giovedì 31 agosto 2023

91)- «APPARE», MA NON “A CHI”?

Presso gli estimatori del filosofo Emanuele Severino, è invalso l’uso del termine <<APPARE>> per NEGARE che ciò che appare possa apparire ALL’io empirico, cioè A ME, A TE….

Vediamo meglio.

Alla domanda:

in che senso dici che <<l'apparire non appare a nessuno>>?

Maurizio Gambett (MG) ha risposto:

<<bella domanda. Me la sono posta anche io oggi. E mi sono dato questa risposta: è APPARSA la frapposizione tra me e la filosofia del destino. A se stessa […] Il tra me indica la distanza tra me e la Filosofia del destino. NON "L'APPARIRE A">>. (Maiuscoli miei: RF).

Per MG, il ME è <<anche esso un essente che APPARE>>.

Inoltre, egli aggiunge che <<il Me APPARE insieme al tu. Peraltro anche io che sto scrivendo APPARE>>.

Nel caso di svenimento, egli riconferma che <<quando ho ripreso coscienza APPARE che ho ripreso coscienza>>, etc…

Infine, MG precisa:

<<comunque, per capirlo, bisognerebbe ritornare al post. Partendo dall'io empirico. Quando APPARE qualcosa, appare anche a chi appare questo qualcosa? No. Perché nel momento in cui appare questo "chi" anch'esso apparirebbe. Heidegger l'aveva capito (a metà). Nel senso che non potendo scorgere questo "chi" e dando per scontato che l'apparire dovesse apparire a qualcuno, l'ha chiamato niente. Severino è come se dicesse: quindi l'apparire appare al niente? Bene. Come dire che non appare a nessuno. APPARE>>.

Bene così.

Ora, scrivere <<APPARE>>, così frequentemente espresso, è come dire:

MANGIA;

SPEDISCE,

STA MALE,

etc…

Questi, senza un SOGGETTO ed un eventuale COMPLEMENTO, sono tutti significati che, presi così, NON dicono alcunché.

Infatti, all’espressione: MANGIA (che qui non funge da imperativo), viene subito da chiedere:  

CHI MANGIA (COSA)?

All’espressione: SPEDISCE, chiediamo:

A CHI (egli) SPEDISCE (COSA)?

All’espressione: STA MALE, si chiede:  

CHI STA MALE?

Etc…

Lo stesso dicasi di APPARE. Preso così, NON vuol dire niente, soprattutto NON spiega niente, è SOLTANTO la formulazione di un verbo.

Quindi:

A CHI APPARE (QUALCOSA)?

Infatti, come MANGIA ha senso se vi è QUALCUNO che MANGIA qualcosa, e come SPEDISCE ha senso se A QUALCUNO egli SPEDISCE qualcosa, così APPARE ha senso soltanto se A QUALCUNO APPARE qualcosa, altrimenti il verbo "APPARE" resta sospeso in aria, indeterminato.

Per quanto riguarda l’ultimo brano di MG sopra riportato, egli chiede:

<<Partendo dall'io empirico. Quando APPARE qualcosa, appare anche a chi appare questo qualcosa? No. Perché nel momento in cui appare questo "chi" anch'esso apparirebbe>>.

Eh no, direi che quest’asserzione sia del tutto inaccettabile.

Perché se IO dico:

“x mi appare” o “mi è apparso”,

allora inevitabilmente <<appare anche A CHI appare questo qualcosa>>, altrimenti giammai potrei dire:

 “x MI appare” o “MI è apparso”.

In questo MI è già inclusa la coscienza di esser colui A CUI x appare.

Quindi, posso dire che x appare A ME in virtù dell’AUTO-coscienza, grazie alla quale IO so di essere colui A CUI x appare (o è apparso).

E così conclude MG:

<<Nel senso che non potendo scorgere questo "chi" e dando per scontato che l'apparire dovesse apparire a qualcuno, l'ha chiamato niente. Severino è come se dicesse: quindi l'apparire appare al niente? Bene. Come dire che non appare a nessuno. APPARE>>.

Ora, non si capisce come si possa dire di NON <<scorgere questo "chi">> a cui qualcosa appare (forse, nel caso di Heidegger, a causa di una certa suggestione orientale  a cui egli era particolarmente affezionato. Inoltre va osservato come il <<niente>> heideggeriano e quindi orientale non coincida col NIENTE severiniano, tanto da sembrarmi completamente fuori luogo che Severino affermi: <<quindi l'apparire appare al niente? Bene. Come dire che non appare a nessuno. APPARE>>. È fuori luogo, giacché il <<niente>> cui sarebbe l’IO non è affatto il nihil absolutum bensì è COSCIENZA FINITA quindi SPECIFICA, INDIVIDUATA, tutt’altro che nihil absolutum!).

