martedì 28 febbraio 2023

34)- VOLONTÀ E SALVEZZA

Severino, tramite i suoi scritti, vuole salvarci da ogni volontà di salvezza e quindi <<dai salvatori>>, con-fidando nella (af-fidandosi alla) volontà del destino che vuole l’apparire dell’<<eternità di tutte le cose>> quale autentica salvezza dalla volontà nichilistica di salvezza.

Il che significa che il destino vuole salvarci anche dalla volontà di Severino il quale vorrebbe salvarci dalla volontà di salvezza nonché <<dai salvatori>>, perché _ a rigor di logica _ anche la volontà di salvezza <<dai salvatori>> espressa da Severino è <<una forma nascosta di violenza>>.

Scrive Severino:

<<[…] ogni volontà salvifica è dunque una forma nascosta di violenza – come ogni volontà “creatrice”. Nessun creatore e nessun salvatore ci può salvare. Ma non perché la salvezza debba essere cercata altrove, ma perché il concetto stesso di salvezza - così come esso si presenta lungo la storia dell’Occidente – è nella sua essenza violenza, cioè volontà di trasformare il mondo, e quindi volontà che vuole l’impossibile. Se invece “salvezza” significa l’apparire dell’esser liberi dalla volontà – e questo esser liberi può apparire solo in quanto appare l’eternità di tutte le cose (e dunque anche l’eternità di questa libertà) -, allora la “salvezza” “salva” dai salvatori e dai creatori>> - (Oltre il linguaggio; pag. 26).

La (presunta!) violenza da parte di <<ogni volontà salvifica>> consisterebbe, perciò, nella <<volontà di trasformare il mondo>>.

Per cui anche Severino, volendo annunciarci nel suddetto testo la salvezza che <<“salva” dai salvatori>>, vuole <<trasformare>> (l’opinione, la convinzione di) quella parte di mondo consistente in coloro che leggeranno il suddetto brano affinché prendano coscienza che <<ogni volontà salvifica è dunque una forma nascosta di violenza>>.

Sì che, mettendoci in guardia dalla violenza di <<ogni volontà salvifica>>, Severino ci stia mettendo in guardia da Severino, cioè dalla sua stessa violenta volontà di scrivere/annunciare la salvezza <<dai salvatori>>.

Non solo, ma a monte, anche la volontà del destino di inviare la notizia _ tramite la violenta volontà degli scritti di Severino _ secondo la quale l’autentica salvezza è comunicata attraverso la volontà che i suoi scritti siano una testimonianza del destino, anche tale volontà del destino, dicevo, è violenta in quanto <<vuole l’impossibile>>, perché vuole inviare il proprio annuncio di autentica salvezza ad una violenta volontà empirica ( = Severino) che perciò <<vuole l’impossibile>> proprio dichiarando nei suoi scritti di volerci salvare dalla volontà di salvezza nonché <<dai salvatori>>.

Giacché è chiaro: se la volontà empirica ( = Severino) <<vuole l’impossibile>>, e se il destino vuole che la volontà di Severino voglia l’impossibile (cioè voglia annunciare la salvezza <<dai salvatori>>), allora è ovvio come anche la volontà del destino sia violenta in quanto vuole l’impossibile, appunto perché essa vuole che una volontà empirica ( = Severino) voglia quell’impossibile consistente nel voler trasformare la coscienza altrui da inconsapevole qual è della violenza di ogni forma di volontà salvifica a consapevole della medesima violenza.

 

Roberto Fiaschi

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sabato 25 febbraio 2023

33)- P. DE BERNARDI: LA MISTIFICAZIONE DEL SOGGETTO CHE NON C’È…

Riporto questo brano del prof. Paolo De Bernardi, il quale coglie molto bene uno dei tanti terribili limiti della filosofia (Severino, Heidegger...) qualora riduca la rilevanza del <<Soggetto>> ad ente che appare insieme ad altri enti senza esser, perciò, colui a cui qualcosa appare:

<<Espressioni come: “orizzonte dell’apparire”, vengono adottate al fine di evitare di dire che se qualcosa appare, appare a qualcuno o Soggetto. Dire “orizzonte del significare” è perifrasi per evitare di dire che i significati significano per qualcuno o Soggetto. Tutti questi “orizzonti”, così ricorrenti nelle loro opere, stanno ad indicare, presso questi autori, la pretesa di impostare delle ontologie come se il Soggetto non ci fosse. Perciò tali opere si collocano agli antipodi della hegeliana Fenomenologia dello SpiritoMa nel contesto di un’ontologia pura, che metodicamente ha escluso la questione della Soggettività, e che quando non se ne può fare a meno si inventa gli “orizzonti” del significare e dell’apparire (Heidegger), nella pretesa che possa darsi un apparire e un significare senza che vi sia un Soggetto cui è dato questo significare e apparire, ecc – ebbene, in questo contesto, cercare di avvalersi della Aufhebung [togliere/conservare] per trarsi fuori dalla questione “nulla”, è mistificazione, anzi, “concreta automistificazione” (per usare lo stesso linguaggio del Nostro [Hegel])>>.

P. De Bernardi

(Parentesi quadre mie: RF)

Vedasi anche post n° 3.

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mercoledì 22 febbraio 2023

32)- LA FEDE È ERRORE?

 

Vige, in alcuni ambiti filosofici, la convinzione che la fede, in quanto tale, sia errore tout court, quindi avente un contenuto impossibile.

Propongo un esempio empirico tratto dalla vita di tutti i giorni.

Il giorno ‘x’ dovrò sottopormi ad una rischiosa operazione chirurgica; può accadere a chiunque, prima o poi.

L’esito positivo _ la mia sopravvivenza _ è ciò in cui credo ( = fides quae creditur) ma che, proprio per questo, attualmente non appare, cioè non è affatto evidente.

La probabilità di riuscita dell’operazione è pari alla probabilità che non mi risvegli dall’operazione, essa infatti può fallire.

Devo scegliere, devo decidermi se operarmi o meno, e così scelgo di sottopormi all’operazione (sbloccando perciò una situazione di stallo, equipotente tra fede e dubbio in favore della fede) perché adesso credo/ho fiducia che ciò che attualmente non appare, ossia l’esito positivo dell’operazione apparirà, accadrà.

