giovedì 29 maggio 2025

182)- L’“ASSOLUTO” PARMENIDEO-BACCHINIANO È ASSOGGETTATO AL PdNC (PUNTO).

Riprendo nuovamente il tema indicato dal titolo (vedi anche post n° 120) riportando due citazioni, la prima del prof. Aldo Stella, la seconda del suo allievo Marco Cavaioni:

(1)- <<Parmenide usa l’espressione “essere” per indicare la necessità di un fondamento che sia assoluto e, pertanto, emerga oltre ogni vincolo. L’essere, infatti, non solo costituisce la ragione del non essere del non-essere, ma, più radicalmente, del non essere della “relazione” tra essere e non-essere. [...] L’essere, proprio perché in relazione solo a sé stesso, a rigore non è in relazione affatto: se lo fosse, si dovrebbe ammettere una differenza nell’essere, perché solo così vi sarebbero i due termini che consentono di porre la relazione. Se non che, ciò che è differente dall’essere è non-essere, così che ogni differenza, sia interna all’essere sia esterna ad esso, non può non venire esclusa>>. – A. Stella, Riflessioni teoretiche, Morlacchi, 2023, p. 398.

(2)- Marco Cavaioni: <<Quanto osservato con rigorosa essenzialità da Stella è nient'altro che ciò che impone di pensare l'assolutezza dell'essere. Dicano, dunque, con onestà intellettuale i sedicenti "testimoni" della "verità dell'essere" [Severino e suoi estimatori] – per i quali l'essere è tale solo in relazione oppositiva al nulla – che il loro "essere" non è e non può essere assoluto, perché – di certo – non si può pretendere di avere un assoluto che sia tale ma, nel contempo, anche in relazione (opposizione). Dopodiché, vedremo se abbiano senso un essere ed una verità non assoluti>>.

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Giustamente, Marco Cavaioni ha sempre NEGATO che l’assoluto parmenideo, al quale egli ed il prof. Stella si riferiscono, debba assoggettarsi al principio di non-contraddizione (PdNC):

<<Sarebbe, in effetti, contraddittorio estendere all'assoluto (al vero, al fondamento) il pdnc>>.

Pertanto l’essere, come qui sopra afferma Stella sulla scia di Parmenide, deve emergere <<oltre ogni vincolo>>, ed il PdNC è precisamente IL vincolo per eccellenza da oltrepassare.

Ciò è comprensibile giacché, in tal caso, l’assoluto sarebbe non solo SUBORDINATO al nomos del PdNC (e un assoluto subordinato, non è più assoluto), ma altresì sarebbe DETERMINATO cioè, nuovamente, sarebbe non-assoluto in quanto esso, dovendo ESCLUDERE da sé ed in sé qualsivoglia DIFFERENZA/DISTINZIONE (quindi la stessa molteplicità degli enti) in conformità ai dettami del PdNC, se la ritroverebbe comunque in sé, contraddicendo perciò la propria pretesa semplicità ed indifferenziazione.

Quindi, la domanda è:

riescono i suddetti filosofi nell’intento di mantenere l’assoluto IMMUNE o SVINCOLATO (Ab-soluto = SCIOLTO-DA) dal PdNC?

Direi proprio di NO.

Qualora non vi riuscissero, la loro concezione di assoluto-indifferenziato si rivelerebbe teoreticamente insostenibile.

E sono proprio le parole di Aldo Stella e di Marco Cavaioni a PRECLUDERE la possibilità di ESCLUDERE l’assoluto parmenideo dal dominio del PdNC (e quindi della molteplicità).

Infatti, nel brano (1), Stella afferma esplicitamente l’ESCLUSIONE dall’essere di <<ogni differenza, sia interna all’essere sia esterna ad esso>>, e tale ESCLUSIONE è dettata proprio dal PdNC il quale ESCLUDE <<ogni differenza>> ( = ogni ente) dall’essere parmenideo, per la ragione secondo la quale un qualsiasi ente, differendo da ogni altro, funge da non-essere nei confronti del proprio altro (e viceversa), e questo è contraddittorio _ dice il PdNC _ per cui va ESCLUSO _ conclude sempre il PdNC _ che la differenza (e quindi il molteplice) abiti nell’essere, il quale sarà perciò un essere semplice ed indifferenziato.     

Lo stesso dicasi per il brano (2) di Marco Cavaioni ove egli, in modo ANCOR PIÙ ESPLICITO che in Stella, afferma che <<non si può pretendere di avere un assoluto che sia tale MA, NEL CONTEMPO, anche in relazione (opposizione)>> (maiuscoli tutti miei: RF), giacché <<NEL CONTEMPO>> è la riaffermazione letterale della parola ἅμα del testo aristotelico, che significa: <<nel medesimo tempo>>.

Ritradotto nel nostro caso, abbiamo:

è impossibile che ciò-che-non-è-in-relazione ( = l’assoluto) sia <<NEL CONTEMPO>> ( =  ἅμα) anche in relazione!

 

Roberto Fiaschi

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domenica 25 maggio 2025

181)- LA DISTINZIONE NELL’UNO PARMENIDEO È INNEGABILE, OPPURE È INEVITABILE?

 

La filosofia di Giovanni Romano Bacchin nonché dei suoi prosecutori Aldo Stella e Marco Cavaioni, prevede una DISTINZIONE tra il piano dell’INNEGABILE o dell’assoluto-indifferenziato, ed il piano dell’INEVITABILE o piano del relativo differenziantesi. Il piano dell’inevitabile, però, esiste soltanto dal punto di vista dell’inevitabile stesso, NON dal punto di vista dell’innegabile, per cui, in realtà, secondo i suddetti filosofi esisterebbe SOLTANTO il piano dell’innegabile/assoluto.

Come ha osservato Marco Cavaioni:

<<nell'«uno senza distinzione» […] non tanto si toglie la distinzione, ma radicalmente […] essa mai c'è stata>>.

Bene, su queste premesse, chiedo:

dal punto di vista dell’INNEGABILE, la DISTINZIONE tra il piano dell’innegabile ed il piano dell’inevitabile è una DISTINZIONE INNEGABILE oppure è INEVITABILE?

1)- se essa fosse INNEGABILE, allora anche il piano dell’inevitabile sarebbe innegabile _ appunto perché esso, in virtù della DISTINZIONE innegabile, sarebbe INNEGABILMENTE DISTINTO dal piano dell’innegabile _ e perciò sarebbe pienamente ESSERE, poiché DISTINGUENTESI innegabilmente dal piano dell’innegabile, col risultato, però, che entrambi i piani sarebbero ugualmente innegabili e quindi INDISTINGUIBILI almeno sotto l’aspetto della loro innegabilità, pur restando innegabilmente DISTINTI tanto quanto è DISTINTO l’intero dalla parte o l’assoluto dal relativo e che perciò farebbe del piano dell’assoluto un’altra parte rispetto a ciò (il piano dell’inevitabile o relativo) da cui innegabilmente il primo si DISTINGUE.

Il che segna nell’assoluto stesso un’innegabile DISTINZIONE la quale, perciò, NEGA che esso sia privo di DISTINZIONI, per cui non può essere ritenuto indifferenziato.

