giovedì 27 febbraio 2025

160)- SE SUONANO, SONO I TESTIMONI DI SEVERINO…

 
Il Testimone del destino Alessandro Vaglia ha recentemente dichiarato:

<<non vi si deve scandalizzare se la verità l'ha indicata Emanuele Severino, direi piuttosto che lo scandalo sta nel non ammetterlo. Cioè nel non ammettersi. Cioè nel continuare a contraddirsi anche quando l'evidenza dello stante si manifesta nella filosofia>>.

Se suona incontraddittoriamente alla vostra porta, voi apritegli contraddittoriamente…


Roberto Fiaschi

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mercoledì 26 febbraio 2025

159)- QUALE RAGIONE/LOGOS?

 

E quindi: QUALE logos SBAGLIA?

Sì, perché il logos (la ragione) è solitamente ritenuto l’ESCLUSIVO ‘autore’ dell’indagine filosofica, ed è altresì ritenuto sempre il MEDESIMO logos, nonostante le differenze teoretico/aletiche che da esso sono scaturite nel corso della storia del pensiero, tanto da assumere, nelle filosofie idealiste, valore ASSOLUTO/DIVINO.

<<Non ascoltando me, ma il logos, è saggio intuire che tutto è Uno>>. (Eraclito, frammento 50).

Per cercar di rispondere al titolo di questo post, prendo come riferimento la filosofia di Emanuele Severino e la filosofia di Giovanni Romano Bacchin, giacché queste sono le due concezioni con le quali mi imbatto più frequentemente che con altre.

A titolo di esempio, un fondamentale luogo di pluri-decennale CONTRASTO è rappresentato dalla loro concezione dell’ENTE.

(1)- Per Severino, ogni ente è INCONTRADDITTORIAMENTE identico a sé e differente dal proprio altro, dove il proprio altro, cioè B, entra sì a determinare necessariamente A, ma senza che ciò implichi la contraddittorietà di B in eterna relazione determinante con A, perché:

<<essere con è essere non>>,

ossia: essere con B è essere non B (o: non è essere B) da parte di A.

Ciò comporterebbe l’INCONTRADDITTORIETÀ di ogni ente, di ogni determinatezza, quindi (secondo il logos di Severino) la sua ETERNITÀ e la sua INDIVENIENZA.

***

(2)- Per Bacchin, ogni ente è CONTRADDITTORIAMENTE identico a sé, giacché l’altro da A, cioè B, determina necessariamente ed essenzialmente l’identità di A (e viceversa); quindi B non si pone come accidentale nei confronti di A bensì concorre alla sua intrinseca identità, sì che, all’opposto di Severino, A (ogni ente) sia costituito come unità o identità di sé (A) ed altro da sé (B, non-A; A=non-A):

l’ente è sé e non-sé; è A e non-A; esso è il proprio contraddirsi/negarsi.

Ciò comporterebbe la CONTRADDITTORIETÀ di ogni ente, di ogni determinatezza, quindi (secondo il logos di Bacchin) la sua INESSENZA (il suo TOGLIERSI/NEGARSI o il suo non essersi MAI posto).

Pertanto, i punti (1) e (2) sono reciprocamente CONTRAPPONENTISI sul piano ontologico.

È chiaro che qualora una delle due (o entrambe le) tesi si rivelasse filosoficamente insostenibile, verrebbe meno tutta o gran parte dell’impalcatura filosofica a cui essa inerisce.

E se in entrambe opera sempre l’UNICO e MEDESIMO logos, allora è lecito riproporre la domanda iniziale:

QUALE logos dei punti (1) e (2) SBAGLIA?

Giacché dal MEDESIMO logos _ se davvero esso e soltanto esso fosse deputato alla Verità _ dovremmo aspettarci IDENTICHE (o quanto meno non reciprocamente contraddicentesi) tesi e conclusioni… Invece così non accade, per cui è ‘difficile’ tenerle ambedue FERME.

A meno che non si facciano entrare (e si fanno entrare quasi sempre) in campo giudizi di questo tenore:

<<Tizio non vede che…>>;

<<Caio non ha capito che…>>;

<<Sempronio dovrebbe andare a studiare…>>,

etc…

Quindi, la verità di (1) o di (2) verrebbe decisa dalla (implicita o meno) OTTUSITÀ/INCAPACITÀ DI VEDERE del proprio interlocutore, il che NON pare un grande criterio di giudizio logico-filosofico-razionale…

Lasciando perciò da parte le presunte incapacità di capire/vedere, rimane in campo soltanto la pretesa dei due filosofi _ la pretesa del MEDESIMO logos _ secondo i quali le proprie tesi sarebbero rigorosamente, se non ESCLUSIVAMENTE fondate ed argomentate su basi LOGICO-RAZIONALI, benché con esiti OPPOSTI.