Sebbene ora io sia pervenuto alla fede/fiducia nella sua riuscita e creda che risponda a verità il fatto che tornerò a casa con le mie gambe, l’esito positivo dell’operazione quale oggetto (fides quae) di tale fiducia (fides qua) non appare, essendo l’operazione ancora futura, per cui, ripeto, l’esito creduto e sperato non è affatto una verità evidente e incontrovertibile: in sé, costitutivamente, esso è negabile, quindi, sempre secondo Severino, è non-verità, errore, è perciò oggetto di fiducia privo di evidenza nonché di fondamento incontraddittorio che, in quanto tale, sarebbe perciò inseparabile dall’ombra del dubbio (che io possa non risvegliarmi)…

Perciò la fiducia/fede ( = fides qua creditur) mi fa dire che sopravvivrò all’operazione, senza che tale sopravvivenza sia un’evidenza.

Ripeto, pur essendo possibile che l’operazione fallisca (e quindi che l’esito sperato si riveli un errore), giacché l’oggetto della fides qua, ossia la riuscita dell’operazione (fides quae) non è una verità (o una realtà) evidente incontrovertibile, per alcuni filosofi (Severino), ogni, qualsiasi verità (realtà) non-evidente e non-incontraddittoria è fede cioè sempre errore.

…Il fatidico giorno ‘x’ è passato, e con esso l’operazione.

Oggi, giorno ‘y’, sono vivo e vegeto, l’operazione si è conclusa positivamente, con successo.

La mia fede/fiducia (fides qua) che mi ha indirizzato nelle mani del chirurgo non è stata una fede commista al dubbio (altrimenti starei ancora decidendo sul da farsi) ma soltanto fede, cosicché il dubbio, da un certo punto in poi non ha più avuto luogo dove sostare.

Ho così avuto fiducia che ciò che ancora non appariva (l’esito dell’operazione) apparisse già (appunto nella fede) positivo anziché negativo.

Ho cioè assunto (utilizzo le stesse parole di Severino):

<<come indubitabile il dubitabile, come certo l’incerto, come visibile l’invisibile, come chiaro l’oscuro>>.

Per meglio dire:

- ciò che nel dubbio appariva <<dubitabile>>, nella fede appariva già senza dubbio reale;

- ciò che appariva <<incerto>>, nella fede appariva già <<certo>>;

- ciò che appariva <<invisibile>>, nella fede appariva già <<visibile>>;

- ciò che appariva <<oscuro>>, nella fede appariva già <<chiaro>>;

- ho trattato ciò che non appariva come se già apparisse!

Incontrovertibilmente?

No, perché l’operazione poteva fallire.

Ciò nonostante, apparendo la fiducia nell’esito positivo, non appariva il dubbio nel medesimo esito positivo!

Dunque non è vero che il dubbio sia inscindibile dalla fede.

Pertanto, in questa fede, qualcuno è forse in grado di scorgervi il sia pur minimo errore o contraddizione?

 

Roberto Fiaschi

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31)- L’ETERNA VIOLENZA DEL DESTINO SEVERINIANO

 

Riporto alcune brevi affermazioni di Severino:

<<Ma la verità è verità solo in quanto non è qualcosa di imposto alla coscienza. Prima ancora di essere violento con gli altri, imponendo loro la sua verità, il credente di qualsiasi tipo è violento con se stesso: credendo nella verità della propria fede, impone alla propria coscienza qualcosa che, appunto perché imposto, cioè voluto e voluto come vero, non può essere verità. […] La verità autentica – che non è né nociva né innocente – non soffoca e non annienta la non verità: la lascia assolutamente libera, non le impone alcunché; e scorge che in questa sua libertà assoluta la non verità è autonegazione, ossia essa stessa presuppone, proprio in quanto essa è non verità, la verità che vorrebbe negare; ed è appunto e solo per questo carattere di autonegazione, essenzialmente posseduto dalla non verità, che la verità è negazione della non verità>>  - E. Severino, Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli.

A Severino neppure sfiora l’idea che un certo contenuto di fede possa essere accolto ( = creduto) con gioia, con amore, con trepidazione, etc… senza che ciò implichi una qualche forma d’imposizione <<alla propria coscienza>>.

La coscienza è accoglienza indiscriminata per definizione, direi quasi, uno specchio che accoglie ciò che vi si pone ‘dinanzi’, giacché essa è ciò mediante cui di volta in volta  qualcosa è esperito, noto, con-saputo, e per esser così noto, con-saputo ed esperito, tale qualcosa deve prima di tutto venir in essa accolto, ossia la coscienza deve averne consapevolezza, salvo poi, nella vita dell’individuo, procedere coi propri assensi ed i propri rifiuti. 

Perciò parlare di fede che si <<impone alla propria coscienza>> è un perfetto non-senso,

nemmeno se tale presunta imposizione coincidesse con l’esser <<voluto e voluto come vero>>, perché ciò che è voluto (desiderato, amato, atteso…) non è mai imposto alla propria coscienza, bensì da questa è accolto e conservato, il che rappresenta una differenza abissale…

inoltre, sempre riguardo al <<voluto e voluto come vero>>, vi è da dire che, nemmeno in questo caso, si scorge una qualche imposizione, poiché ciò che accolgo (quindi ciò che credo) come <<vero>>, è ciò che non si lascia dimostrare razionalmente confutare, ma solo di essere accolto.  

Per cui ciò che chiede di essere accolto non chiede di imporsi, ripeto, ma di essere ricevuto…

Severino vede tutto soltanto in termini di imposizione e di violenza, giacché per lui tutto è violenza (come s’è già avuto modo di constatare nel post n° 14), anche l’amore, e nonostante per lui tutto sia violenza tranne il (suo) destino, bisognerà invece dire che tutto è violenza compreso (e soprattutto) il (suo) destino, giacché la violenza è tale soltanto grazie al destino, cioè in forza della sua ‘legge’ secondo la quale ogni ente è identico a sé e differente dal proprio altro.

Legge che perciò eternizza ogni dolore, ogni imposizione, ogni sofferenza in nome dell’inviolabilità ontologica del proprio esser ente identico a sé.