Insomma, un’assoluto-indifferenziato inficiato da un’APORIA dietro l’altra…

2)- Se invece la DISTINZIONE fosse soltanto INEVITABILE, ebbene, cambierebbe ben poco, se non nulla, rispetto al punto 1 cioè all’essere innegabile.

Infatti, l’inevitabile è ciò che NON si può evitare, quindi NON si può negare che l’inevitabile sia inevitabile.

Poiché non si può negare che l’inevitabile sia inevitabile, non lo si può perciò evitare in nessun modo, per cui la DISTINZIONE-inevitabile dovrà essere INNEGABILMENTE-inevitabile, altrimenti sarebbe una DISTINZIONE-evitabile.

Ma, appunto, essendo innegabilmente inevitabile, la DISTINZIONE NON può evitare di essere inevitabilmente DISTINZIONE, quindi, innegabilmente essa NON può evitare ( = negare) la propria inevitabilità giacché, se potesse evitarla/negarla, NON sarebbe L’INEVITABILE bensì l’evitabile/negabile.

Conclusione:

in entrambi i punti 1 e 2, la DISTINZIONE risulta SEMPRE INNEGABILE, e perciò l’Uno parmenideo NON può mai risultare indistinto 

 

Roberto Fiaschi

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giovedì 22 maggio 2025

180)- LA DISTINZIONE (IN QUANTO TALE) È SOLO «PRESUPPOSTA»?

 

- O le differenze manifestate dal/nel mondo sono l’apparenza illusoria alle quali sottostà un assoluto MONISMO indifferenziato (concezione di Parmenide, a sx nella foto),

- oppure le differenze manifestate dal/nel mondo rinviano a (o sono espressione di) Dio che, in sé, MAI è privo di DISTINZIONI (concezione cristiana).

Il sostenitore della prima concezione, il filosofo Marco Cavaioni, ha scritto:

<<Bene, allora mi dirai dove si trova la fondazione (dimostrazione) incontrovertibile che i MOLTI "sono", ossia che l'essere è DISTINTO (anziché indistinto). Ovviamente, l'immediatezza fenomenologica non vale come dimostrazione>> (maiuscoli miei: RF) giacché, per lui, l’essere della DISTINZIONE (cioè la DISTINZIONE in quanto tale) è soltanto un presupposto, quindi è una non-verità cioè una ‘verità’ solo presupposta perciò soltanto creduta tale, insomma: essa sarebbe <<un "essere" solo preteso>> per cui _ sempre secondo Marco Cavaioni _, la distinzione-che-appare va dimostrata ricorrendo ad ALTRO rispetto all’<<immediatezza fenomenologica>>: si deve ricorrere al solo logos.

Tuttavia, cosa succede non appena tentiamo di avvalerci del solo logos al fine di dimostrare l’essere della distinzione?

Innanzitutto, poiché per Marco Cavaioni <<l'immediatezza fenomenologica non vale come dimostrazione>>, allora accade che egli abbia GIÀ DISTINTO tale immediatezza dal logos PRIMA ancora che esso dimostri l’essere della distinzione, cosicché chiedere la suddetta dimostrazione è come chiedere la dimostrazione che il logos sia distinto dall’<<immediatezza fenomenologica>>!

Avendola già distinta, egli dovrà ritenere REALE tale distinzione, anziché una semplice presupposizione, altrimenti sarebbe una semplice presupposizione anche la sua convinzione secondo la quale <<l'immediatezza fenomenologica non vale come dimostrazione>>!

Ciò perché la distinzione che si doveva dimostrare, presiede e dirige ‘a monte’ la stessa dimostrazione dell’essere della distinzione, REINTRODUCENDO (riconfermando come INNEGABILE) quella distinzione che Marco Cavaioni chiedeva di dimostrare unicamente mediante il logos!

Egli osserva, però, che tutto ciò non dimostra la non-presuppositività della distinzione, bensì che quest’ultima viene soltanto RESTITUITA come presupposizione iniziale e quindi come non-verità.

Ma, se fosse così, allora, come detto poc’anzi, verrebbe altresì RESTITUITO il carattere di presupposto/non-verità della sua stessa negazione che l’immediatezza fenomenologica possa valere <<come dimostrazione>> nonché della distinzione tra logos ed immediatezza fenomenologica!

Per cui il suo invito a dimostrare che la distinzione non sia una mera parvenza, si è rivelato essere un invito AUTO-CONTRADDITTORIO…  

 

Roberto Fiaschi

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lunedì 19 maggio 2025

179)- «DIMOSTRAZIONE DELL'ESISTENZA DI DIO» DEI «FANTASIOSI TOMISTI»?

Premesso che diffido dalle cosiddette ‘prove’ filosofiche dell’esistenza di Dio, tuttavia mi preme riportare la critica che il filosofo Marco Cavaioni, allievo di Giovanni Romano Bacchin, rivolge alla dimostrazione tomista di Dio a partire dalla positività (o dalla posizione) del mondo:

<<ogni dimostrazione cosmologica (a posteriori) dell'esistenza di Dio – ma sarebbe più corretto dire: di Dio come esistere necessario – è una dimostrazione contraddittoria, perché muove da (poggia su) ciò che è fondato da Dio, cioè appunto muove da quel mondo (fatto, esserci) che in sé è nullo, perché il "CONDIZIONATO" (l'ORIGINATO) in sé è contraddittorio, NON HA ALCUNA SUSSISTENZA AUTONOMA.
Pertanto, l'unico senso in cui esso [il mondo] proverebbe l'esistenza di Dio è il suo [del mondo, del condizionato] TOGLIERSI – e non il suo PORSI, come asseriscono i fantasiosi tomisti – in Dio. Cioè la restituzione che solo Dio è>>. (Maiuscoli e parentesi quadre miei: RF).

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Al netto della questione se il mondo (gli enti) sia POSTO o TOLTO, in questo post interessa soltanto mostrar come la critica di Marco Cavaioni contro la <<dimostrazione cosmologica (a posteriori) dell'esistenza di Dio>> da parte dei <<fantasiosi tomisti>> gli si ritorca contro.

Infatti, ciò che ha scritto nel suo post, AUTO-CONTRADDICENDOSI, equivale a:

“il mondo ( = gli enti), che è condizionato, che non ha alcuna sussistenza autonoma e che perciò dipende ( = è originato) da Dio (o dallessere), NON può fungere da dimostrazione a posteriori dell’esistenza di Dio”!

In pratica, Marco Cavaioni NEGA la <<dimostrazione cosmologica (a posteriori) dell'esistenza di Dio>> proprio nel mentre che la RIAFFERMA!

E, a questo punto, poco o nulla importa che sia il TOGLIMENTO del mondo piuttosto che la sua POSIZIONE a costituirsi come ciò che <<proverebbe l'esistenza di Dio>>:

in entrambi i casi il risultato è il medesimo, giacché egli, contro le proprie intenzioni, ha già comunque VALIDATO ciò che ha criticato, ossia la <<dimostrazione cosmologica (a posteriori)>> nel momento stesso in cui ha fornito la ragione per la quale il mondo (posto o tolto che sia) NON può essere il “trampolino di lancio” per tale dimostrazione.