Per cui la mia domanda iniziale è la stessa che chiude questo post:

QUALE logos dei punti (1) e (2) SBAGLIA?

E qualora uno dei due SBAGLI, sarà sempre il MEDESIMO logos universale-divinizzato a sbagliare, oppure dovremo molto più semplicemente concludere che vi siano MOLTI logoi non-divini ma singoli-personali?

 

Roberto Fiaschi

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martedì 25 febbraio 2025

158)- L’APORIA DEL PENSIERO ASSOLUTIZZATO

 

Pretender di conseguire il ‘VERO-SENZA-CONTRADDIZIONI’ mediante l’esclusiva speculazione filosofica, significa, presto o tardi (in genere molto presto), ritrovarsi nel vicolo cieco dell’APORIA.

Ad esempio, riporto questo passaggio di Marco Cavaioni (rSseotopdnsgi83c1a9g4Achistt86f02u7lmcgd78o33m3tie40ia055i5a): 

<<Chi distingue pensiero e pensato, proprio perché li distingue li riduce a pensati (pretende di averli pensati) entrambi, cosicché distingue soltanto due pensati. Chi, di contro, identifica pensiero e pensato, di nuovo per poterli identificare li ha supposti distinti, col che ricade nell'aporia precedente. Ne segue che pensiero e pensato non sono distinti ossia altri tra loro, ma nemmeno identici (panico tra chi vorrebbe fare del principio di non contraddizione la "legge del pensiero")>>.

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Col brano su riportato, Marco Cavaioni intende giustamente mettere in scacco (o mostrare il limite de) il principio di non contraddizione (PdNC), prendendo come luogo privilegiato l’impossibilità (a suo avviso) di DISTINGUERE <<pensiero e pensato>> perché, chi <<li distingue li riduce a pensati entrambi, cosicché distingue soltanto due pensati>>.

Tuttavia, qui, la sua INTENZIONE pare NON realizzarsi, sia perché innalza il PENSIERO al rango di Assoluto-non-entificabile, sia perché, soprattutto, egli continua ad avvalersi della NEGAZIONE ESCLUDENTE ossia di quello stesso PdNC che invece vorrebbe infrangere (o limitare all’ambito linguistico e degli enti).

Vediamo come sia lo stesso Marco Cavaioni, all’inizio del suo post, ad AVALLARE (suo malgrado?) la loro DISTINZIONE.

In che modo?

Egli parla di <<pensiero e pensato>>, cioè utilizza due termini sicuramente NON-sinonimici, giacché il primo è l’ASSOLUTO mentre il secondo, in quanto (è) pensato, DIPENDE dal primo; un po’ come la DISTINZIONE tra Creatore e creatura.

Dunque mi pare evidente come l’assolutizzazione del PENSIERO (operata dalla Scuola del filosofo Giovanni Romano Bacchin della quale Marco Cavaioni è un esponente di spicco), abbia già IN SÉ la DISTINZIONE tra i due termini, che poi trattasi di DISTINZIONE ontologica, ossia _ rispettivamente _ tra l’ESSERE e l’ENTE/INESSENTE.

Ora, ESCLUDERE che il PENSIERO possa essere (un) pensato, come fa Marco Cavaioni, ri-conferma la loro reale DISTINZIONE, aprendoci peraltro alla comprensione del primo, giacché se il PENSIERO non potesse esser anche (un) pensato, NON capiremmo affatto a che cosa staremmo riferendoci parlando appunto di PENSIERO.

Se egli, al fine di NON ridurre il PENSIERO a pensato (cioè a ente), NEGA la loro DISTINZIONE, ebbene, si trova a ridurre nuovamente il PENSIERO a pensato, poiché se il pensato, in quanto ente, NON si DISTINGUE dal PENSIERO, allora anche quest’ultimo sarà un ente, in quanto, ripeto, NON si DISTINGUE dal pensato/dall’ente.

E già in tutto ciò vediamo all’opera quel PdNC che Marco Cavaioni NEGA possa valere come <<"legge del pensiero">>.

Eppure, egli osserva che <<pensiero e pensato non sono distinti ossia altri tra loro, ma nemmeno identici (panico tra chi vorrebbe fare del principio di non contraddizione la "legge del pensiero")>>.