Certo, se si pretendesse di scorger quel <<chi>> come fosse UN OGGETTO accanto ad altri, non sarebbe IO il VEDENTE bensì UN VEDUTO.

Lo scorgere il VEDENTE ( = IO), lo <<scorgere questo "chi">> è AUTO-coscienza, e si AUTO-mostra precisamente in ogni momento in cui IO so ( = sono consapevole) che x, y, z… appaiono A ME.

 

Roberto Fiaschi

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martedì 29 agosto 2023

90)- SULL’ESSERE QUALE CONTRADDIZIONE ORIGINARIA


Per introdurre nuovamente la CONTRADDITTORIETÀ dell’ESSERE (come tematizzato da Severino) unitamente all’INCONTRADDITTORIETÀ degli enti (vedasi post n° 86, https://controinuovimostriii.blogspot.com/.../86...), riporto il seguente eloquente brano di Alessandro Vaglia tratto dal gruppo Officina di filosofia teoretica:

<<comunque se per bue e asino intendiamo solo il loro positivo significare certo che sono identici, in quanto positivo significare appunto, ma come determinazioni o contenuto appunto, son diversi. tutto ciò che appare è identico in quanto essere, tutto è, ma tutto è diverso in quanto al suo contenuto>>.

Perfetto, tutto corretto, ben detto.

Tuttavia, AV ha appena formulato, suo malgrado, LA CONTRADDIZIONE ORIGINARIA dell’ESSERE severiniano, cioè dell’ESSERE quale totalità degli enti o determinazioni.

Perché dico: suo malgrado?

Perché evidentemente a lui è bastato rilevar _ giustamente _ che due enti qualsiasi (<<bue e asino>>) <<sono IDENTICI, in quanto positivo significare appunto, ma come determinazioni o contenuto appunto, son DIVERSI. tutto ciò che appare è IDENTICO IN QUANTO ESSERE, tutto è, ma tutto è DIVERSO in quanto al suo contenuto>>,

senza perciò soffermarsi sul fatto che affermar che bue e asino siano <<IDENTICI, in quanto positivo significare>> e che <<come determinazioni o contenuto>> siano INVECE <<DIVERSI>>,

significa affermare che, proprio perché <<tutto ciò che appare è IDENTICO IN QUANTO ESSERE>>,

allora l’ESSERE DIFFERISCE CONTRADDITTORIAMENTE DA SÉ,

giacché AV, precisando:

<<ma come determinazioni o contenuto appunto, son DIVERSI>>,

implica che <<come determinazioni o contenuto>> il bue e l’asino NON SIANO lo stesso ESSERE circa il quale subito prima egli aveva affermato che <<tutto ciò che appare è IDENTICO IN QUANTO ESSERE, tutto è>>.

È chiaro:

siccome <<tutto ciò che appare è IDENTICO IN QUANTO ESSERE>>, tale ESSERE DEVE NECESSARIAMENTE INCLUDERE ANCHE le determinazioni o i contenuti, altrimenti questi NON sarebbero ESSERE.

Appunto perché NON soltanto il bue e l’asino sono ESSERE per <<il loro positivo significare>>, ma essi sono ESSERE anche <<come determinazioni o contenuto>> dei loro rispettivi positivi significare!

Quindi, l’osservazione di AV secondo la quale:

<<tutto ciò che appare è IDENTICO IN QUANTO ESSERE, tutto è, ma tutto è DIVERSO in quanto al suo contenuto>>,

sancisce la CONTRADDITTORIETÀ dell’ESSERE quale totalità concreta dei DIFFER-enti, esattamente come è CONTRADDITTORIO che il bue sia l’asino,

poiché ha sancito il DIFFERIRE DELL’ESSERE DA SÉ STESSO, esattamente come il bue DIFFERISCE dall’asino pur essendo entrambi INTEGRALMENTE ESSERE.  