Roberto Fiaschi

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giovedì 15 maggio 2025

178)- «FASCISMO» METAFISICO

Il titolo che ho dato al presente post NON vuole affatto essere OFFENSIVO , quindi, tacciare di <<fascismo>> nessuno, men che meno Marco Cavaioni, autore del post.

Tuttavia, parresìa vuole che non me ne esima…

il post di Marco Cavaioni è intitolato:

<<25 APRILE METAFISICO>>.

Esso recita:

<<Premesso che io sarei stato senza esitazione tra i partigiani (sebbene di una inesistente brigata metafisica, tipo "Brigata Parmenide" o qualcosa del genere), e questo per una semplicissima ragione: la consapevolezza che la mia vita non è il valore ( = la verità, che rende vera anche la libertà a cui aspiro) e, quindi, non posso non essere sempre pronto a sacrificarla, facendomi "funzione" del valore. Peraltro, mettere in pratica questo atteggiamento (cioè per essere davvero liberi, per liberarsi in vista della libertà) non c'è bisogno di avere sopra la testa un regime politico illiberale. Nondimeno, ciò detto, mi sento di dover fare un paio di rilievi, nel tentativo di non fermarsi a ciò su cui non si può che essere tutti d'accordo (salvo i cretini, il cui disaccordo va benissimo), guardando, se possibile, al cuore delle questioni, domandandosi cioè quale ne sia la radice, l'essenza. Ebbene, la radice del "fascismo" a me sembra sia il dogmatismo. E dogmatico non può non essere qualsiasi sistema, chiaramente anche politico. Ogni sistema si fonda su (meglio: postula) premesse indiscusse e indiscutibili: discuterle sarebbe la sua morte, la sua dissoluzione. Il sistema, per sopravvivere, deve "uccidere" la stessa possibilità di questionarlo, di revocarne in dubbio le basi. Potere è esercizio di potere ed è tale – ed opera con efficacia – proprio perché e se non tollera opposizione, cioè critica. Discuterlo sarebbe esserne già usciti, rendendolo così impotente. Per questo l'ideale del potere è di non apparire tale: il potere è essenzialmente dissociazione tra essere (imposizione) e apparire (necessità, idealmente natura, legge fisica, evidenza: tutto ciò, insomma, che non avrebbe senso mettere in discussione). Il dogmatico è un problema in sé, indubbiamente, ed è ogni presupposto o pretesa di sottrarsi a discussione, dunque di avere ragione, dunque di farsi intero da parte che si è. Ma il vero è solo l'intero, che non ha parti. Il dogmatico è, oltre che "in sé", più tangibilmente un problema "in me" (in ciascuno di noi). Di più: sono io (ciascuno di noi), che non essendo l'intero o la verità, sono un problema, sono problematico. Ed è precisamente questo il punto: riconoscere che ciò che è problematico non può mai venire scambiato per improblematico (appunto dogmatico), assunto come vero senza che lo sia. Lo spazio, il luogo di ogni fascismo, è allora da individuarsi proprio qui: nel non-intero e nella tendenza naturale di ciò che non è l'intero (la parte) a farsi intero, a "totalizzare" tutto il resto. In conclusione: sono certamente gli uomini e gli uomini di valore a liberare (liberarsi e liberare gli altri), ma lo possono fare veramente solo in virtù del riconoscimento di non essere portatori di libertà, ma solo suoi strumenti. Con tutto quello che ciò comporta. Confido di non aver detto cose sbagliate. Il che, poi, significa non credere di aver mai completato definitivamente la "liberazione" dalle pretese di aver ragione: una ragione "posseduta" non è ragione, ma estensione di sé, prolungamento del primo fra i dogmi e fra le certezze: l'ego del soggetto>>.

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Dunque, stante il titolo del presente post, non sarà azzardato accostare il fascismo (ma poi qualsiasi totalitarismo) ad una determinata metafisica, cioè due ordini di realtà completamente diversi?

Mi riferisco all’intero ( = totalità, essere, assoluto…) della metafisica parmenidea, che Marco Cavaioni ha ben compendiato così:

<<il vero è solo l'intero, che non ha parti>>.

In esso la PARTE ( = ogni determinazione) è NULLA, INESSENTE, INESISTENTE, meramente APPARENTE/ILLUSORIA.

Perciò quale valore assegneremo a ciò che neppure ha dignità di ESSERE?

<<[...] per il fascista tutto è nello Stato e nulla di umano e spirituale esiste e tantomeno ha valore fuori dallo Stato. In tal senso il fascismo è totalitario...>>. – (Giovanni Gentile: Enciclopedia Italiana, voce "Fascismo (dottrina del)", Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1932, vol. XIV, pp. 835-840);

trasponiamo ciò alla metafisica parmenidea:

per il metafisico parmenideo tutto (ma in realtà NIENTE) è nell’intero-senza-parti (cioè senza individui) e perciò nulla di umano e di spirituale esiste e tantomeno ha valore IN (e FUORI da) esso. In tal senso l’intero metafisico parmenideo è totalitario

Ed anche:

<<il punto centrale della dottrina fascista è che "lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo">>. - (Arturo Marpicati, Benito Mussolini, Gioacchino Volpe: “Fascismo”, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1932).

Traduciamolo sempre in termini metafisici:

il punto centrale della metafisica parmenidea è che l’intero-senza-parti è l’assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo; relativo, però, nell’accezione PEGGIORE:

relativo = non-essere/illusione, appunto perché, ricordiamolo ancora, <<il vero è solo l'intero, che non ha parti>>.

Pertanto, l’intero-senza-parti TOTALIZZA ontologicamente, ovvero impone-sé (si è da sempre imposto) e ha da sempre TOLTO le parti cioè gli individui che solo illusoriamente ritengono di ESSERE.

A mio parere, il luogo metafisico <<di ogni fascismo>> è da ravvisarsi NON tanto <<nel non-intero e nella tendenza naturale di ciò che non è l'intero (la parte) a farsi intero, a "totalizzare" tutto il resto>>, giacché la parte totalizza sempre parzialmente e si può sempre porvi rimedio, bensì nello stesso intero che è totalitario PER ESSENZA e che perciò NON può tollerare PER SUA NATURA in sé fuori di sé alcuna ALTERITÀ.

Altrove, Marco Cavaioni ebbe a scrivere: <<"Negare" si sa viene da "necare": uccidere. Chi crede di detenere il criterio del vero, non solo si sente legittimato ma, anzi, si sente in dovere di "negare" la negazione del vero (di quel che egli crede sia il vero), cioè di sopprimere l'errore intollerabile>>.

Siccome <<il vero>> a cui egli si riferisce consiste proprio nell’intero parmenideo, ecco che quest’ultimo ha già da sempre METAFISICAMENTE UCCISO/NEGATO ogni DISSENSO ( = ogni parte) a guisa dell’Apeiron anassimandreo che abbandona al proprio destino di nascita/morte-inessenza la parte in quanto tale, perché rea di aver osato infrangere (dissentire da) la sua pura indeterminatezza-senza-parti.