Fondamentale è appurare come l’autentica e non-annientabile violenza che Severino attribuisce alla fede (ma poi ad ogni/qualsiasi altro essente o positivo significare del nulla, costituente tutto il mondo del mortale) sia innanzitutto da ascrivere, compretamente e senza residui, proprio al destino severiniano.

Esso, infatti, è il solo ed autentico violento, giacché annovera in sé come parte imprescindibile di sé la violenza (in tutte le sue individuazioni), seppur destinata ad esser oltrepassata (ma eternamente conservata come violenza inviolabile cioè non-annientabile).

Non solo la violenza è un ente (o un insieme di enti) eterno, ma altresì il destino la invia nel cerchio originario dell’apparire (cioè la invia all’essenza di ciò che ognuno di noi sarebbe, sempre secondo Severino) ove appunto essa si squaderna nelle innumerevoli forme di violenza/sofferenza delle quali siamo tutti perfettamente quanto dolorosamente coscienti.

Pertanto il primo ed il solo responsabile di ogni forma di violenza da noi esperita non può che essere il destino severiniano.

Essendo perciò parte eterna ed incancellabile del destino, ha ben poco senso affermare che <<La verità autentica – che non è né nociva né innocente – non soffoca e non annienta la non verità: la lascia assolutamente libera, non le impone alcunché>>, giacché la <<verità autentica>> (severiniana) è tale proprio perché nega l’errore e la violenza senza annullarli, cosicché la violenza (nelle vesti eufemistiche dell’ ‘errore’) sia eternamente necessaria alla verità severiniana cosiddetta non-violenta (perché, come recita il brano di Severino posto all’inizio del post, essa non si imporrebbe, a differenza della fede)…

Per scagionare la verità dall’esser violenza, Severino precisa:

<<ed è appunto e solo per questo carattere di autonegazione, essenzialmente posseduto dalla non verità, che la verità è negazione della non verità>>.

Dunque, a dire di Severino, la verità non sarebbe violenta giacché è la non-verità ad infliggersi la propria negazione.

Ma, in tal caso:

1) se la non-verità fosse auto-negantesi soltanto per conto proprio, cioè senza che tale autonegazione sia operata dalla verità ma soltanto dalla negazione di essa, allora l’auto-negarsi della non-verità non avrebbe nulla a che fare con la verità, giacché in questa evenienza l’auto-negazione della non-verità si costituirebbe come caratteristica tutta interna a sé ( = alla non-verità) la quale, perciò, non avrebbe alcun rapporto con la verità e quindi quest’ultima non potrebbe esser ritenuta oggetto di negazione alcuna, ossia non sarebbe ciò la cui negazione è auto-negazione.

Se a ciò si replicasse osservando che nel termine non-verità ( = nella negazione-della-verità) sia già implicato il rapporto con la verità (cosicché la non-verità abbia relazione con la verità e quindi sia auto-negantesi), allora sarebbe la struttura della verità a far sì che la non-verità si auto-neghi (o che sia da sempre auto-negantesi), per cui sarebbe falso che sia

<<solo per questo carattere di autonegazione, essenzialmente posseduto dalla non verità, che la verità è negazione della non verità>>,

giacché tale <<carattere di autonegazione>> della non-verità è strutturato sulla struttura della verità, per cui, anche qui, il primato dell’imposizione spetta ancora una volta alla (presunta) verità (severiniana) della cui struttura il <<carattere di autonegazione>> della non-verità ne costituisce l’espressione impositivo-violenta.

In effetti, il destino (o la cosiddetta <<verità autentica>>) è ben peggiore della presunta violenza della fede che pure è sua (del destino) eterna figlia.

Infatti, la cosiddetta ‘verità’ del DESTINO non solo si impone violentemente all’errore cui è l’io empirico (il mortale) attraverso il suo ‘nascere’, venendo al mondo senza averlo chiesto, ma tale destino gli s’impone violentemente ( = come vita e quindi gli s’impone alla coscienza) mediante tutta una sconfinata serie di essenti violenti ( = situazioni, accadimenti, malattie, guerre…) e per giunta tutti eterni.

Che poi questa violenza sia soltanto <<un punto>> oltrepassabile nell’infinito Tutto, come dice Severino, poco anzi nulla cambia, giacché laddove la dignità ontologica degli essenti è rinvenuta nella loro eternità, allora anche la violenza, in quanto ente eterno, possiede costitutivamente la stessa dignità ontologica spettante a qualsiasi altro ente.

Un destino eternamente bifronte, ove la violenza, essendo anch’essa eterna, ha il medesimo diritto di cittadinanza della non-violenza o della verità, per cui risulta vano in quanto insensato _ in regime di eternità concernente ogni essente _ discettare sul discrimine tra violenza e non-violenza, laddove entrambe sono necessarie ed eterne:

sarebbe come se il destino severiniano discriminasse da se stesso!

Dunque, la ‘verità severiniana necessita, a livello onto-logico, dell’imporsi di sé sulla non-verità per garantire di essere verità innegabile, così come necessita, a livello ontico-esistenziale, dell’imporsi di quegli errori (inviandoli) a spese dei ‘mortali’, facendo patir loro (imponendogli) quegli eterni violenti da un lato non voluti, dall’altro, invece, a loro stessi eternamente connaturati.  

Pertanto, il destino severiniano rappresenta la quintessenza nonché il non plus ultra della violenza e dell’imposizione, la loro istituzione ontologica, proprio in forza della tesi secondo la quale <<La verità autentica – che non è né nociva né innocente – non soffoca e non annienta la non verità [ = l’errore, il dolore, la violenza, l’imposizione]: la lascia assolutamente libera, non le impone alcunché>>;

la lascia così tanto <<libera>> da imperversare nella sua impossibilità di essere redimibile, eliminabile…

Non solo, ma che la <<verità autentica>> (severiniana) non soffochi e non annienti la non verità ( = l’errore, la violenza) lasciandola <<assolutamente libera>> in quanto <<non le impone alcunché>> non è sostenibile proprio dalla teoresi severiniana, innanzitutto perché nessun essente, nel destino severiniano, è lasciato <<assolutamente liber[o]>>, essendo ognuno di essi connesso a ciascun altro da una ferrea ed inviolabile necessità _ appunto il destino _, e stupisce che Severino ricorra positivamente alla libertà quando torna utile ad una sua tesi e al contempo la neghi quale espressione del nichilismo!