 

 

Roberto Fiaschi

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89)- LA NON-RISOLUZIONE DELL’APORETICA DEL NULLA

Scrive Alessandro Vaglia (deSstopron6g6u9lm8f136hl6a936ifu00hmi9tihm549a7c39 30la79137):

<<LA RISOLUZIONE APORETICA DEL NULLA È UNA CONSEGUENZA DEL PRINCIPIO E NON È AFFATTO NECESSARIA AL PRINCIPIO STESSO.

SEVERINO NON È HEGEL, NON PARTE INFATTI DA UNA REALTÀ CONTRADDITTORIA A CUI IL RISULTATO RIMEDIA (tenta l'impossibile rimedio).

(Risposta a Paolo Pigigi che voleva fare essere il principio di non contraddizione secondo la risoluzione dell'aporetica del nulla.)

Partiamo col dire che vi sono alcune inesattezze in questo post (*) o se esatte che vanno giustificate dall'autore stesso e non da Severino che non le ha affatto affermate. Il momento nulla come positivo significare non è autocontraddittorio ma incontraddittorio come incontraddittorio è il momento nulla, dunque cosa è autocontraddittorio? La materia logica di questi due portati formali che si pongono insieme nel porre Nulla. Dunque dico nulla? allora dico essere del nulla. Quando due momenti della sintesi logica sono incontraddittori significa che astrattamente essi sono per sé autoevidenti, da una parte l'essere appunto un significato positivo, ed ogni significato positivo è, o essere appunto, e dall'altra quel nulla assoluto che è nulla. Premessa fondamentale, tutto ciò che qui si sta dicendo del nulla è appunto significato [dal] positivo del nulla>>. (Parentesi quadra mia, probabile omissione involontaria di Alessandro Vaglia).

Prima pausa.

Alessandro Vaglia domanda:

<<dunque cosa è autocontraddittorio?>>

E risponde:

<<La materia logica di questi due portati formali che si pongono insieme nel porre Nulla>>.

Esatto, precisando che tale <<materia logica>> è il significato <<Nulla>> quale sintesi dei due suddetti momenti.

Bene.

Poi Alessandro Vaglia chiede:

<<Dunque dico nulla? allora dico essere del nulla>>.

Esatto.

L’essere del nulla è la contraddizione che costituisce il significato concreto del Nulla quale sintesi dei due momenti.

Prosegue Alessandro Vaglia:

<<Quando due momenti della sintesi logica sono incontraddittori significa che astrattamente essi sono per sé autoevidenti, da una parte l'essere appunto un significato positivo, ed ogni significato positivo è, o essere appunto, e dall'altra quel nulla assoluto che è nulla. Premessa fondamentale, tutto ciò che qui si sta dicendo del nulla è appunto significato positivo del nulla>>.

Perfetto, d’accordo.

Senonché, egli dice che <<Quando due momenti della sintesi logica sono incontraddittori significa che astrattamente essi sono per autoevidenti>>, indubbiamente, ma ecco il punto:

l’autoevidenza del secondo momento nulla ( = nihil absolutum = nulla assoluto), si ribalta immediatamente nella PROPRIA NEGAZIONE, ossia nella NEGAZIONE che quel secondo momento riesca a significare SOLTANTO nulla assoluto, perché quest’ultimo, essendo in relazione inscindibile con l’altro momento cui è il suo positivo significare, CESSA di valere come nulla assoluto perché in forza della sua DIFFERENZA dal positivo significare, quel nulla si ENTIFICA.

Q-U-E-S-T-A È L’APORIA DEL NULLA che Severino ha tentato di risolvere, giacché astenersi da ciò, comporta che il significato concreto Nulla, cioè la sintesi autocontraddicentesi dei due momenti, si riveli in realtà una sintesi RELATIVA in quanto sintesi tra due ESSENTI (appunto perché il nulla assoluto quale secondo momento, ENTIFICANDOSI, non sarebbe più il nulla assoluto BENSÌ un ALTRO ESSENTE), anziché tra due significati tra loro ASSOLUTAMENTE incompatibili poiché ASSOLUTAMENTE differenti l’un dall’altro, come appunto sarebbero (ma NON lo sono) infinitamente distanti l’essere dal nulla assoluto.

La soluzione severiniana consiste nel tener sì distinti i due significati del termine Nulla, ma al contempo badando bene di NON SEPARARLI, altrimenti il secondo momento nulla assoluto finirebbe per ENTIFICARSI, contravvenendo perciò al suo negativo statuto ontologico, cosicché, se si ENTIFICASSE, allora il significato concreto Nulla NON sarebbe più una sintesi autocontraddicentesi, come vuole Severino, appunto perché diverrebbe invece una sintesi tra due ESISTENTI, cioè tra due ESSENTI, e non tra un essente ( = il positivo significare) ed il nulla assoluto, come vuole Severino.