 

Roberto Fiaschi

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martedì 13 maggio 2025

177)- L’ASSOLUTO E LA TRINITÀ IN ALDO STELLA E SANT’AGOSTINO

Riporto un articolo del prof. Aldo Stella intitolato:

<<L’ORDINE DELLA SOSTANZA E L’ORDINE DELLE RELAZIONE (iii)>> (https://ritirifilosofici.it/la-trinita-una-substantia-tres-personae-iii/) del 14 luglio 2024:

<<La nostra ipotesi ermeneutica è che, per intendere il senso della coesistenza dell’Unità e della Trinità, non si possa non fare ricorso alla distinzione di innegabile e in evitabile, ossia si debba introdurre una doppia prospettiva: la prospettiva dell’assoluto, che è una prospettiva “ideale” o “intenzionale”, e la prospettiva di chi si pone nell’universo in cui vige la finitezza (la prospettiva del relativo o “fattuale”). L’ipotesi della “doppia prospettiva” trova espressione anche in Agostino e precisamente nella forma della differenza tra il punto di vista della «sostanza» e quello della «relazione».

Scrive, infatti, Agostino nel De Trinitate:

«Dunque in Dio nulla ha significato accidentale, perché in Lui non vi è accidente, e tuttavia non tutto ciò che di Lui si predica, si predica secondo la sostanza. […] Infatti si parla a volte di Dio secondo la relazione [corsivo nostro]; così il Padre dice relazione al Figlio e il Figlio al Padre, e questa relazione non è accidente, perché l’uno è sempre Padre, l’altro sempre Figlio. […] Se invece il Padre fosse chiamato Padre in rapporto a se stesso e non in relazione al Figlio, e se il Figlio fosse chiamato Figlio in rapporto a se stesso e non in rapporto al Padre, l’uno sarebbe chiamato Padre, l’altro Figlio in senso sostanziale [corsivo nostro]. Ma poiché il Padre non è chiamato Padre se non perché ha un Figlio ed il Figlio non è chiamato Figlio se non perché ha un Padre, queste non sono denominazioni che riguardano la sostanza [corsivo nostro]. Né l’uno né l’altro si riferisce a se stesso, ma l’uno all’altro e queste sono denominazioni che riguardano la relazione [corsivo nostro]. […] Ecco perché, sebbene non sia la stessa cosa essere Padre ed essere Figlio, tuttavia la sostanza non è diversa, perché questi appellativi non appartengono all’ordine della sostanza, ma della relazione [corsivi nostri]». (Agostino, De Trinitate, trad. it., p. 241).

Abbiamo citato quasi per intero il lungo passo di Agostino perché ci sembra che ponga con estrema chiarezza – e lo ribadisca più volte – che l’ordine della sostanza non è l’ordine della relazione. Ciò che Agostino definisce «ordine della relazione» corrisponde all’ordine che noi definiamo dell’inevitabile e cioè all’ordine empirico-formale, nel quale appunto la relazione costituisce la struttura su cui l’ordine poggia. In tale ordine, vige non l’unità, intesa come unità metafisica (ossia come l’uno assoluto), ma la molteplicità.
Di contro, l’«ordine della sostanza» configura l’ordine in cui le tres personae si risolvono nell’unità e questa risoluzione si esprime in un innegabile atto: l’atto del togliersi della molteplicità, perché solo l’unità è veramente intelligibile essendo autonoma e autosufficiente. Se, pertanto, Padre e Figlio sono per la sostanza, e cioè innegabilmente, Uno, per l’ordine della relazione, invece, sono inevitabilmente distinti e cioè sono Due.

Ad ulteriore chiarimento Agostino aggiunge: «Il Figlio dunque non può essere uguale che in senso assoluto. Ma tutto ciò che si afferma in senso assoluto concerne la sostanza; perciò l’uguaglianza del Figlio non può essere che in ordine sostanziale» (ivi, p. 243).

Il senso per il quale Padre e Figlio sono Uno è il senso della sostanza, che coincide con il senso dell’assoluto: se ci si pone idealmente dalla prospettiva (senso) dell’assoluto, allora solo l’assoluto è, perché l’Uno è l’innegabile ragione del togliersi del molteplice; meglio, l’Uno è l’innegabile ragione dell’essersi da sempre tolto del molteplice.

Va inoltre specificato che, se tra Padre e Figlio v’è identità (unità) nella sostanza, tra le cose create l’unità è il loro essersi da sempre tolte come molteplici e tale unità può venire intesa se, e solo se, esse vengono colte dal punto di vista dell’unità stessa, cioè dell’assoluto, cioè dell’innegabile. Se, invece, si parla di unità, ma a muovere dalla prospettiva del molteplice, allora si ha a che fare con l’unificazione, non con la vera unità. L’unificazione è la sintesi che mantiene la molteplicità. Di contro, l’unità si realizza solo nel perdersi del molteplice nell’Uno: «Dopo il Signore ci indica che egli è il Mediatore grazie al quale siamo riconciliati con Dio, con queste parole: Io in essi e tu in me, affinché siano consumati nell’unità» (ivi, p. 197).

Tra le cose create, insomma, si può configurare di fatto solo un’unificazione, una sintesi, una relazione, che viene intesa come comunanza nell’amore. L’amore, però, esprime una riconciliazione con Cristo che non è solo relazionale: le diversità che sussistono tra gli uomini vengono meno nell’unità del Cristo e l’unità di Cristo con Dio toglie ogni residua distinzione (dualità).

Ciò viene confermato da quanto Agostino dice a proposito del Cristo, il quale è costituito bensì di una duplice natura, umana e divina, ma solo se lo si pensa a muovere dalla relazione e cioè dalla prospettiva della finitezza. Se, invece, lo si pensa a muovere dalla sostanza, ossia a muovere dall’assoluto, che è il punto di vista di Dio – che l’uomo può intendere solo idealmente –, allora il Cristo in quanto uomo si toglie nel Cristo in quanto Dio. Il Figlio, dice Agostino, è «inferiore» a sé stesso in quanto uomo, oltre che «inferiore» a Dio e allo Spirito Santo: «È inferiore anche a se stesso, poiché di lui è detto: Esinanì se stesso; è inferiore allo Spirito Santo, perché egli stesso dice: Chiunque parlerà contro il Figlio sarà perdonato, ma non sarà perdonato chi avrà parlato contro lo Spirito Santo» (ivi, p. 45). Il Cristo-uomo è una determinazione, laddove il Cristo che si risolve in Dio è il suo inverare il mondo inverando sé stesso.
Ebbene, l’atto dell’inverarsi del Cristo è precisamente lo Spirito Santo, il quale non va inteso come ipostasi, cioè come medio, ma appunto come atto. Spirito è il trascendere ogni finitezza, inclusa la finitezza che è del Dio fattosi uomo.

Riferimenti bibliografici: Agostino, De Trinitate, trad. it. di G. Beschin, La Trinità, Città Nuova Editrice, Roma 1973>>. 

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Da parte mia, ritengo che Sant’Agostino NON possa supportare l’<<ipotesi ermeneutica>> proposta dal prof. Stella <<per intendere il senso della coesistenza dell’Unità e della Trinità>>, consistente nella <<distinzione di innegabile e in evitabile>> cioè in una <<doppia prospettiva: la prospettiva dell’assoluto, che è una prospettiva “ideale” o “intenzionale”, e la prospettiva di chi si pone nell’universo in cui vige la finitezza (la prospettiva del relativo o “fattuale”)>> che troverebbe <<espressione anche in Agostino e precisamente nella forma della differenza tra il punto di vista della «sostanza» e quello della «relazione»>>.