Per cui non solo il destino severiniano non lascia affatto <<libera>> la non-verità, ma, al contrario, la vincola a sé onde potersi confermare _ sul piano logico-speculativo _ come verità innegabile, necessitandogli (al destino severiniano) il necessario gemello eterozigote cui è l’errore/violenza, grazie al quale la verità gli s’impone negandolo ma senza annullarlo, sì che tale errore/violenza permanga eternamente come ciò sul quale s’impone la verità _ altro che errore assolutamente lasciato libero! _, così come a quest’ultimo è strutturalmente (nonché eternamente) imposto di negarsi cioè di subire l’imposizione della verità.

 

Roberto Fiaschi

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sabato 18 febbraio 2023

30)- L’“ANALISTA DELLA PAROLA”: GLI ANIMALI, LE PAROLE E GESÙ

Nel gruppo Facebook: https://www.facebook.com/groups/3073429169539557, alla domanda posta da un utente:

<<osservandoli [i cani] qui sul divano con me, rammentando un’affermazione di Severino che dice che l’uomo è “ il cerchio dell’apparire della necessità eterna del destino” ( citazione a memoria ) … mi chiedo: vale anche per loro [gli animali] di essere il cerchio dell’apparire [la coscienza] della necessità eterna del Destino?>>

l’analista della parola ( = AdP) prontamente risponde:

<<No! Dato che il riferimento è ad un'affermazione di Severino, il quale, ha precisato di riferirla all'essere umano, se ci si chiede se può essere riferita anche all'animale la risposta coerente è no.... Poi si può discutere sull'affermazione e volerla correggere includendo, in tale presupposto "cerchio dell'apparire", anche l'essere animale.... Dopotutto, qualcuno, molto tempo fa, ha paragonato l'essere umano all'animale...anzi, gli ha proprio imposto di essere un animale...e da allora non c'è stato più scampo per nessuno! Ma certo, un conto è discutere in merito a cosa farne degli animali partendo con il prendere le affermazioni di Severino.... Un altro, è farlo prendendo le affermazioni di nomi più blasonati, affermazioni più radicate nel modo comune di affrontare le questioni... Un altro ancora, è farlo partendo proprio da ciò che è necessario affinché esistano tali affermazioni... Certo, se parlo dell'Essere e dico di conoscerlo perché sono un animale intelligente, magari non so neppure che cosa sia l'intelligenza, né dunque, se ho detto una cosa intelligente, eppure, da lì, dal semplice fatto di parlare, comincerò a costruire tutta una serie di teorie per spiegare quello che dico di conoscere dell'Essere.... dunque anche di me stesso. Una cosa arbitraria. Chiunque lo può fare. Differente invece, se parlo di qualcosa, dell'Essere come di qualunque altra cosa, e dico di conoscerlo perché sono un parlante.... È chiaro che, se parlo, sono un parlante prima di tutto. Soltanto dopo di ciò, posso anche definirmi diversamente, ad esempio "essere umano", cioè che proviene dalla terra umida..... (e capisci che siamo a livelli di narrazione religiosa). Come se poi, tale "terra umida" fosse una cosa fissa ed eterna e non, appunto, una congiunzione di significanti, una connessione tra elementi che rinviano l'uno all'altro! Se parlo e non mi riconosco come parlante, significa che non riconosco che, quello che dico, penso e faccio, proviene dalla parola. È inutile che la chiamo "intelligenza" se poi non riconosco quello che faccio quando parlo di intelligenza .... o di qualunque altra cosa. È inutile ai fini conoscitivi.... poi chiaramente è utilissimo per continuare a parlare, per continuare a mettere in atto la parola... la quale non si può arrestare, è sempre in atto, sempre. In un modo, o nell'altro, alla parola non cambia nulla. Cambia, invece, al discorso, cioè alla psiche, appunto. Qualcuno afferma di saper leggere la psiche degli animali.... gente di cui diffidare, ma comunque... tutti costoro, dicendo ciò, affermano dunque che anche l'animale abbia una psiche. Ma sanno che cos'è la "psiche"? Conoscere la psiche significa conoscere la sua definizione? Oppure significa conoscere da dove proviene e cosa la fa funzionare e perché funziona in un modo o nell'altro....? Si fa tanto riferimento agli antichi greci, eppure essi con "psiche" si riferivano esattamente al discorso. Da quando i barbari hanno invaso la Grecia, sono state dette molte fesserie in merito ai parlanti e alla parola, al logos, all'essere. C'è molto da rivedere, ma si tratta di un'operazione molto scomoda per taluni.... Molte persone riversano sull'animale le proprie aspettative di parlanti inconsapevoli di sé....si aspettano che l'animale sia consapevole di loro, più di quanto lo siano loro stessi....si aspettano quella comprensione che non trovano dentro di sé...e ci credono fermamente... è come quando sei convinto che una cosa porti fortuna o sfortuna, se ci credi, quando ottieni quella cosa il tuo stato psichico cambia... Perché il tuo discorso ha trovato la conclusione che attendeva. Però ecco, con l'animale la cosa risulta facile...con il parlante invece è estremamente più complicato, per quello poi ci si riversa sugli animali, i cagnolini, o i gattini, che per carità, io li adoro i micetti, però ecco, non ho bisogno di fare tanta psicanalisi sugli animali per accorgermi che non sono parlanti..... Sempre ammesso che, "parlare", non sia semplicemente l'emissione di suoni verbali e vocalizzi.... come invece viene considerato da molti parlanti, da quali, dunque, non è che ci si possa aspettare grandi discorsi, grandi ragionamenti, tantomeno in merito a questioni delicate come l'Essere, o come l'etica, o come l'intelligenza, o come la psiche... Noi siamo parlanti. Per questo Severino e compagnia bella hanno detto quelle cose. Mica perché sono animali.... No, no! Proprio perché sono parlanti! Gli animali non sono parlanti. Punto! Non c'è la psiche animale, perché non c'è il discorso animale... C'è soltanto il discorso del parlante inconsapevole e, dunque, irresponsabile. E c'è il discorso dell'analista della parola. Non si può neppure stare a discutere con chi dice di parlare con gli animali.... è come chi dice di parlare con gesù, dio, gli angeli e l'amico invisibile. Tutto parla per gli umani.... tutto parla loro e loro, invece, non riescono mai a parlare con chi vorrebbero, o come vorrebbero.... hanno sempre delle cose che non riescono a dire.... la parola per loro è considerata quasi come un ostacolo.... Ammirano gli animali proprio perché non parlano... Ma ignorano che, tale ammirazione, è soltanto un effetto del modo in cui loro stessi fanno utilizzo di ciò che gli animali non hanno. Vogliono paragonare i sentimenti umano-animale.... e ciò che risulta assurdo, non è tanto il fatto che gli animali non possono avere sentimenti perché il senti-mento è un sentire che proviene dalla psiche. Loro invece, i così detti "umani", affermano che gli animali abbiano sentimenti che, dunque, proverebbero dal corpo, da un sentire fisico di cui l'animale è dotato in misura maggiore... A risultare più assurdo è che parlino di sentimenti come se fossero qualcosa che trascende la parola.... come se, capito, la "trascendenza" non fosse una parola, un concetto, bensì una cosa che cresce sugli alberi, o che fa la tana nel sottobosco.... Non so quanto, fin qui, sia chiaro a tal punto da riuscire a far emergere tutte quante quelle supposte verità ontologiche radicate nella psiche e sulle quali è stato costruito tutto l'apparato culturale, dunque anche sociale, attuale>>.