Ad un certo punto, Alessandro Vaglia chiede:

<<Se fosse autoevidente che l'essere è nulla di quale APORIA staremmo discutendo ora infatti?>>

Di nessuna aporia discuteremmo, certo, ma infatti NESSUNO AFFERMA che <<che l'essere è nulla>>, bensì si dice, che AL SEGUITO DI TALE INNEGABILE DIFFERENZA, e anzi, PROPRIO GRAZIE AD ESSA, il nulla NON SI DISTINGUE dall’essere, o meglio:

se ne distingue SENZA distinguersene,

o NON se ne distingue proprio perché se ne distingue.

E ancora, dunque, Alessandro Vaglia scrive:

<<Anche l'aporetico dunque, in qualche parte recondita del suo intimo inconscio sa quello che Emanuele Severino procederà a discutere, ma se lo vuole negare e dunque si nega da sé. Sa che dicendo nulla sta dicendo e trattando il nulla assoluto>>;

ma certamente, infatti, ripeto, NESSUNO AFFERMA che <<che l'essere è nulla>> o NEGA la loro DIFFERENZA, al contrario, tale DIFFERENZA è così ben manifesta da capovolgersi immediatamente nell’IDENTITÀ tra essere e nulla, o nella loro INDISTINGUIBILITÀ.

Conclude così Alessandro Vaglia:

<<Il mortale Platone questo lo sa (leggere il Sofista ultima parte), ma non lo risolve, sarà Severino a farlo>>.

Ed è proprio questo il punto: Severino NON HA RISOLTO l’aporia del nulla, giacché il nulla, DIFFERENDO dall’essere, al contempo NON NE DIFFERISCE.

Pertanto non è neppur sostenibile che <<LA RISOLUZIONE APORETICA DEL NULLA È UNA CONSEGUENZA DEL PRINCIPIO E NON È AFFATTO NECESSARIA AL PRINCIPIO STESSO>>,

appunto perché quel principio utilizza il significato nulla come se A MONTE la sua aporeticità fosse GIÀ STATA RISOLTA, per cui è ovvio che Severino ponga la sua ‘risoluzione’ al IV capitolo de La struttura originaria, anziché al primo (e comunque il IV capitolo è tra i primissimi, essendo il libro citato costituito da ben XIII capitoli!).

infatti, se tale aporia non è risolta, allora quel principio NON RIESCE neppure a costituirsi se non anch’esso aporeticamente…


Roberto Fiaschi

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lunedì 28 agosto 2023

88)- UN INSOLUBILE CIRCOLO VIZIOSO SEVERINIANO


Scrive Severino ne La Gloria, Pag. 475:

<<[…] per vedere che il destino sia nella parola è cioè necessario che la volontà [ = l’io empirico-errore] veda il destino; ma, si è rilevato, è impossibile che ciò che appare allinterno di una fede sia il destino della verità. Ma questo non significa che, dunque, la verità sia impossibile. Infatti la volontà [ = l’io empirico-errore] può voler  assegnare la parola al destino – e, innanzitutto, può isolare la terra – solo in quanto il destino appare già da sempre al di fuori dell’isolamento della terra e del linguaggio>>. (Parentesi quadre mie: RF; corsivo nel testo).

In primo luogo, è bene notare come Severino RICONOSCA che ‘qualcosa’ appaia <<allinterno di una fede>> cioè ALL’io empirico, anzi, addirittura afferma <<che la volontà [ = l’io empirico-errore] VEDE il destino>> e gli assegna pure <<la parola>>!

Quindi, vi è da domandarsi:

colui che rileva ( = che ha scritto) tutto ciò, è forse <<al di fuori dell’isolamento della terra e del linguaggio>>?

Evidentemente NO, visto che tale brano <<appare allinterno di una fede>> ( = la terra isolata) <<nella parola>> DI Severino.

Se infatti il destino <<appare già da sempre AL DI FUORI dell’isolamento della terra e del linguaggio>>, vuol dire ovviamente che esso NON può apparire all’INTERNO della terra isolata o ALL’io empirico-errore:

Severino dice che ciò <<è impossibile>>.

