Egli ha scritto:
<<DIFFERENZA ONTOLOGICA E APPARIRE DELLA DIFFERENZA
DEI DIFFERENTI, OSSIA DELLO STESSO ESSENTE COME "ALTRO" DA SE,
NELL'APPARIRE INFINITO. Dicevamo: occorre tenere ferma la differenza
ontologica, in caso contrario non potremmo neppure tenere ferma la distinzione
tra infinito e finito (e dunque tra "apparire infinito" e
"apparire finito"). Riassumendo per sommi capi:
1) un essente qualsiasi, poniamo "s", si
"differenzia" da sé, in quanto è unito al destino (ossia alla
totalità infinita dell'essente), e in quanto è isolato dal destino. Lo
"stesso" cioè si differenzia ("altro" è l'essente
"s" considerato come unito al destino; e "altro" è il
medesimo essente, in quanto isolato dal destino);
2) ciò è precisamente l'apparire della contraddizione: ma il
destino non può consistere in una contraddizione, bensì nel toglimento (o
oltrepassamento) concreto della contraddizione;
3) l'apparire dell'oltrepassamento (toglimento) concreto della contraddizione implica l'apparire concreto
dell'oltrepassato - di conseguenza, esso non può escludere la
"differenza" tra l'essente, in quanto non oltrepassato, e
"questo stesso essente", in quanto oltrepassato (nella dimensione
cioè in cui esso è concretamente oltrepassato, ossia l'apparire infinito, in
cui tale oltrepassamento è eternamente compiuto);
4) tale "differenza" è dunque un tratto essenziale
del destino, ed essa appare in modo duplice: nell'apparire finito, ossia in
modo astratto o formale, avvolto cioè dalla "contraddizione C";
nell'apparire infinito, ossia in modo concreto;
5) nell'apparire infinito appaiono entrambi i termini della
"differenza" (terra unita al destino/terra non unita al destino),
cioè appare questa differenza stessa - tale differenza è
contraddizione (tra il destino e l'isolamento della terra), ma tale
contraddizione può apparire solo COME NEGATA: sicché la stessa terra isolata
può apparire solo in quanto appare come termine di tale contraddizione - e
quindi solo in quanto appare nell'apparire in cui essa appare come negata
(sullo sfondo finito e infinito del destino - formalmente nell'apparire finito,
concretamente nell'apparire infinito, essendo comunque identica la
persintassi);
6) IL PUNTO CHE PIU CI INTERESSA: in che senso, stante
l'inviolabilità della "differenza ontologica", l'essente
"s" che appare nel finito è "altro" da "quello stesso essente"
che appare nell'apparire infinito?
Deve necessariamente essere "altro", si diceva, per
non fare del finito l'infinito. Ciononostante, nessuna positività determinata
può sfuggire all'apparire infinito. Ne consegue, pertanto, quanto si dirà:
«poiché ciò che appare non può essere nulla che non sia
nell'eterno, LA PARTE APPARE IN UN MANCAMENTO, OSSIA NEL SUO ESSERE MANCANTE DI
CIO' CHE POSSIEDE (O CIÒ CHE L' ATTRAVERSA), COME PARTE, IN QUANTO AVVOLTA DAL
TUTTO. IN QUANTO COSI' AVVOLTA, LA PARTE, COME DISTINTA DALL' AVVOLGENTE, NE È
PERÒ ATTRAVERSATA (così come un corpo vivo, sebbene distinto dalla vita, ne è
però attraversato, ed è altro dal cadavere, che solo apparentemente, ossia solo
in quanto sia malamente guardato, è identico al corpo vivo: è appunto in questo
distinguersi che la parte resta determinata (o 'attraversata') da ciò da cui si
distingue; IN QUANTO INVECE APPARE DA SOLA [nella terra isolata - e solo in
essa!], E QUINDI NON APPARE IN QUESTO DISTINGUERSI, OSSIA IN QUESTO ESSER
DETERMINATA, LA PARTE SI ALTERA E QUESTA ALTERAZIONE NON PUO' ESSERE CHE IL SUO
IMPOVERIRSI O IL SUO IMPALLIDIRSI RISPETTO AL VOLTO VERACE CHE RISPLENDE NELLA
COMPAGNIA BEATA DELL'IMMUTABILE» (E. Severino, "Poscritto", p. 102,
corsivo mio).
7) DI CONSEGUENZA, per Severino, l'essente "s", che
"ci" appare, NON può essere qualcosa che appare in modo identico
(come una fotocopia) nell'apparire infinito>>.
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Come è stato ben precisato nel punto 5) da Egon Key:
<<nell'apparire infinito appaiono ENTRAMBI i termini della
"differenza" (terra unita al destino/terra non unita al destino), cioè
appare questa differenza stessa>> (maiuscolo mio: RF).