La ragione di questa <<doppia prospettiva>>, cioè la <<distinzione di innegabile e inevitabile>>, ha lo scopo di PRESERVARE l’unità dell’assoluto da qualsivoglia DISTINZIONE interna ed esterna ad esso, quindi di preservarlo dall’<<ordine della relazione>>, giacché all’assoluto spetterebbe soltanto <<l’ordine della sostanza>>.

Tuttavia, come anche Stella riporta, Agostino afferma che <<in Dio nulla ha significato accidentale, perché in Lui non vi è accidente>>, sebbene <<non tutto ciò che di Lui si predica, si predica secondo la sostanza>>.

Certo, però questo NON significa che il parlare <<a volte di Dio secondo la relazione>> debba relegare quest’ultima al solo piano dell’inevitabile e non dell’assoluto; ciò vorrebbe dire ESCLUDERE <<le tres personae>> da Dio, per confinarle unicamente nel nostro punto di vista, cioè nel piano dell’inevitabile (evocando così una sorta di monarchianismo filosofico).

Infatti vedremo come la relazione costituisca L’ESSENZA stessa di Dio.

L’<<ipotesi della “doppia prospettiva”>> trova sì espressione anche in Sant’Agostino <<e precisamente nella forma della differenza tra il punto di vista della «sostanza» e quello della «relazione»>> ma, ricordiamolo ancora, siccome <<in Dio nulla ha significato accidentale, perché in Lui non vi è accidente>>, allora per Agostino questa differenza e quindi la stessa relazione sono IN Dio, anziché, come sostiene la prospettiva di Stella, far coincidere con l’assoluto/Dio <<il punto di vista della «sostanza»>> (in quanto <<solo l’assoluto è, perché l’Uno è l’innegabile ragione del togliersi del molteplice>>, e far coincidere con il relativo/molteplice (che, secondo Stella, mai è, in quanto da sempre tolto) il punto di vista <<della «relazione»>> o dell’inevitabile.

Partiamo dunque da quest’affermazione di Agostino:

<<tu vedi la Trinità, se vedi l’amore>> (De. Trin. 8:12),

perché

<<Dio è amore>> (1 Giovanni 4:8).

E prosegue Agostino:

<<Le persone divine non sono più di tre: la prima che ama quella che nasce, la seconda che ama quella da cui nasce e la terza che è lo stesso amore>>;

<<l’amore suppone uno che ama e con l’amore si ama qualcosa. Ecco tre cose: colui che ama, ciò che è amato, e l’amore stesso. Che è dunque l’amore se non una vita che unisce, o che tende a che si uniscano due esseri, cioè colui che ama e ciò che è amato?>> (Idem: 8, 10, 14).

E come dice l’ormai celebre nonché universalmente condivisa (in ambito teologico) affermazione di Karl Rahner:

<<La Trinità economica è la Trinità immanente e viceversa>>.

Questo “assioma” mostra come Dio in ( = la Trinità immanente) _ ciò che Aldo Stella chiama <<il punto di vista della «sostanza»>> o dell’innegabile _, NON sia ALTRO rispetto al Dio per noi ( = la Trinità economica) _ ossia rispetto alla <<prospettiva di chi si pone nell’universo in cui vige la finitezza (la prospettiva del relativo o “fattuale”)>>, come invece è previsto nella concezione su esposta di Aldo Stella, appunto perché

<<La Trinità economica È la Trinità immanente e viceversa>>, il che vuol dire che la Trinità immanente è in DIFFERENZIATA tanto quanto lo è la Trinità economica.

Torniamo ad Agostino.

Cosa si evidenzia dal fatto che <<tu vedi la Trinità, se vedi l’amore>>?

Si evidenzia che Dio, in , è essenzialmente RELAZIONALITÀ quindi DISTINZIONE/MOLTEPLICITÀ pur nell’inscalfibile UNITÀ.

È l’amore (caritas, ἀγάπη: agápē) stesso a costituirsi come tale.

Se infatti <<colui che ama, ciò che è amato, e l’amore stesso>> non si distinguessero, non vi sarebbe <<lamore>> tout court, giacché non vi sarebbe <<colui che ama>> e quindi non vi sarebbe neppure <<ciò che è amato>>; resterebbe un monolite incapace di EFFUSIVITÀ e DINAMISMO assomigliante perciò ad un Ego assoluto, quindi assolutamente nonché narcisisticamente ripiegato su sé stesso, per cui sarebbe follia ritener che l’indistinto UNO parmenideo possa aver anche solo lontanamente a che fare con l’amore (ἀγάπη).

Senonché, il prof. Stella precisa che

<<l’unità si realizza solo nel perdersi del molteplice nell’Uno>>, e cita Agostino:

<<«Dopo il Signore ci indica che egli è il Mediatore grazie al quale siamo riconciliati con Dio, con queste parole: Io in essi e tu in me, affinché siano consumati nell’unità»>>.

Tenderei per un’interpretazione diversa da quella offerta da Stella.

Se infatti ci consumassimo _ nel senso di: ci perdessimo _ <<nell’Uno>>, allora IN Dio si consumerebbe _ si perderebbe _ anche <<ciò che è amato>> (noi nel Figlio, nonché il Figlio stesso), cosicché si consumerebbe/si perderebbe <<l’amore stesso>> cioè Dio stesso in quanto tale!

Ma è lo stesso Sant’Agostino ad indirizzarci sull’interpretazione a mio avviso corretta:

Cristo <<vuole che i suoi siano una sola cosa, ma in lui. Infatti in se stessi ne sarebbero incapaci, disuniti l'uno dall'altro dalle opposte volontà, dalle passioni, dalle immondezze dei peccati. Per questo sono purificati dal Mediatore per essere una sola cosa in lui, non solo nell'unità della natura, nella quale da uomini mortali diventano uguali agli Angeli, ma anche per l'identità di una volontà che cospira in pieno accordo alla medesima beatitudine, fusa in qualche modo in un solo spirito dal fuoco della carità>> (412, 95-97).

Divenendo <<uguali agli Angeli>>, NON perdiamo l’individualità ( = la distinzione) ma la MORTALITÀ, giacché gli Angeli NON sono Dio. Per cui, divenendo <<uguali agli Angeli>> NON diveniamo uguali a Dio, ma saremo comunque <<una sola cosa in lui […] nell'unità della natura>>.   

Ugualmente, ritrovandoci ad essere <<una sola cosa, ma in lui>>, NON perdiamo l’individualità, bensì la DISUNITÀ scaturente <<dalle opposte volontà, dalle passioni, dalle immondezze dei peccati>>, sì che il <<Mediatore>> ci PURIFICHI da tutto ciò ma sempre senza perdere alcun tratto personale.

Tutto questo, per quanto riguarda il supporto ermeneutico che Sant’Agostino avrebbe dovuto apportare all’<<ipotesi>> avanzata dal prof. Aldo Stella.

Invece, per un’analisi strettamente metafisica, un prossimo post…

 

Roberto Fiaschi

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venerdì 9 maggio 2025

176)- DAVVERO «L'ATEISMO NON È UNA RELIGIONE»?