Perciò, se il suddetto brano tratto da La Gloria intende esser un tratto della verità del destino, allora esso è ERRORE, appunto perché anch’esso è proferito (appare) laddove <<è impossibile che ciò che appare all’interno di una fede sia il destino della verità>>.

In secondo luogo, la tematica in oggetto innesca il seguente CIRCOLO VIZIOSO:

(1) <<per vedere che il destino sia nella parola è necessario che la volontà [ = l’io empirico-errore] veda il destino>> in modo NON-ROVESCIATO e NON-SVIATO, onde poter cogliere la differenza tra destino AUTENTICO e destino SVIATO;

(2) ma per vedere il destino in modo NON-ROVESCIATO e NON-SVIATO è altresì necessario esser <<già da sempre AL DI FUORI dell’isolamento della terra e del linguaggio>>;

(3) invece, <<che il destino sia nella parola>> implica che esso debba apparire <<ALLINTERNO di una fede>> cioè internamente all’<<isolamento della terra e del linguaggio>>;

(4) <<ma, si è rilevato, è impossibile che ciò che appare all’interno di una fede sia il destino della verità>>;

(5) e quand’anche <<all’interno di una fede>> apparisse (o l’io empirico vedesse) <<il destino della verità>>, questi non potrebbe che apparire <<ROVESCIATO (e dunque SVIANTE) […] e che sia ROVESCIATO significa che sono IMPOSSIBILI LAMPI di COMPRENSIONE AUTENTICA>> del destino (N. Cusano);

per cui _ E VIA DACCAPO _:

(1) <<per vedere che il destino sia nella parola è necessario che la volontà [ = l’io empirico-errore] veda il destino>> in modo NON-ROVESCIATO e NON-SVIATO, onde poter cogliere la differenza tra destino AUTENTICO e destino SVIATO;

(2) ma…

 

Roberto Fiaschi

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venerdì 25 agosto 2023

87)- ANGELO SANTINI: L’IO DEL DESTINO «INSCENA» IL PROPRIO INDICARE SÉ STESSO?


Vorrei soffermarmi su una precedente affermazione (post 85) di Angelo Santini (AS) secondo cui, a proposito della volontà di INDICARE la verità del destino, <<in realtà non [c’è] stato un indicare>> il destino da parte dell’io empirico-Severino, nonostante l’io empirico-Severino  abbia affermato:

<<i miei scritti sono il dito>> che indica la luna ossia il destino. (Severino: Educare al pensiero, pp. 155-156).

Notare bene; egli precisa: <<i miei scritti>>, cioè DELL’io empirico-Severino.

Al contempo, però (cfr. il post n° 37), è necessario _ afferma sempre il filosofo bresciano _ che quel dito (cioè <<i miei scritti>>), <<fraintendasempre e inevitabilmente, le tracce della Gioia [la luna]>>.

Ancora Severino:

<<Il dito e la luna. Le piace? È una metafora cinese. Il dito indica la luna e può aiutare a spingere verso il tramonto il dito che indica la terra isolata. Il carattere problematico della capacità del dito di indicare la luna non investe lo splendore della luna>>.

Certo, purché, però, quel dito sappia INDICARE CORRETTAMENTE, non in modo <<problematico>>.

Ora, come detto, quel dito è necessario che

<<fraintendasempre e inevitabilmente, le tracce della Gioia [la luna]>>, in quanto esso (quale metafora dei <<miei scritti>> e quindi DELLio empirico-Severino) è ERRORE, infatti esso ha un <<carattere problematico>> nell’indicare, proprio perché è un dito STORTO, per cui non indicherà MAI correttamente, e perciò la luna non sarà affatto indicata né indicabile, visto che quel dito STORTO dirotta sempre ALTROVE la sua indicazione.

Pertanto è sommamente CONTRADDITTORIO affermare che ALL’io empirico NULLA APPAIA ed al contempo ritener che AL dito ( = ALL’io empirico-Severino) DEBBA APPARIRE la luna onde poterla INDICARE!

O si vorrà forse sostener assurdamente che il dito ( = l’io empirico-Severino) INDICHI ( = gli appaia) ciò che non può MAI apparirgli?

Severino osserva:

<<la luna appare>> (op. cit.).

A CHI?

A LUI, o meglio, al SUO dito che la INDICA o, meglio ancora, la luna appare in ciò che egli chiama:

<<i miei scritti sono il dito>>.