Vero, e questa è una precisazione che era già stata presa in
esame nel mio summenzionato post 110, al punto (2); infatti, se nell’apparire infinito
NON apparissero ENTRAMBI
gli enti (cioè SIA nel modo in cui l’ente-s appare a noi, nel finito, SIA per
come QUESTO STESSO ente-s appare all’apparire infinito), allora
l’apparire infinito sarebbe PRIVO di una sua parte, quindi NON sarebbe
infinito, cioè non sarebbe l’apparire OMNI-INCLUDENTE.
E giustamente egli ribadisce che <<ciò che appare [qui,
nel finito] non può essere nulla che non sia nell'eterno>> ovvero nell’apparire infinito.
Pertanto, sin qui, sono d’accordo con lui.
Senonché, nella conclusione, egli scrive che
<<7) DI CONSEGUENZA, per Severino, l'essente "s", che "ci"
appare [qui, nel finito], NON può essere qualcosa che appare in modo identico (come una fotocopia)
nell'apparire infinito>>.
COME! Ma se è appena stato giustamente riconosciuto che <<nell'apparire
infinito appaiono ENTRAMBI
i termini della "differenza">>, adesso com’è possibile, che
UNO dei due <<termini della "differenza">> NON
appaia <<in modo
identico (come una fotocopia) nell'apparire infinito>>?
Se UNO dei due termini della differenza NON vi apparisse in modo identico, allora UNO
di quei due termini NON
APPARIREBBE AFFATTO nell’apparire infinito, e quindi sarebbe FALSO che <<nell'apparire
infinito appaiano ENTRAMBI
i termini della "differenza">>!
Questo aspetto è sufficiente ad INFICIARE quanto viene detto
al punto 6), <<IL PUNTO CHE PIU CI INTERESSA>>.
Infatti, nel punto 6), fermo restando che <<per
Severino, l'essente "s",
che "ci" appare [qui, nel finito], NON può essere qualcosa che appare in modo identico (come una fotocopia)
nell'apparire infinito>>,
ciò che viene precisato conduce al risultato per il quale
l’infinito NON ‘vede’ l’ente-s per come "ci" appare qui, nel finito, sì da
far di tale infinito un finito, ossia una parte, appunto perché è mancante dell’essente
"s", che
"ci" appare qui, nel finito.
Vediamo meglio.
Al punto 5), viene detto che <<nell'apparire
infinito appaiono ENTRAMBI
i termini della "differenza" (terra unita al destino/terra non unita
al destino), cioè appare questa differenza stessa
- tale
differenza è contraddizione (tra il destino e l'isolamento della terra)>>,
giacché <<ENTRAMBI i termini della "differenza">> sono
tra loro incompatibili.
E sin qui mi sono dichiarato d’accordo con Egon Key.
Subito dopo, egli aggiunge:
<<ma tale contraddizione può apparire solo COME NEGATA: sicché la stessa terra isolata può apparire [nell’apparire infinito]
solo in quanto appare come termine di tale contraddizione - e quindi solo in
quanto appare nell'apparire [infinito] in cui essa appare come negata
(sullo sfondo finito e infinito del destino - formalmente nell'apparire finito,
concretamente nell'apparire infinito, essendo comunque identica la persintassi)>>
(parentesi quadre mie: RF).
Ma l’apparire COME NEGATA
implica necessariamente L’AFFERMAZIONE di ciò che viene negato.
Ovvero, se s, per come appare a noi nel finito, appare nell’infinito COME NEGATA, deve altresì
apparire, sempre nell’infinito, anche COME s AFFERMATA,
altrimenti nell’apparire infinito apparirebbe la negazione di NON-SI-SA-COSA! Col
risultato che l’infinito mancherebbe dell’AFFERMAZIONE di s, e ciò renderebbe finito l’infinito.
Per cui, dovendo s apparire nell’infinito ANCHE COME AFFERMATA, allora è inevitabile che, sempre
nell’infinito, s appaia
<<in modo identico
(come una fotocopia)>>
cioè identicamente
a come s appare nel
finito; in caso contrario, ricordiamolo, s COME AFFERMATA non apparirebbe nell’infinito
COSÌ COM’È (come appare) nel finito, cosicché l’infinito sarebbe ridotto a
PARTE, in quanto MANCANTE di s come appare nel finito.
Torniamo ancora al punto 6), il quale chiede:
<<in che senso, stante l'inviolabilità della
"differenza ontologica", l'essente "s" che appare nel finito è "altro" da "quello
stesso essente" che appare nell'apparire infinito? Deve necessariamente
essere "altro",
si diceva, per non fare del finito l'infinito. Ciononostante, nessuna
positività determinata può sfuggire all'apparire infinito>>.