La nostra analista esordisce come abitualmente suol fare, cioè con il suo solito malcelato disprezzo, questa volta nei confronti di coloro che affermino <<di saper leggere la psiche degli animali>>; per lei, è <<gente di cui diffidare>>, per cui li allontana da sé parlandone in terza persona:

<<Loro invece, i così detti "umani", affermano che gli animali abbiano sentimenti […]>>,

già, perché AdP ha ormai raggiunto un livello superiore _ in quanto è niente meno che analista della parola (!) _ rispetto ai comuni esseri <<"umani">>, cioè a <<Loro>>, per cui può permettersi di trattarli con sufficiente distanza…

A chi afferma _ sostiene sempre AdP _ <<che anche l'animale abbia una psiche>>, bisognerebbe innanzitutto chiedere:

ma sapete <<che cos'è la "psiche"?>>

Ovviamente no, non lo sanno!, sottintende AdP, proprio perché, non essendo essi analisti della parola, galleggiano beatamente nell’ignoranza, cosicché vanno relegati nell’ambito della <<gente di cui diffidare>>, mentre AdP sa perfettamente cosa sia la psiche, per cui soltanto a lei bisognerà af-fidare anima e corpo per accedere ad un superiore gradino di conoscenza di sé grazie alla sua <<Scienza della Parola>> la quale, niente meno, <<esiste dal 1992>>!

Prima di quella data, infatti, quindi <<Da quando i barbari hanno invaso la Grecia, sono state dette molte fesserie in merito ai parlanti e alla parola, al logos, all'essere>>.

Dopo millenni di attesa, adesso basta; dal 1992 niente più <<fesserie>>, è finita la pacchia.

E allora non sprechiamo la chance offertaci dal verbo tuonante di AdP:

<<Falsi siete e falsi resterete finché non vi convertirete all'analista della parola>>. (Vedi post n° 10).

Quindi, quel che dovremmo cominciare a capire è che <<Noi siamo parlanti>>, mentre <<Gli animali non sono parlanti. Punto! Non c'è la psiche animale, perché non c'è il discorso animale...>>

AdP ci informa che, oltre agli animali, il mondo è diviso in due categorie:

(1) <<C'è soltanto il discorso del parlante inconsapevole e, dunque, irresponsabile>>,

ossia il discorso della stragrandissima maggioranza degli <<"umani">>, poc’anzi da AdP indicati in terza persona: <<Loro>>, escludendosene;

(2) <<E c'è il discorso dell'analista della parola>> molte spanne sopra gli altri, naturalmente, il quale discorso è innegabile, consapevole, responsabile: pura verità!

Infatti, i privilegiati appartenenti a questo secondo gruppo possono ben affermare di non poter <<neppure stare a discutere>> con gli <<"umani">> del gruppo (1), ossia <<con chi dice di parlare con gli animali>> il quale <<è come chi dice di parlare con gesù, dio, gli angeli e l'amico invisibile>> (sob...)

…Arriviamo adesso al cuore del post.

È interessante notare come affermando che <<Gli animali non sono parlanti. Punto! Non c'è la psiche animale, perché non c'è il discorso animale...>>, AdP riconosca l’esistenza di ciò che non è parlante, che non ha la parola.

Per colei per il quale TUTTO è parola, ammettere che il mondo animale ‘funzioni’ sprovvisto di parola significa riconoscere che NON TUTTO è parola.

Se NON TUTTO è parola, allora è falso che la parola sia intrascendibile in assoluto, giacché tale intrascendibilità varrà soltanto per i parlanti, ma, appunto, NON varrà per gli animali che <<non sono parlanti. Punto!>>  

Certo, secondo AdP anche gli animali sono parola e che essi non siano parlanti è qualcosa che si evince sempre all’interno della parola; tuttavia, ella ribadisce che gli animali _ che quindi esistono _ non sono parlanti. Il che vuol dire che esiste un mondo (situato al di là della parola che lo indica come mondo-non-parlante) costituito da non-parlanti e che funziona molto bene senza parola, a quanto pare.

Insomma, è proprio la parola di AdP a negare che TUTTO sia parola, nell’assicurarci che gli animali _ della cui esistenza ella non dubita _ non parlano, per cui, ripeterei, è proprio la sua parola ad indicare l’esistenza della non-parola da lei, però, ritenuta impossibile <<perché ogni parola può connettersi esclusivamente con un'altra parola>> (https://www.youtube.com/watch?v=GtG1UoPzRiY); se così, allora dovrà conseguentemente ritener impossibile l’esistenza degli animali e del loro mondo-senza-parola.

