi. Ma se neghi la verità, ossia il principio di non contraddizione, per me ciò che affermi è totalmente inconsistente>>.

Viene allora da chiedersi:

COSA C’ENTRA il PdNC con le <<posizioni politiche>> di chicchessia?

È noto, infatti, che il linguaggio impiegato da chiunque ed in qualsiasi tipo di tematica si fondi sul PdNC, questo è evidente e vale PER TUTTI.

Tuttavia, da qui al ritener che le proprie <<posizioni politiche>> siano VERE sol perché l’interlocutore, dissentendo da X, violerebbe (?) per ciò stesso il PdNC, beh, ci passano anni-luce!

In sostanza, il suo discorso (mal)funziona così:

“tu sei nell’ERRORE ( = <<ciò che affermi è totalmente inconsistente>>) perché, non essendo d’accordo con me ( = visto che tu <<neghi la verità, ossia il principio di non contraddizione>> che invece io non nego ma che, anzi, adoro), non ricorri al medesimo PdNC per sostener le tue posizioni politiche ma lo vìoli”!

Ecco l’utilizzo FANATICO del PdNC!

Come se le complesse vicende storico-politiche soggiacessero al tribunale del dio-PdNC!

Esso non serve a conferire VERITÀ alle intricate e polivalenti <<posizioni politiche>>, ma unicamente ad esprimerle in modo determinato cioè comprensibile ossia non-contraddittoriamente, ma il PdNC NON dice quale lettura di una vicenda politica sia maggiormente ‘vera’!

È la cogenza interpretativa degli eventi a prevalere in tal direzione o meno!

X ha inoltre precisato:

<<[…] sono innanzitutto per stabilire alcuni punti di partenza della discussione, che non può iniziare senza una base razionale e ragionevole. E poi cosa sarebbe il pensiero unico? Essere per la verità è forse agire il pensiero unico? Ho sempre affermato, per esempio, che una cosa è sé stessa e non può essere altro da sé. Per esempio la porta non è la finestra. Nessuna precisazione ulteriore è necessaria per sostenere questa verità che si basa evidentemente sul principio di non contraddizione. Su molte cose i confini sono sfumati ma non sulla questione che la porta non sia la finestra. Orbene quale pensiero non unico potrebbe affermare il contrario? Nessuno! Dunque: se esistono cose chiare ed evidenti come la porta e la finestra, le mininimizzazioni, le massimizzazioni, i distinguo, quella retorica all’Azzeccagarbugli che tu puoi ricordare fu affrontata per esempio da Sciascia nella polemica della “viltà degli intellettuali” è perfettamente accessoria, inutile>>.

Ulteriore esempio di utilizzo FANATICO, oltre che sbagliato, del PdNC. Infatti, egli ritraspone nuovamente <<la porta non è la finestra>> in una discussione storico-politica, e pretende, perciò, di vagliare la POLITICA in modo tale da conseguire in essa giudizi netti come: <<la porta non è la finestra>>!

Eppure, X è consapevole che <<Su molte cose i confini sono sfumati ma non sulla questione che la porta non sia la finestra>>; ma pare non esser consapevole che in sede storico-politica NON abbiamo quasi mai a che fare con <<porte>> e <<finestre>> nella loro netta differenza, bensì con una gran mole di eventi i cui <<confini sono sfumati>>!

Ancora; sempre nell’ambito di un discorso sulle rispettive <<posizioni politiche>>, egli ha osservato:

<<il pdnc è sempre in ballo, è ontologico. Il fanatico e il folle pensano di fare a meno del principio, il primo per convenienza il secondo per condizione mentale. Il fanatismo è una malattia pericolosa per la società e per l’individuo. La contraddizione è il male>>.

Capito?

“Chi non la pensa come me, che ricorro al PdNC, o è FANATICO o è FOLLE”, sottende il nostro severiniano e, tra quei due, soltanto lui, bel terzo, splende di sobrietà e salute mentale…

Ma poi NON è nemmen vero che il fanatico pensi di <<fare a meno del principio>>, giacché neppure lui potrà evitar di esprimere il proprio fanatismo secondo significati determinati e perciò in linea coi dettami del PdNC!