Lo ha detto Severino, non il sottoscritto…

Ricordiamoci adesso quanto asserito da AS:

<<in realtà non [c’è] stato un indicare>> il destino da parte dell’io empirico-Severino.

Per cui, che gli scritti DI Severino siano il dito che indica la luna è <<in realtà>> una FINZIONE, o come dice lo stesso AS:

è qualcosa di <<inscenato>>.

Leggiamo direttamente AS:

<<Non è l'io empirico Severino [ = il dito] ad aver indicato la verità del Destino [ = la luna] ai nostri io empirici o al nostro Io finito del Destino, ma è l'Io Infinito del Destino che, in questo tratto di realtà della terra isolata, appare processualmente e parzialmente in sé e a sé ospitando solo alcuni tratti coscienziali di se stesso e che quindi autoappare a sé in questo modo parziale, nel quale è inscenato un contrasto tra la verità e l'errore che passa anche per equivoci come quelli secondo cui a testimoniare e indicare il Destino sia un io empirico anziché l'Io finito del Destino (che è una porzione dell'Io infinito del Destino). In altre parole, ad aver indicato la verità del Destino è il Destino stesso a sé stesso e in se stesso (in questo tratto della terra isolata, nella forma processuale inscenata dal contesto stesso della terra isolata, quale contrasto tra la verità e l'errore e l'idea che siano gli individui a testimoniare qualcosa>>. (Parentesi quadre mie: RF).

Intanto, NON si capisce COME, sulla base di una messinscena, si possa affermare CON VERITÀ non solo che essa è una messinscena _ giacché, per affermare ciò, gli attori ( = gli io empirici) dovrebbero SAPERE della loro inscenata mentre, invece, Severino ha sempre ribadito che l’io empirico-errore NON SA di essere errore e quindi NON SA di inscenare alcunché  _, ma, ancor più, si rimane stupiti da come non ci si accorga dell’ASSURDITÀ della seguente tesi severiniana:

<<ad aver indicato la verità del Destino è il Destino stesso a sé stesso e in se stesso (in questo tratto della terra isolata, nella forma processuale inscenata dal contesto stesso della terra isolata, quale contrasto tra la verità e l'errore e l'idea che siano gli individui a testimoniare qualcosa>>.

Scendiamo nel dettaglio.

Vestiamo il <<Destino stesso>> coi panni dell’UNICO REGISTA ed OSSERVATORE ( = Io del destino) della scena che si svolge nel suo teatro.

Sul palco, vi è un gruppo di <<tratti coscienziali>> ( = gli io empirici-errori) che si avvicendano inscenando di INDICARE <<la verità del Destino>>.

Come anticipato, il regista è l’UNICO FRUITORE che VEDE e SA tutto quanto avviene sul palco, mentre, invece, gli io empirici ivi recitanti sono ERRORI, per cui essi sono CIECHI pur sostenendo, essi, di vedere, e sono SORDI pur sostenendo di udire.

Inoltre, essi non sono consapevoli di inscenare un <<fittizio agire>>, perché ritengono di agire realmente, ed IGNORANO completamente l’esistenza/presenza del REGISTA ( = Io del destino) che li osserva, giacché è stato detto da AS:

<<Secondo la filosofia di Severino non vi è in noi un soggetto che abbia fede, pensi e si rappresenti la realtà, ma solo l'apparire di configurazioni coscienziali in cui si inscena questo e la identificazione con un io empirico calato in un presunto mondo esterno, creduto diveniente>>;

ed anche:

<<dissento sul ritenerci Io empirici. Chi sperimenta [ = osserva] ciò che appare nel nostro Cerchio finito del Destino [ = nel teatro] è il nostro Io finito del Destino [ = il regista], non l'io empirico [ = il gruppo di <<tratti coscienziali>> cui sono gli io empirici-errori]. L'io empirico [ = tale gruppo di <<tratti coscienziali>>] non ha realtà propria ed esiste come contenuto della fede [ = cioè NON esiste] (la fede che esista fisicamente la persona, anziché l'insieme delle determinazioni che ne rappresentano il fittizio agire, ovvero la persuasione di agire, secondo la filosofia sostenuta da Severino)>>. (Parentesi quadre mie: RF).

Accade, dunque, che l’Io del destino necessiti di INDICARE sé stesso <<nella forma processuale inscenata dal contesto stesso della terra isolata [ = del teatro]>>.