Sempre in questo link, AdP ha scritto che <<La parola è originaria>> ed è <<la condizione di qualunque cosa>>, anche degli animali che, in quanto visti da noi, sono parola, certo, ma _ ripeterei _ la parola NON è la condizione del loro mondo-senza-parola, appunto perché in quest’ultimo NON vige parola alcuna, pertanto detta parola non è affatto <<originaria>> (poiché per lo meno non concernerà quel mondo) è affatto <<la condizione di qualunque cosa>>, appunto perché il mondo-animale-senza-parola non rientra in quel: <<qualunque cosa>>.  

Stia perciò serena AdP, laddove scrive che <<Non si può neppure stare a discutere con chi dice di parlare con gli animali.... è come chi dice di  parlare con gesù, dio, gli angeli e l'amico invisibile>>, giacché Gesù e gli animali sono infinitamente più eloquenti delle sue vacue chiacchiere…

 

Roberto Fiaschi

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29)- TRIPLICE APORETICITÀ DELL’ESSERE

Premessa:

L’intento di questo post è di evidenziare tre aporie concernenti la distinzione tra essere ( = E) e determinazione ( = D; plurale DD), della quale distinzione l’ente ne costituisce la sintesi (E + D).

Normalmente, ogni qualvolta venga indicata un’aporia nel sistema filosofico di Emanuele Severino, fa immancabilmente seguito la solita osservazione _ la quale, tuttavia, rafforza le tre aporie qui esposte _, tesa a rilevare che l’indesiderato esito dipenda dall’aver indebitamente astratto/separato/isolato l’E dalla sua inscindibile D, cosicché esso si ritrovi come essere-semplice/formale ( = l’ “è”) vuoto di contenuto o di D e, in quanto così separato, inesistente.

Tale osservazione, però, pare si lasci continuamente sfuggire che:

(A)- o l’E si distingue realmente dalla (sua) D (della quale è atto);

in tal caso, bisognerà che l’E sia analizzabile/significabile distintamente dalla D, giacché il saperlo distinto deve comportare il suo apparire e quindi il suo significare così distintamente, con le conseguenze che ne derivano e che ho cercato di evidenziare nel presente post.

Pertanto, l’E-distinto-dalla-D deve potersi offrire alla significazione quale atto-distinto-dalla-D, consentendoci di poter rispondere alla domanda:

che cos’è (o cosa significa), nell’ente, l’E distintamente considerato dalla D?

(B)- Oppure, nessuna distinzione è possibile tra E e D;

in tal caso:

(B1) l’E è sempre differente-da-sé, non essendovi alcun E che sia predicabile universalmente ( = identicamente) per ogni ente (per ogni D), poiché in ciascun caso _ in ciascuna D _ esso assumerà forme sempre diverse quante sono le determinazioni ( = DD).

(B2) Se l’E è sempre differente-da-sé, non avrà alcun senso continuare a chiamarlo ‘essere’ perché, non essendo mai identico-a-sé in ognuna delle D, non potrà neppure costituirne il trascendentale che tutto accomuna e che ne presuppone perciò l’identità-con-sé.

(B3) Non avendo più alcun senso continuare a chiamarlo ‘essere’, esso _ sempre nell’accezione severiniana _ non si opporrà neppure al nulla, perché una volta venuto meno l’E, viene meno anche la posizione semantica del suo opposto _ il nulla _ solo nell’opposizione al quale l’E trae _ sempre secondo Severino _ la propria identità.   

(B4) In ogni caso _ lo vedremo _, che l’E sia distinto o meno dalla D, il risultato finale reciterà sempre il medesimo verdetto:

nell’ente, l’E è indistinguibile dal nulla;

dell’E di ogni ente, davvero, non ne è nulla

***

1)- PRIMA aporia dell’E.

1.a Com’è noto, gli enti si differenziano l’un l’altro in virtù della loro determinatezza ( = D).

Inoltre, in ogni ente si suol distinguere (non separare!) la sua specifica D dal suo essere ( = E) o, come dice Severino, dal suo non-essere-un-nulla, il quale E è comune ad ogni ente, identicamente: l’atto d’E non cambia mai.

1.b Per capirci meglio con un esempio: se l’atto-del-CORRERE (equivalente all’E) cambiasse in coloro-che-CORRONO (gli equivalenti delle DD), i CORRENTI non sarebbero accomunati dal CORRERE e quindi non tutti CORREREBBERO, appunto perché non avrebbero in comune il (loro) CORRERE.

Pertanto, per predicare il CORRERE col medesimo significato per ognuno dei CORRENTI, esso deve esser distinguibile dal CORRENTE/CORRIDORE in quanto il CORRERE-non-CORRE, o non-è-un-CORRENTE (non è una D).

1.c Certo, il CORRERE non fa essere (non crea) i CORRENTI; esso è ciò che unifica i CORRENTI nel loro CORRERE.

Per tale ragione, il CORRERE può anche cessare senza che i CORRENTI cessino a loro volta con esso, giacché il CORRENTE eccede il suo essere-CORRENTE, essendo anche molto altro (è uomo, è vivente, è riposante, mangiante, dormiente, bianco, magro, operaio, italiano etc…) rispetto ad esso.

1.d Neppure l’E fa essere le DD; esso è ciò che unifica le DD nel loro E.

Ma, a differenza di quanto appena detto riguardo al CORRERE ed al CORRENTE, per quanto concerne l’E, le DD non possono mai cessare di essere DD per esser anche altro rispetto al loro essere DD, poiché esse sono integralmente E, a differenza del CORRENTE il quale, invece, eccede il (suo) CORRERE.

1.e È per tale distinzione che la D, nell’ente, non coincide ‘simpliciter’ con l’E perché quest’ultimo non può avere quiddità propria, ossia non può essere a sua volta una (altra) D altrimenti, se cioè fosse (una) D esso stesso, non potrebbe mai costituirsi come l’E-di-ogni-D _ non sarebbe la condizione del loro darsi o dell’apparire di ogni D _ bensì si darebbe come un’altra D tra molteplici DD:

se il CORRERE CORRESSE, sarebbe una D, cioè un CORRENTE…

1.f Le DD non possono perciò mai eccedere l’E, perché oltre l’E non vi è alcunché (sempre stando a Severino) che possa sopravanzarlo.