Rieccomi qua con un altro post (il terzo, per la precisione) sulle tesi di Lillo Paris Bobigny di cui i due precedenti commenti sono reperibili ai nn. 174 e 175.

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Il titolo del suo pezzo è:

<<L'ATEISMO NON È UNA RELIGIONE: SMASCHERARE L’OSSIMORO DELLA "RELIGIONE ATEA">>

Eccolo:

<<Definire l’ateismo come una religione è un esercizio di acrobazia retorica che regge solo finché si resta nel vago, nel caricaturale o nel polemico. Non appena si entra nel merito, però, il concetto implode. Perché l’ateismo, nella sua accezione più basilare e rigorosa, non è altro che la semplice assenza di credenza in una o più divinità. Non un sistema filosofico, non una dottrina morale, non una fede alternativa: solo un rigetto, o una sospensione del consenso, nei confronti dell’affermazione “Dio esiste”. Tutto il resto – dal razionalismo all’umanesimo laico, dallo scientismo al materialismo – può accompagnarsi all’ateismo, ma non lo definisce. L’equivoco nasce da un uso improprio del termine “religione”. Tradizionalmente, una religione si fonda su almeno tre pilastri: il riferimento a un principio trascendente o soprannaturale, un insieme codificato di credenze (i dogmi), e una pratica rituale o comunitaria. Nessuna di queste caratteristiche si applica all’ateismo in quanto tale. Non c’è dogma, perché non c’è verità rivelata. Non c’è trascendenza, perché manca l’oggetto trascendente. Non ci sono riti, se non quelli parodici e autoironici di qualche gruppo goliardico come la “Chiesa del Mostro di Spaghetti Volante”, nata per dimostrare l’assurdità dell’insegnamento del creazionismo nelle scuole statunitensi. Chi sostiene che l’ateismo sia una religione, spesso lo fa con intento polemico: per suggerire che anche gli atei abbiano una "fede", e quindi non siano più razionali o fondati dei credenti. Ma questo è un falso simmetrico. Credere in qualcosa senza prove è una scelta attiva; non credere in qualcosa in assenza di prove non è “credere al contrario”, ma semplicemente astenersi dal dare credito a un’ipotesi non corroborata. È come non credere all’esistenza di unicorni, fate o draghi: non serve fede per dubitare di ciò che non ha evidenza. Un altro malinteso frequente è legato alla presunta “militanza” di alcuni atei. Se una persona difende con passione la scienza, la razionalità o i diritti umani, non sta fondando una religione, né agendo da "devoto del razionalismo". Sta difendendo metodi o valori che sono, per loro natura, falsificabili, autocorrettivi, sottoponibili a critica. Al contrario, la religione si fonda su verità per definizione non negoziabili, perché rivelate da un’autorità trascendente. L’epistemologia scientifica è, in tal senso, esattamente l’opposto del dogmatismo: ogni affermazione è valida solo finché regge alla prova dei fatti. Si potrebbe obiettare che anche tra gli atei esistano visioni del mondo strutturate, comunità organizzate, eventi collettivi o addirittura cerimonie “laiche” – come i funerali umanisti o i matrimoni civili celebrati con una certa solennità. Ma la presenza di una ritualità non implica automaticamente una religione, così come una squadra di calcio non diventa un culto solo perché ha i suoi cori, i suoi simboli e i suoi “santi” in maglietta numero 10. Una comunità non è una chiesa solo perché ha una struttura; ciò che la definisce è il tipo di autorità su cui si fonda. E in una comunità laica o atea, nessuno invoca la volontà divina o un ordine soprannaturale. Si cita talvolta, in chiave di confronto, l’esistenza di religioni prive di divinità, come certe correnti del buddhismo o del taoismo. Ed è vero: esistono religioni non teistiche. Ma queste restano religioni proprio per via della dimensione rituale, spirituale o mistica, per la loro visione ciclica del tempo, per il senso di sacro attribuito alla realtà. L’ateismo, per sua definizione, non contempla alcuna dimensione sacra o metafisica. Non offre redenzione, né rivelazione, né illuminazione. Non pretende risposte ultime, ma lascia spazio a interrogativi aperti. Infine, va riconosciuto che alcune persone che si dichiarano atei adottano posizioni fortemente identitarie, a tratti settarie. Ma anche questo non prova nulla: ogni gruppo umano può degenerare in tribalismo, anche una comunità scientifica o politica. L’errore sta nel confondere la sociologia con la filosofia: il fatto che certi atei si comportino come se avessero una “fede” non trasforma l’ateismo in fede, così come un fanatico della medicina non trasforma l’evidence-based medicine in superstizione. Il termine “religione atea” resta dunque un ossimoro: un gioco retorico che tradisce più il bisogno di screditare l’avversario che la volontà di capirlo. È un’arma polemica, non un concetto serio. Chi la usa confonde l’oggetto con la sua negazione, l’affermazione con la sospensione, la credenza con il dubbio. E se la religione implica, come etimologicamente suggerisce, il “legarsi” a qualcosa di superiore, l’ateismo è esattamente il gesto contrario: il rifiuto di legarsi a ciò che non si può dimostrare. LPB Lillo Paris Bobigny>>.

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Vediamo passaggio per passaggio.

Secondo LPB, <<l’ateismo, nella sua accezione più basilare e rigorosa, non è altro che la semplice assenza di credenza in una o più divinità. Non un sistema filosofico, non una dottrina morale, non una fede alternativa: solo un rigetto, o una sospensione del consenso, nei confronti dell’affermazione “Dio esiste”. Tutto il resto – dal razionalismo all’umanesimo laico, dallo scientismo al materialismo – può accompagnarsi all’ateismo, ma non lo definisce>>.

Ad un’analisi un po’ più accurata, l’ateismo NON è <<solo un rigetto, o una sospensione del consenso, nei confronti dell’affermazione “Dio esiste”>>.

Dietro a tale <<rigetto>> vi è quasi sempre una serie di apporti ulteriore al semplice <<rigetto>>.

Tali apporti si esplicano, infatti, nelle motivazioni addotte al fine di rigettare l’<<affermazione “Dio esiste”>> o affermare: <<l’ateismo non è una religione>>.

Tali motivazioni possono esser le più svariate ed hanno la fatale tendenza a tramutarsi in DOGMI laici (vedi sotto).

Ma leggiamo ancora LPB:

<<L’equivoco nasce da un uso improprio del termine “religione”. Tradizionalmente, una religione si fonda su almeno tre pilastri: il riferimento a un principio trascendente o soprannaturale, un insieme codificato di credenze (i dogmi), e una pratica rituale o comunitaria. Nessuna di queste caratteristiche si applica all’ateismo in quanto tale. Non c’è dogma, perché non c’è verità rivelata. Non c’è trascendenza, perché manca l’oggetto trascendente. Non ci sono riti, se non quelli parodici e autoironici di qualche gruppo goliardico come la “Chiesa del Mostro di Spaghetti Volante”, nata per dimostrare l’assurdità dell’insegnamento del creazionismo nelle scuole statunitensi>>.

Vediamo chi usa IMPROPRIAMENTE il <<termine “religione>>.