E tutto ciò è quanto scrivevo nel mio post (n° 110), allorché, nel
punto (2) di esso, evidenziavo che
<<nell’apparire infinito avremmo DUE enti-x reciprocamente
DIFFERENTI e
solo UNO dei quali apparirebbe nella sua concretezza _ cioè
l’ente-x ‘visto’ nell’apparire infinito insieme alla simultaneità
di tutte le sue (di x) infinite costanti; ciò, in forza del fatto
che, secondo Severino, un ente NON POSSA MAI DIVENTARE (TRASFORMARSI in)
un altro. Mentre, invece, il primo x rimarrebbe eternamente astratto ANCHE
nell’apparire infinito; ma ciò, allora, si deve dire di TUTTI gli enti che
appaiono nel finito! Cosicché, in realtà, non solo di NESSUN ente, nel finito,
accada MAI il toglimento progressivo della propria parzialità/astrattezza
(giacché,
AGGIUNGO QUI, x non appare nell’infinito come
libero dalla contraddizione C ma sempre e soltanto come è nell’apparire
finito), ma nel finito NON VI PUÒ ESSER ALCUNA contraddizione
C (grazie al progressivo toglimento della quale la concretezza degli
enti che appaiono andrebbe vieppiù concretandosi), proprio perché tutti gli
enti, nell’apparire infinito, verrebbero ‘visti’ esattamente COME il nostro
ente-x cioè COME li vediamo qui nel finito, cioè astrattamente come
al punto (1)>>.
Riprendendo il discorso del punto 6), ebbene, la spiegazione
che segue alla domanda non fa che ribadire l’inconciliabilità tra
astratto/concreto, o tra parte/tutto.
Infatti, ove è scritto
<<poiché ciò che appare non può essere nulla che non
sia nell'eterno, LA PARTE APPARE [nell’infinito] IN UN MANCAMENTO, OSSIA
NEL SUO [della parte] ESSERE MANCANTE DI CIO' [l’essere avvolta dal
tutto] CHE POSSIEDE (O CIÒ CHE L' ATTRAVERSA), COME PARTE, IN QUANTO AVVOLTA
DAL TUTTO>>,
non fa altro che confermare come la parte _ s _ debba apparire nell’infinito
ANCHE come <<MANCANTE DI CIO' [l’essere avvolta dal tutto] CHE
POSSIEDE (O CIÒ CHE L' ATTRAVERSA), COME PARTE, IN QUANTO AVVOLTA DAL TUTTO>>.
Ossia la parte _ s _ appare nell’infinito SIA <<in modo identico>>
a come essa è nel finito; o anche: la parte appare nell’infinito <<come una fotocopia>>
di come essa è nel finito, SIA come da sempre libera dalla contraddizione
C cioè in <<COMPAGNIA BEATA DELL'IMMUTABILE>>.
È ovvio; ché, se così non fosse, il tutto ( = l’apparire
infinito) sarebbe a sua volta una parte in quanto sarebbe MANCANTE.
E prosegue precisando:
nell’apparire infinito, s, la parte, <<IN QUANTO COSI' AVVOLTA,
LA PARTE, COME DISTINTA DALL' AVVOLGENTE, NE È PERÒ ATTRAVERSATA (così come un corpo vivo,
sebbene distinto dalla vita, ne è però attraversato, ed è altro
dal
cadavere, che solo apparentemente, ossia solo in quanto sia malamente guardato,
è identico al corpo vivo: è appunto in questo distinguersi che la parte resta
determinata (o 'attraversata') da ciò da cui si distingue>>.
Ma ad esserne così <<ATTRAVERSATA>> è la parte _ s _ che, nell’infinito, è
da sempre libera dalla contraddizione C, ossia è in <<COMPAGNIA
BEATA DELL'IMMUTABILE>>, sì che essa sia <<come un corpo
vivo>> che <<è altro dal cadavere>>, ove questo cadavere
è la parte PRIVA
della <<COMPAGNIA BEATA DELL'IMMUTABILE>>, cioè la parte, il
finito.
Dunque, anche quest’ultimo DEVE comparire nell’infinito <<in modo identico>>
a come esso è nel finito, cioè <<come una fotocopia>> di come esso è nel
finito, affinché l’infinito sia conscio della differenza ontologica.
Purtroppo, però, da ciò emerge UN’ULTERIORE CONTRADDIZIONE,
consistente di un cadavere _ cioè di s come appare a noi nel finito ossia SENZA la
<<COMPAGNIA BEATA DELL'IMMUTABILE>> _ il quale, apparendo
nell’infinito <<in
modo identico>> a come esso è nel finito, appaia al contempo
INSIEME e NON-INSIEME alla <<COMPAGNIA BEATA DELL'IMMUTABILE>>,
appunto perché anche ciò che, nel finito, NON appare in <<COMPAGNIA
BEATA DELL'IMMUTABILE>>, appare nell’infinito ugualmente in <<COMPAGNIA
BEATA DELL'IMMUTABILE>> restando, però ed al contempo, PRIVO della <<COMPAGNIA
BEATA DELL'IMMUTABILE>>!!!
Roberto Fiaschi
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