Dopodiché aggiunge:

<<Non si può essere certi del vero, anche se esso esiste necessariamente, perché siamo pur sempre volontà, ma possiamo con certezza indicare la contraddizione, cosa a cui non dovremmo rinunciare in ragione delle proprie convinzioni politiche, anche le più vetuste. Chi rinuncia a sottoporre il proprio credo al giudizio basato sul pdnc, è molto probabile sia vittima del fanatismo>>.

Anche qui riemerge l’utilizzo FANATICO nonché sbagliato del PdNC.

Notare, poi, il suddetto brano che comincia con:

<<Non si può essere certi del vero, anche se esso esiste necessariamente>>.

E, a maggior ragione, NON se ne può esser certi nel contesto delle <<posizioni politiche>> nel quale tutte le frasi riportate da X si collocano, giacché è sempre e soltanto in tale contesto che egli si sta muovendo, epperò pretende di sentenziare a colpi di PdNC!

Infatti, contrariamente a quanto ha appena detto, X afferma di SAPERE molto bene cosa sia il vero, dove ha scritto:

<<chi pensa sa che l’uomo è credere [ = errare] ma anche che la verità esiste ed è unica [la sua?]. Il sapere non è un credere [un errare], è invece la consapevolezza che il credere è qualcosa e non un nulla. Tale differenza tra qualcosa e il nulla non dipende dal credere ma è vero necessariamente>>.

Dunque, <<chi pensa>> è lui, giacché egli <<sa che l’uomo è credere>> e lo <<sa>> perché <<pensa>> e quindi NON crede ( = NON erra).

E già qui tenta di porsi FANATICAMENTE un gradino al di sopra di chi CREDE.

Successivamente, all’affermazione di X secondo cui:

<<chi pensa sa che l'uomo è credere ma anche che la verità esiste ed è unica>>,

giunge l’opportuna critica del suo interlocutore:

essa <<è una palese contraddizione, perché se l'uomo è credere, il suo sapere è credere di sapere, quindi non verità>>.

Ebbene, nonostante abbia ammesso che <<Non si può essere certi del vero>>, X non ci sta a passare per uno che SI CONTRADDICA e che perciò esprima CREDENZE, per cui ripiega scorrettamente sull’antropologia severiniana, rispondendo:

<<non è una contraddizione perché è il mortale (a cui mi riferisco) ad essere un credere, ma nell’uomo c’è la follia del credere ma anche il luogo dove appare la verità. E perché posso dirlo? Per lo stesso motivo per cui posso dire che l’essente è sé stesso e non può essere altro da sé. Non crederai forse che un’obiezione del genere non abbia avuto risposta adeguata da Severino, vero?>>

Ed ecco, una volta di più, il FANATISMO riaffacciarsi nella scappatoia in base alla quale, essendovi nell’uomo <<la follia del credere ma anche il luogo dove appare la verità>>, allora è pacifico che quel <<luogo dove appare la verità>> sia abitato comodamente da X _ e qui per la SECONDA volta egli tenta FANATICAMENTE di porsi un gradino più in alto di colui che CREDE _, giacché X chiama in causa quel <<luogo>> collocandosi nel quale si sente in diritto di NEGARE d’esser (sia lui che Severino) andato soggetto alla suddetta critica secondo la quale, <<se l'uomo è credere>>, allora <<il suo sapere è credere di sapere, quindi non verità>>!

Tuttavia, X dimentica che:

<<[…] per vedere che il destino sia nella parola è cioè necessario che la volontà [ = l’io empirico-errore] veda il destino; ma, si è rilevato, è impossibile che ciò che appare all’interno di una fede sia il destino della verità. Ma questo non significa che, dunque, la verità sia impossibile. Infatti la volontà [ = l’io empirico-errore] può voler  assegnare la parola al destino – e, innanzitutto, può isolare la terra – solo in quanto il destino appare già da sempre al di fuori dell’isolamento della terra e del linguaggio>> -

(Emanuele Severino: La Gloria, pag. 475. Parentesi quadre mie: RF; corsivo nel testo);

X è all’interno di una fede; infatti non consta che lui e Severino siano <<al di fuori dell’isolamento della terra>>, per cui NON può apparir loro <<il destino della verità>>.