Esso <<deriva dal latino relìgio, la cui etimologia non è del tutto chiarita. Il verbo religere (dal latino religāre) significa legare, ossia legarsi a principi e/o valori>> (https://it.wikipedia.org/wiki/Religione#cite_note-3).

LPB RESTRINGE arbitrariamente il significato di “religione”, confinandolo unicamente in quel che egli, qui sopra, ha chiamato i <<tre pilastri>>.

Eppure, tra quei <<principi e/o valori>> ai quali <<legarsi>>, spiccano senza dubbio anche <<principi e/o valori>> LAICI, per cui la sua indebita restrizione del significato del termine “religione” pare finalizzato a marcare un ABISSO che separi la “religione” dall’ateismo.

Vediamo dunque il primo <<pilastro>>:

la religione si riferirebbe <<a un principio trascendente o soprannaturale>>;

è vero che all’ateismo <<manca l’oggetto trascendente>>, ma questo NON è sufficiente per escludere che esso sia una religione, perché solitamente anche l’ateo più distratto non potrà non esser LEGATO ad un determinato sistema di <<principi e/o valori>> che perciò, come tali, fanno di lui un religioso (un LEGATO), seppur non nei confronti di <<un principio trascendente o soprannaturale>>. Ma l’assenza del trascendente/soprannaturale importa ben poco, dal momento che LPB, già dal titolo: <<L'ATEISMO NON È UNA RELIGIONE>>, si prefigge appunto di negare che l’ateismo sia una religione

Per quanto concerne il secondo pilastro ovvero <<un insieme codificato di credenze (i dogmi)>>, direi che NON sia propriamente così, infatti, innumerevoli volte ho avuto modo di constatare come TUTTI gli atei con i quali sono venuto in contatto, costellassero i propri discorsi con riferimenti (per loro) INDISCUTIBILI, INTOCCABILI, quasi SACRI, quindi veri e propri DOGMI laici che ormai campeggiano come mantra sulla bocca di tutti, quali ad esempio:   

“la LOGICA impone di negare la contraddittorietà delle affermazioni cristiane”;

“la SCIENZA dimostra, la fede no”;

“la RAGIONE nega ciò che è indimostrabile”;

“gli scienziati hanno DIMOSTRATO che…”;

“la maggior parte degli SCIENZIATI è atea”;

“la TEORIA DELLEVOLUZIONE darwiniana ha dimostrato che…”;

“la Bibbia è IRRAZIONALE”,

etc…

Quanto al terzo pilastro: <<una pratica rituale o comunitaria>>, ebbene, anche qui non è propriamente vero.

La notissima associazione UAAR, cioè l’“Unione degli atei e degli agnostici razionalisti”, ha affermato che anche l’ateismo è una religione

<<l’UAAR si interpreta come religione>>

<<l’ateismo non potrebbe nemmeno essere distinto dalla religione>>.

Essa ha altresì espresso il <<soddisfacimento del bisogno religioso dell’ateo>> il quale <<si manifesta nella critica alle religioni>> (vedi qui -> https://www.uccronline.it/wp-content/uploads/2016/04/UAAR-Ricorso-al-Capo-dello-Stato.jpg).

E come ogni religione, anche l’UAAR possiede una sua PRATICA <<comunitaria>> come ad esempio ATTIVITÀ DI PROSELITISMO (sbattezzo, riviste, etc…) in varie città d’Italia, appiccicando i loro cartelloni un po’ ovunque.




Pertanto, direi che i tre pilastri esposti da LPB per dimostrare che l’ateismo non sia una religione MANCANO il bersaglio.

Ancora LPB:

<<Chi sostiene che l’ateismo sia una religione, spesso lo fa con intento polemico: per suggerire che anche gli atei abbiano una "fede", e quindi non siano più razionali o fondati dei credenti. Ma questo è un falso simmetrico. Credere in qualcosa senza prove è una scelta attiva; non credere in qualcosa in assenza di prove non è “credere al contrario”, ma semplicemente astenersi dal dare credito a un’ipotesi non corroborata. È come non credere all’esistenza di unicorni, fate o draghi: non serve fede per dubitare di ciò che non ha evidenza>>.

Nessun <<intento polemico>> perché, che anche gli atei <<abbiano una "fede">>, è un dato antropologico difficilmente discutibile.

Non importa che egli NON CREDA <<all’esistenza di unicorni, fate o draghi>>; quel che importa è che, comunque, egli NON possa MAI prescindere da una qualche forma di FEDE/CREDENZA.

La nostra vita è costantemente sorretta da atti di FEDE più o meno consapevoli, poiché il futuro che ci sta dinanzi è per definizione ignoto, per cui ogni nostro progetto esistenziale, per quanto a corto raggio sia, presuppone il CREDERE che esso troverà soddisfazione nel suo realizzarsi ancora futuro, quindi, soddisfazione non immediatamente EVIDENTE né immediatamente (o forse mai) DIMOSTRABILE.

È sì vero che un qualsiasi nostro progetto non venga solitamente affrontato ciecamente ma ponderato sulla base di ciò che già conosciamo e che prevediamo possa aiutarci a conseguirlo.

Ma questo NON TOGLIE che il risultato voluto/sperato NON sia affatto garantito a priori, ed è per tale incertezza che la FEDE è il costante substrato senza la quale non faremmo neppure un passo…

Torniamo a LPB:

<<Credere in qualcosa senza prove è una scelta attiva; non credere in qualcosa in assenza di prove non è “credere al contrario”, ma semplicemente astenersi dal dare credito a un’ipotesi non corroborata. È come non credere all’esistenza di unicorni, fate o draghi: non serve fede per dubitare di ciò che non ha evidenza>>.

Solo APPARENTEMENTE vero.

Infatti, il <<non credere in qualcosa [unicorni, fate o draghi] in assenza di prove>> implica di per sé la FEDE che in assenza di prove, tale <<qualcosa>> NON esista.

Così come l’<<astenersi dal dare credito a un’ipotesi non corroborata>>, implica la FEDE che <<a un’ipotesi non corroborata>> NON si debba dare credito, mentre, invece, potremmo benissimo (ed il più delle volte lo facciamo) dare credito anche a ciò che non sia stato corroborato.

Ad esempio, l’<<astenersi dal dare credito>> all’esistenza di Dio sol perché essa non sarebbe <<un’ipotesi non corroborata>>, significa CREDERE che finché tale esistenza non venga corroborata, Dio non esiste.

LPB ribatte:

<<non serve fede per dubitare di ciò che non ha evidenza>>;

certo, ma serve FEDE per concludere l’inesistenza <<di ciò che non ha evidenza>>.

Ancora LPB:

<<Un altro malinteso frequente è legato alla presunta “militanza” di alcuni atei. Se una persona difende con passione la scienza, la razionalità o i diritti umani, non sta fondando una religione, né agendo da "devoto del razionalismo". Sta difendendo metodi o valori che sono, per loro natura, falsificabili, autocorrettivi, sottoponibili a critica. Al contrario, la religione si fonda su verità per definizione non negoziabili, perché rivelate da un’autorità trascendente. L’epistemologia scientifica è, in tal senso, esattamente l’opposto del dogmatismo: ogni affermazione è valida solo finché regge alla prova dei fatti>>.