Così l’E, non avendo altro oltre sé in quanto è il solo mono-agonista, non si distingue da niente, nient’altro essendovi all’infuori dell’E da cui distinguersi giacché tutto rientra in esso (anche il non-essere!); al contempo l’E, non avendo una  propria specifica D, si distingue da essa, da tutte le DD!

1.g Da questo consegue che nell’ente, l’E è al contempo identico-a-sé (è tutto l’ente di ogni ente) e distinto-da-sé (in quanto è distinto dalla D).

O anche: l’ente è tale distinzione, ossia è distinzione di-sé-da-sé da parte dell’E, ove quel ‘da-sé’ è la D distinta dall’E.

Il che è come dire che l’ente è il ‘luogo’ in cui l’E ha o è altro oltre sé, precisamente ha (o è) la D la quale, distinguendosi dall’E, è non-E.   

1.h Se la D è ciò (è la ‘cosa’) che appare, e se ogni differenza è lo stesso apparire di ogni D, e poiché l’E è l’atto mediante il quale ogni D appare (e quindi l’E non può esser esso stesso alcuna D), allora l’ineliminabile distinzione _ nell’ente _ tra l’E e la D (distinzione che fa sì che l’E non sia mai alcuna D in nessun ente) che cosa distingue?

Distinguerà _ sempre in ogni ente _ la D da ciò che non-è-alcuna-D, ossia dal suo E.

Per cui l’ente non-è-sé;  

è E-e-non-è-E,

perché è D-e-non-è-D;

è E-e-N o non-E:

è, appunto ente, cioè E-e-D (o E + D); il che ci conduce alla seconda aporia dell’E.

***

2)- SECONDA aporia dell’E.

2.a Da quanto appena tratteggiato, segue che l’E è sempre l’E-di-qualcosa (D) ma, proprio per questo, essendo cioè analizzabile distintamente dalla D della quale esso ne è l’E (se non fosse così analizzabile, infatti, non potremmo neppure affermare che l’E è sempre l’E-di-qualcosa perché, affermando ciò, saremmo comunque costretti a porre una dualità quindi una distinzione tra l’E ed il ‘qualcosa’ di cui esso è atto), allora:

non tutto è D e non tutto è E!

2.b Che è come dire che tra l’E ed il nulla vi è un terzo _ la D _ che rientra-e-non-rientra nell’E; e rientra-e-non-rientra-nel non-E, appunto:

un terzo tra l’E ed il non-E!

2.c Questo ci dice, allora, che il divenire è caratterizzato proprio da quell’epamphoterizein platonico che Severino ha tentato di bollare come nichilistico ritenendolo impossibile:

epamphoterizein quale oscillazione o contesa tra l’E ed il nulla da parte di ogni D, che a rigor di termini si riduce ad oscillazione tra ‘due’ nulla quali sono l’E (in quanto distinto dalla D) ed il nulla, ovvero ad oscillazione _ dell’ente _ di sé da sé.

2.d Nell’ente, la D si ritrova cioè indecisa tra sé in quanto non-E, e tra l’E (o nulla in quanto distinto dalla D) in quanto non-D!

Ogni ente è tale originaria indecisione

(Si veda subito sotto per quanto riguarda l’indistinguibilità tra l’E ed il nulla).

***

3)- TERZA aporia dell’E.

3.a Il non esser/aver D alcuna, fa perciò dell’E _ sempre considerato nell’ente distintamente dalla D _ un non-determinato ( = non-D); infatti, l’apparire della distinzione (tra enti) nient’altro è che l’apparire della D degli enti la quale D è, perciò, l’apparire della differenza che caratterizza ciascun ente in quanto D, ossia in quanto de-terminatamente differ-ente dal proprio altro.

3.b Severino suol far notare che l’ente (o la D) è un non-nulla, ossia che è appunto interamente ed unicamente E.

Pertanto, ciò che ‘tiene fuori’ dal nulla la D (o l’ente) è appunto il suo (atto d’) E.

Da ciò sembrerebbe poter senz’altro facilmente concludere che tra l’E e il nulla vi corra un’abissale differenza/distanza ontologica, la massima estraneità/opposizione reciproca che sia dato riscontrare.

Ma sarà davvero così?

3.c Se fosse così, ovvero se l’E fosse totalmente altro dal nulla, l’ente non dovrebbe costituirsi come sintesi tra i distinti E e D.

Nella misura, però, in cui ne consiste (e tale misura non risparmia nessun ente), allora, ad opporsi al nulla quale massima alterità ontologica saranno soltanto le DD, appunto perché sono esse a marcare le differenze tra enti, essendo invece il loro atto d’E non-D, ossia distinguibile dalle DD e come tale non rientrante in ciò (le DD) che sanciscono le differenze.

3.d Cosicché l’atto d’E-distinto-dalla-D sia identico al nulla nei confronti del quale esso (l’E) vorrebbe valere come massima, abissale alterità.

Ma tale alterità è già intrinseca all’ente, alterità appunto tra l’E e la D.

Quindi, ciò che rende non-nulla ogni D è proprio un E non-distinguibile DAL nulla, o un nulla indistinguibile dall’E.

Ricordiamo, infatti, come ogni distinzione possa darsi soltanto tra DD appunto distinte l’una dall’altra, e poiché l’E _ nell’ente _ non può aver di proprio né può essere alcuna D, allora è chiaro come esso sia non-determinato (non-D) e pertanto stia nella massima alterità non con il nulla bensì con la D!

3.e Perciò, ricapitoliamo:

o l’E non si distingue DA nulla;

e allora non si distinguerà neppure dalla (sua) D nell’ente di volta in volta considerato, di modo tale che l’E si riduca ad una D tra molte altre, ogni volta (cioè IN o COME ogni ente) tanto diverso-da-sé quanto ogni D è diversa dalle altre.