Nonostante ciò, egli ha sin qui preteso di SAPERE, immune dalla <<follia del credere>>…

Beato lui.

 

Roberto Fiaschi

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169)- CARLO ROVELLI: DIO E LA SCIENZA

In un’intervista al fisico Carlo Rovelli (https://www.repubblica.it/esteri/2014/10/28/news/rovelli_scienza_e_fede_devono_restare_separate_nonostante_le_parole_di_papa_francesco-99201117/), Stefania Parmeggiani gli domanda:

<<Ha senso domandarsi se c'è stato un prima? Il Big Bang non si pone al di fuori del tempo?>>

Carlo Rovelli risponde: <<Che prima del Big Bang non esistesse il tempo è una possibilità, ma ci sono altre possibilità, ad esempio possiamo pensare a un altro universo prima di quello che vediamo... È una sciocchezza che la Chiesa leghi se stessa a una teoria scientifica. Potrebbe essere smentita il giorno dopo. La ricerca della scienza non ha nulla a che vedere con i racconti della Genesi. Lemaitre consigliò a Pio XII di non confondere piani diversi. Quel consiglio è ancora valido>>.

Vero, molto rischioso LEGARSI <<a una teoria scientifica>> da parte della teologia.

Cosa vi è di implicito in quest’osservazione di Rovelli, ma che egli si guarda bene dall’esplicitare?

Vi è che, siccome una qualsiasi teoria scientifica <<Potrebbe essere smentita il giorno dopo>>, allora è <<una sciocchezza>> _ da parte di chiunque _ legarsi anche ad una qualsivoglia teoria scientifica, appunto perché essa <<Potrebbe essere smentita il giorno dopo>> da un’altra teoria.

Sempre Rovelli, nella medesima intervista, alla domanda:

<<È possibile trovare Dio nella Scienza?>>,

ha risposto:

<<No. C'è un unico modo in cui la scienza può spiegare Dio: attraverso l'antropologia e la psicologia. Può studiare il fenomeno religioso e come l'umanità, nel suo farsi, lo abbia costruito. Ma certo non può cercare il divino nello spazio, nel tempo e nelle leggi della fisica. Questo non vuol dire che gli scienziati non sentano il mistero, la meraviglia o la sacralità dell'universo. Questi sono sentimenti umani, che restano veri con o senza Dio>>.

Qui, Rovelli si SMENTISCE senza accorgersene, giacché il suo perentorio <<No>> potrebbe anch’esso <<essere smentit[o] il giorno dopo>> da un altro <<No>>.

Così, è <<una sciocchezza>> affermare che l’<<unico modo in cui la scienza può spiegare Dio>> avvenga <<attraverso l'antropologia e la psicologia>>;

infatti quell’<<unico modo>> potrebbe <<essere smentit[o] il giorno dopo>> da un altro <<modo>>, cosicché, quello a cui si è legato Rovelli NON SIA PIÙ l’<<unico modo in cui la scienza può spiegare Dio>>.

È altrettanto <<una sciocchezza>> sentenziare:  

<<Ma certo non può cercare il divino nello spazio, nel tempo e nelle leggi della fisica>>; Rovelli <<Potrebbe essere smentit[o] il giorno dopo>> da un’altra (provvisoria) “certezza”…

Ed è nuovamente <<una sciocchezza>> asserire che sia <<un grave errore dire che il Big Bang esige l'intervento di un creatore divino>>, sempre per il fatto che tale affermazione potrebbe <<essere smentita il giorno dopo>>…

Poiché Rovelli ha dichiarato <<di essere serenamente ateo>>, sorge il sospetto che laddove alcuni indizi possano MINARE il suo ateismo, l’accortezza di dire: <<È una sciocchezza>> legarsi <<a una teoria scientifica. Potrebbe essere smentita il giorno dopo>> NON VALGA PIÙ

 

Roberto Fiaschi

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