Ossia, tale regista, chissà perché, sente la necessità di INDICARE sé stesso <<a stesso e in se stesso>> attraverso la messinscena recitata da <<tratti coscienziali>> i quali, in quanto sono CIECHI, SORDI e FITTIZI, non possono indicare proprio niente!

Ora, il MINIMO che si possa dire di questo Io del destino è che sia BEN POCO CONSCIO di sé, tanto da aver NECESSITÀ di INDICARSI non in virtù del proprio auto-apparirsi immediato ed innegabile, ossia della propria auto-coscienza, bensì grazie ad una sceneggiata che di sé stessa NULLA SA, NULLA ESPERISCE, NULLA VEDE e NULLA SENTE, essendo per lo più FITTIZIA ossia _ in ultima analisi _ INESISTENTE!

Non solo, ma accade che la sceneggiata consistente nei suddetti CIECHI, SORDI e FITTIZI io empirici, prenda possesso della scena teatrale (AS: <<quale contrasto tra la verità [ = il regista] e l'errore [ = gli io empirici] e l'idea che siano gli individui a testimoniare qualcosa>>), CONTRASTANDO la consapevolezza ( = la verità) del regista di essere IL SOLO ed UNICO REGISTA, finendo perciò, EGLI, per immedesimarsi (credendo) in quegli io empirici SORDI, CIECHI e FITTIZI, appunto perché questi ultimi sono convinti di NON essere CIECHI, SORDI e FITTIZI, bensì reali soggetti consapevoli del mondo che appare loro.

AS ha precisato che

<<l'apparire della persuasione nell'errore non intacca l'Io finito del Destino, il quale non è che "creda" nell'errore quando gli appare, quanto piuttosto è pervaso in quel momento principalmente da quella particolare serie di configurazioni coscienziali che inscenano la persuasione dell'essere un io empirico che ha fede in qualcosa, mentre l'oltrepassamento dell'errore (già originariamente avvenuto nell'apparire infinito) è semplicemente l'apparire di configurazioni coscienziali in cui è da sempre presente la comprensione dell'errore in quanto errore, e della verità in quanto tale>>.

Ma l’esser <<pervaso in quel momento principalmente da quella particolare serie di configurazioni coscienziali che inscenano la persuasione dell'essere un io empirico che ha fede in qualcosa>>,

significa che l’Io del destino è appunto PERSUASO ossia CREDE <<nell'errore quando gli appare>>, altrimenti tale persuasione scivolerebbe via, non attecchirebbe neppure per un istante, e perciò NESSUN io empirico direbbe MAI:

io sono, io faccio, io vedo, io penso, io sento, etc…,

perché verrebbe immediatamente sconfessato dalla INOBLIABILE consapevolezza della verità dell’Io del destino.

Insomma, una verità davvero LABILE, se si lascia sopraffare dall’errore…

 

Roberto Fiaschi

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martedì 22 agosto 2023

86)- L’ORIGINARIA APORETICITÀ DELL’ESSERE (SEVERINIANO)

 

Nella filosofia di Emanuele Severino, imbattersi in affermazioni come questa è una costante:

<<Ogni ente è incontraddittoriamente identico a sé e differente dal proprio altro; la negazione di ciò è negazione auto-negantesi. È perciò IMPOSSIBILE che un ente sia differente da sé/identico al proprio altro>>.

Per cui la non-contraddizione caratterizzerebbe la struttura originaria (tematizzata da Severino) dell’essere dell’ente, poiché l’essere quale universale concreto è ciò che costituisce la totalità degli enti o delle determinatezze, sì da opporsi al proprio non-essere.

I nostri protagonisti sono perciò due:

l’essere e l’ente (o anche: l’essere e la determinazione), i quali sono sì DISTINTI, ma NON SEPARABILI, giacché entrambi sono LO STESSO, poiché vi è (e tutto è) solo essere.

Per Severino, quindi, la quintessenza dell’IMPOSSIBILE ( = del contraddittorio) consiste, da parte dell’ente, nell’essere (e nel divenire) IDENTICO ALL’ALTRO-DA-SÉ (l’identità dei non-identici) e DIFFERENTE-DA-SÉ (il differire del non-differenziantesi).

L’APORIA dell’essere concreto consiste nell’esser, esso, sia IDENTICO A SÉ che DIFFERENTE-DA-SÉ, quindi nel suo NON-esser-sé.

Poiché (con Severino) l’ente-x DIFFERISCE dall’ente-y e quindi è IMPOSSIBILE che x sia IDENTICO a y, e siccome entrambi gli enti sono integralmente essere, ecco allora che (contro Severino) l’essere DIFFERISCE DA SÉ.