Se, perciò, l’E non si distingue dalla D, esso sarà, di ente in ente, differente-da-se-stesso perché ogni D differisce dall’altra, quindi sarà non-E = nulla, venendo così meno la necessità di continuare a considerarlo essere (per poterlo fare, l’E deve distinguersi dalla D), con la conseguente scomparsa anche degli essenti.

Come il CORRERE, qualora non si distinguesse dal CORRENTE, sarebbe esso stesso un CORRENTE:

il CORRERE CORRE o il CORRERE è (un) CORRENTE;

costituendosi perciò come uno-tra-i-CORRENTI, anziché come loro trascendentale o denominatore comune, cadendo così la necessità di continuare a considerarlo il CORRERE di ogni CORRENTE, con la conseguente scomparsa anche dei correnti.

3.f Oppure:

l’E si distingue _ nell’ente _ dalla D, come s’è visto;

e allora esso sarà inevitabilmente IN-DISTINGUIBILE DAL nulla (non: DA nulla!, come invece in 3.e) poiché l’E, non essendo alcuna D (dalla quale  deve distinguersi in quanto non-D), conferma la propria indistinguibilità DAL nulla.  

Ripetiamo: proprio perché l’E è non-D, non riesce a distinguersi DAL nulla.

3.g Ma perché diciamo: indistinguibile DAL nulla?

Forse, che non vi sia differenza tra l’atto d’essere e il non-esserci da parte di un ente?

Eppure siamo tutti convinti che tra l’esserci ed il non-esserci di qualcosa passi una differenza incolmabile…

E allora _ ridomando _ perché diciamo che l’E (distintamente dalla D) è indistinguibile DAL nulla?

3.h Perché nemmeno il nulla ha alcuna quiddità; esso è il non-determinato per eccellenza, il non-individuabile per definizione, non essendo alcuna D (sempre assecondando l’accezione severiniana di nulla):

Esattamente come l’E.

3.i A ciò, si potrà certo obiettare che l’E è ‘qualcosa’ ossia, l’E è comunque atto d’E, vero; ma daccapo, poiché tale atto non è/ha alcuna D, questo atto come potrà distinguersi da ciò che non è/ha alcuna D come appunto il nulla?

3.l O l’atto è a sua volta (una) D; e allora si ritorna all’E come una D tra le tante altre, quindi come non-E e non-trascendentale.

3.m Oppure non si distinguerà DAL nulla

3.n Si dirà che l’E è distinguibile DAL nulla attraverso-la-D della quale esso funge da inseparabile atto d’E.

Ovvero, l’E si individua in o come ogni D manifesta e così individuandosi, non potrà esser equiparato al nulla il quale, invece, non si individuerebbe mai, non essendo l’atto di alcunché.

Nuovamente d’accordo: ma torna daccapo la domanda di come l’atto d’E possa render non-nulla la D, manifestandola, se esso stesso è appunto distinguibile dalla D e perciò in-distinguibile DAL nulla?

Che cosa si individua, se tale E, non essendo D, non possiede una natura individuabile (né, a questo punto, individuante)?

3.o Che differenza vi sarebbe tra due indistinguibili (quali l’E ed il nulla)?

Nessuna; appunto perché, essendo non-distinguibili, non saranno neppure (distinguibili come) due!

3.p Inoltre, quanto detto nel punto 3.n richiama per un attimo la sintesi cui _ secondo Severino _ consiste il termine ‘nulla’, sintesi cioè tra il momento del positivo significare ed il contenuto valevole come ‘nulla assoluto’ di tale positivo significare.

Egli ritiene che tale sintesi consenta al contenuto di quel termine di porsi e rimanere significante come ‘nulla assoluto’;

parimenti, aggiungo io, la sintesi tra E e D costituente l’ente consente all’E dell’ente di porsi distintamente/distinguibilmente dalla D, di porsi cioè come non-D e la D come non-E, onde il rilievo esposto al punto 3.n non abbia più motivo di sussistere.

3.q D’altronde, l’inanità dell’accusa di separare l’E dalla D si evidenzia anche qualora assegnassimo alla D il valore positivo-determinato di 1 (appunto perché è D) e all’E, in quanto è non-D, il valore né positivo né negativo di 0 (zero).

In tal modo si palesa come da 1 + 0 (cioè da D + E) = 1, cioè risulti sempre D, non potendo ciò (l’E) che non è alcuna D aggiungervi nulla, cosicché dire D + E (cioè 1 + 0) equivalga a dire: D + nulla = D, confermando perciò l’indistinguibilità dell’E DAL nulla e parimenti, confermando il non-E della D.

3.r Ma proprio per quanto appena detto, il severiniano potrebbe ribadire con maggior giustificata forza _ ove ho scritto che da D + E = D (da 1 + 0 = 1) risulta sempre D, non potendo l’E, che non è alcuna D, aggiungere nulla alla D _ di aver separato l’E dalla D, giacché non mi sarei accorto come la D sia già essa stessa l’E, o sia con esso inscindibilmente nonché originariamente unita cosicché, che l’E non aggiunga nulla alla D, si riveli un ingenuo errore derivante dal non aver visto che dire D è già dire (il suo) E!

3.s Ma che l’ente sia ritenuto sintesi inscindibile ed originaria tra E e D non può togliere, però, la distinzione tra i due termini.

Non potendo toglierla, D in quanto così distinta, stando al rilievo del 3.r, si troverebbe in sintesi inscindibile con (o sarebbe essa stessa!) l’E, ovvero sarebbe essa stessa ciò (l’E) che è distinto-da-sé cioè dalla D.

Ma se la distinzione è inaggirabile, saremmo punto e a capo, giacché non c’è originaria-inscindibilità che tenga dinanzi alla sola, semplice distinzione tra ciò che è tutto senza alcunché al di fuori di sé: l’E, e ciò che da questo si distingue, appunto, senza però potersene affatto distinguere: la D.

3.t Concludendo: come anticipato al punto (B4), che l’E sia distinguibile o meno dalla D, il risultato finale reciterà sempre il medesimo verdetto:

- nell’ente, la D è non-E;

- nell’ente, l’E è in-distinguibile DAL nulla;

- dell’E e della D di ogni ente, davvero, non ne è nulla

 

Roberto Fiaschi

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