Qui abbiamo un minestrone ove egli mescola cose diverse facendo accostamenti che non stanno né in cielo né in terra.

Parlando di religione, LPB continua a tirare in ballo (vedi anche il post n° 174) l’<<epistemologia scientifica>> nella quale <<ogni affermazione è valida solo finché regge alla prova dei fatti>>, credendo così di sminuire la religione sol perché essa esula dall’orizzonte immanentistico in quanto attiene al FONDAMENTO e quindi al SENSO dell’esserci…

Si cimenta nell’APOLOGIA della scienza e della razionalità senza però rendersi conto di brandire scienza e razionalità come armi ideologiche per sorreggere un castello ‘metafisico’ di pregiudizi previamente orientati in senso immanentistico/ateistico.

Già il fatto che egli abbia redatto un post come questo dimostra chiaramente come la sua ‘difesa’ dei <<metodi o valori che sono, per loro natura, falsificabili, autocorrettivi, sottoponibili a critica>> sia tale da rappresentare una DIFESA nei confronti di ciò che non rientra nella mai definitiva <<prova dei fatti>>, salvo poi dimenticarsi che ANCHE internamente alla scienza (nonché alla filosofia) vi troneggiano i suoi bravi DOGMI come quelli accennati sopra e che ogni buon ateo non manca mai di snocciolare ad ogni piè sospinto, alla faccia del presunto anti-dogmatismo laico/ateistico

Proseguiamo ancora un po’.

LPB:

<<Si potrebbe obiettare che anche tra gli atei esistano visioni del mondo strutturate, comunità organizzate, eventi collettivi o addirittura cerimonie “laiche” – come i funerali umanisti o i matrimoni civili celebrati con una certa solennità. Ma la presenza di una ritualità non implica automaticamente una religione, così come una squadra di calcio non diventa un culto solo perché ha i suoi cori, i suoi simboli e i suoi “santi” in maglietta numero 10. Una comunità non è una chiesa solo perché ha una struttura; ciò che la definisce è il tipo di autorità su cui si fonda. E in una comunità laica o atea, nessuno invoca la volontà divina o un ordine soprannaturale>>;

poco cambia, perché <<in una comunità laica o atea>> verranno invocati altri <<principi e/o valori>> ai quali i suoi componenti saranno ad essi LEGATI da un vincolo non dissimile da quello religioso.

L’esempio ce lo fornisce lo stesso LPB dove scrive che <<una squadra di calcio non diventa un culto solo perché ha i suoi cori, i suoi simboli e i suoi “santi” in maglietta numero 10>>.

Ed invece sì, se si evita di RESTRINGERE indebitamente <<un culto>> alla sola entità trascendente, giacché un atteggiamento religioso RESTA TALE anche in assenza di trascendenza, come è ben evidenziato in ambito calcistico ove si sprecano i continui riferimenti alla religiosità tradizionale.

Giocatori assurti oramai a IDOLI onnipresenti e visti come i salvatori della squadra del cuore e della vetta in classifica; non a caso si parla di SALVEZZA…

Inoltre, chiunque avrà avuto modo di incrociare per strada persone che vestono (legittimamente) la maglietta (o sciarpa, cappellino…) della propria squadra a guisa di ‘portafortuna’ o di segnale ‘identitario’, squadra verso la quale è esplicita la dichiarazione di FEDE in essa.

Come ‘catechismo’ per i più piccoli non mancano neppure i ‘santini’, ossia le figurine dei calciatori; per non parlare dei laicissimi scontri violenti tra FEDI-religioni calcistiche diverse… 

LPB:

<<Una comunità non è una chiesa solo perché ha una struttura>>;

etimologicamente sì, è anch’essa una CHIESA ( = <<nel gr. classico κκλησία, der. di κκαλέω «chiamare», significa «adunanza, assemblea»>>  https://www.treccani.it/vocabolario/chiesa/); LAICA quanto si vuole ma è comunque un’<<κκλησία>>, cambia soltanto il ‘dio’ di riferimento, trascendente o immanente, ma sempre di religione trattasi…

Ciò è confermato dallo stesso LPB, dove osserva:

<<va riconosciuto che alcune persone che si dichiarano atei adottano posizioni fortemente identitarie, a tratti settarie. Ma anche questo non prova nulla: ogni gruppo umano può degenerare in tribalismo, anche una comunità scientifica o politica. L’errore sta nel confondere la sociologia con la filosofia: il fatto che certi atei si comportino come se avessero una “fede” non trasforma l’ateismo in fede, così come un fanatico della medicina non trasforma l’evidence-based medicine in superstizione>>.

Invece, <<il fatto che certi atei si comportino come se avessero una “fede”>> ATTESTA che nemmeno loro possono evitar di esternare una qualche forma di FEDE soggiacente al loro sentire ed al loro vivere.

Egli, furbescamente, chiama ciò: DEGENERAZIONE tribalistica ciò che invece è un tratto universale presente in ogni cultura di ogni epoca:

<<Se tu percorrerai la terra, potrai trovare città senza mura, senza lettere, senza re, senza case, senza ricchezze, senza monete, senza teatri e palestre; ma nessuno vide mai né mai vedrà una città senza templi e senza dèi>>.

Plutarco, Adversus Colotem XXXI, 4-5. 

Così conclude LPB:

<<Il termine “religione atea” resta dunque un ossimoro: un gioco retorico che tradisce più il bisogno di screditare l’avversario che la volontà di capirlo. È un’arma polemica, non un concetto serio. Chi la usa confonde l’oggetto con la sua negazione, l’affermazione con la sospensione, la credenza con il dubbio. E se la religione implica, come etimologicamente suggerisce, il “legarsi” a qualcosa di superiore, l’ateismo è esattamente il gesto contrario: il rifiuto di legarsi a ciò che non si può dimostrare>>.

S’è però visto come sia stato proprio LPB ad aver RISTRETTO il significato di <<religione>> alla sola trascendenza/Dio.

Infatti, come visto, il <<termine “religione atea”>> è riconosciuto persino dall’UAAR ed è comunque intrinseco nella stessa dinamica con la quale l’ateismo diviene un impegno ed un compito quotidiano per coloro che intendono testimoniarlo con tanto di associazioni, proselitismo, numerosissime pagine Facebook (e video YouTube) pervicacemente dedicate ad esso.

Lo stesso LPB riconosce che <<la religione implica, come etimologicamente suggerisce, il “legarsi” a qualcosa di superiore>>, salvo, poi, cercare inutilmente di smarcarsi dall’evidenza secondo la quale ANCHE l’ateo è comunque LEGATO <<a principi e/o valori>> nonché a IDOLI che lo TRASCENDONO in quanto universali e sempiterni e che perciò ne fanno, etimologicamente, un religioso.

Per cui è ingenuo dichiarare:

<<l’ateismo è esattamente il gesto contrario: il rifiuto di legarsi a ciò che non si può dimostrare>>,

perché <<il rifiuto di legarsi a ciò che non si può dimostrare>> NON corrisponde al rifiuto di LEGARSI tout court, ed è questo LEGARSI che fa ANCHE dell’ateismo una religione, con buona pace di LPB…

 

 Roberto Fiaschi

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