Ciò vuol dire che la CONTRADDIZIONE che (con Severino) si evita negando la contraddittoria IDENTITÀ dell’ente-x con l’ente-y, si ritrova (contro Severino) ab origine nell’essere stesso, giacché x ed y, essendo entrambi integralmente essere, implicano che quest’ultimo sia contraddittoriamente IDENTITÀ (permanendo identico a sé) dei DIFFERENTI (differenziandosi da sé):

E = E; x = E; y = E; x y; E ≠ E.

Affermare (con Severino) che l’ente-x DIFFERISCA dall’ente-y, significa affermare (contro Severino) l’IMPOSSIBILITÀ che l’essere sia IDENTICO A SÉ, perché la DIFFERENZA tra x ed y è interamente ed internamente all’essere.

Quindi, affermare (con Severino) l’IMPOSSIBILITÀ che l’ente-x sia IDENTICO all’ente-y, significa affermare (contro Severino) che l’essere DIFFERISCA DA SÉ, perché la DIFFERENZA tra x ed y è la differenza tra l’essere-di-x e l’essere-di-y, essendo x ed y interamente essere.

Per la stessa ragione, affermare (con Severino) l’IMPOSSIBILITÀ che l’ente-x (o l’ente-y) DIFFERISCA DA SÉ, significa nuovamente affermare (contro Severino) che l’essere DIFFERISCE DA SÉ, perché l’essere-in-quanto-è-x DIFFERISCE dall’essere-in-quanto-è-y, pur essendo entrambi il medesimo essere, sì da dover concludere che l’essere DIFFERISCA DA SÉ tanto quanto l’essere-x differisce dall’essere-y.

S’è detto sopra: “essendo il medesimo essere”, sia come x che come y.

Infatti, a differire dall’essere è SOLTANTO il nihil absolutum (il non-essere), per cui, essendo tutte le determinazioni integralmente essere, esso, in quanto è TUTTE le determinazioni, NON può DIFFERIRE DA SÉ ma deve rimanere sempre e soltanto essere.

Al contempo, però, l’essere-x differisce dall’essere-y e quindi l’essere deve DIFFERIRE DA SÉ, nella misura in cui l’ente-x DIFFERISCE da y, giacché l’essere si struttura DIFFERENTEMENTE in x ed in y, altrimenti questi NON differirebbero tra loro.

Il che equivale a dire, ripeterei, che l’essere si struttura DIFFERENTEMENTE IN SÉ e DA SÉ, sebbene il differente dall’essere sia SOLTANTO il nihil absolutum

Quindi:

(1a)- l’AUTO-NEGAZIONE della negazione dell’INNEGABILE incontraddittorietà identità con sé e della differenza dal proprio altro da parte dell’ente, (1b) è l’implicita affermazione dell’INNEGABILE CONTRADDITTORIETÀ dell’identità-con-sé-e-differenza-da-sé da parte dell’essere.

(2a)- Sì che l’affermazione dell’INNEGABILE incontraddittorietà dell’identità con sé e della differenza dal proprio altro da parte dell’ente, (2b) sia l’implicita affermazione dell’INNEGABILE CONTRADDITTORIETÀ dell’identità-con-sé-e-differenza-da-sé da parte dell’essere.

Se infatti negassimo i punti (1b) e (2b), negheremmo altresì i punti (1a) e (2a), perché gli enti a cui si riferiscono questi ultimi due punti NON sarebbe tra loro differenziantisi, giacché, una volta negati i punti (1b) e (2b), l’essere sarebbe SOLTANTO identico a sé o anche, meglio, indeterminato, e quindi sarebbe un essere privo di enti (di differenze), e così questi NON sarebbero simpliciter

Senonché, la negazione dei punti (1b) e (2b) è anch’essa un ente, il cui differir dagli enti che intende negare, implica che l’essere costituente (anche) tale negazione, sia innegabilmente la CONTRADDITTORIA identità-con-sé-e-differenza-da-sé da parte dell’essere, cosicché la negazione dei punti (1b) e (2b) si auto-neghi, appunto perché anch’essa è pur sempre quell’essere rivelantesi come identità-con-sé-e-differenza-da-sé, esattamente come ciò _ i punti (1b) e (2b) _ che tale negazione vorrebbe negare.

 


Roberto Fiaschi

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