Però si è visto come PENSIERO e pensato NON possano NON essere DISTINTI o <<altri tra loro>>; ribadiamolo:

se non lo fossero, allora lo stesso PENSIERO sarebbe (un) pensato/un ente, in quanto NON DISTINGUENTESI dai pensati/enti.

D’altronde, la loro effettiva DISTINZIONE è il fondamento sulla base del quale Marco Cavaioni NEGA che il PENSIERO possa essere (un) pensato perché, per negare che possa esserlo, il PENSIERO deve DISTINGUERSI dall’essere (un) pensato.

Pertanto, aporia delle aporie:

1)- AUT si ESCLUDE che il PENSIERO possa essere (un) pensato;

e allora ciò ri-conferma la loro reale DISTINZIONE, facendo così del PENSIERO un pensato.

2)- AUT si NEGA la loro reale DISTINZIONE;

e allora ci si ritrova a ridurre nuovamente il PENSIERO a pensato.

In ENTRAMBI i casi il PENSIERO si riduce a (un) pensato, con buona pace della sua (del PENSIERO) assolutezza ed impensabilità…

 

Roberto Fiaschi

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giovedì 20 febbraio 2025

157)- EGON KEY: «NON C'È UN "QUALCUNO", INTESO COME SOGGETTO AGENTE»?

 

Proseguimento del post n° 156. Qui si tratta, però, della questione circa la REALE esistenza dell’io-empirico (io, tu, egli, loro, noi…).

Per la tesi severiniana (che la nega) esposta da Egon Key, l’esistenza dell’io-empirico è soltanto un mero PRESUPPOSTO infondato, una FEDE cioè un ERRORE/positivo significare del NULLA, <<una persuasione della terra isolata>>.

Dunque, ha scritto Egon Key:

<<Quanto poi alla questione che sarebbe contraddittorio affermare che il vero "io" è l'Io del destino, giacché "chi" afferma ciò è esso stesso errore (ossia individuo), si risponde che non c'è un "qualcuno", inteso come soggetto agente: tutto ciò che accade, accade infatti per la "volontà" del destino; d'altra parte, il "qualcuno" (inteso come un soggetto che si contrappone a un oggetto) è, si è detto, un contenuto del cerchio dell'apparire (e una persuasione della terra isolata)>>.

Come si può constatare, è (APPARE che sia) lo stesso Egon Key ad aver risposto:

<<si risponde che non c'è un "qualcuno", inteso come soggetto agente>>.

Come minimo, si dovrà riconoscere come NEPPURE Egon Key riesca ad uscire (o ad astrarsi) dall’esser ciò che egli ritiene essere un presupposto/fede/positivo significare del nulla, giacché ANCHE LUI si sta comportando come uno tra i tanti io-empirici invitato a fornire giustamente la PROPRIA risposta.

Sarebbe perciò superfluo domandargli:

CHI è che risponde che <<non c'è un "qualcuno", inteso come soggetto agente>>?,

giacché riceveremmo DA LUI un’altra risposta circa la quale dovremmo nuovamente chiedergli:

CHI è che risponde in tal modo?

In alternativa al nostro presupposto di partenza, dovremmo supporre che Egon Key stia rispondendo sottintendendo al contempo di NON esser LUI a rispondere?

O dovremmo forse ritenere che NESSUNO, qui, NEPPURE Egon Key abbia mai risposto ad alcunché?

A meno che non ci piacciano queste acrobazie ‘filosofiche’, difficile negare di trovarci dinanzi alla risposta DELL’io-empirico-Egon Key, sembra persin banale osservarlo…

L’esistenza dell’io-empirico è un presupposto che NESSUNA dimostrazione della sua inesistenza riuscirà mai a scalfire, giacché esso è il pre-requisito ineludibile che sta alla base di ogni dimostrazione, in quanto essa richiederebbe la presenza di un DIMOSTRANTE, cioè, nuovamente, la presenza di quell’io-empirico senza il quale NON si potrebbe elaborare alcuna dimostrazione.

Inoltre, che senso avrebbe precisare che <<non c'è un "qualcuno", inteso come soggetto agente>>, SE questo <<"qualcuno", inteso come soggetto agente>> NON APPARISSE, NON FOSSE GIÀ NOTO?

Che senso avrebbe negare la differenza tra il bianco ed il nero, SE tale DIFFERENZA NON APPARISSE GIÀ?

Quindi è contraddittorio negare il <<"qualcuno">>, poiché esso APPARE come ciò che, secondo l’io-empirico Egon Key, va negato!

Quindi si innesca una sorta di élenchos attraverso la negazione che vi sia <<un "qualcuno">> che pensa/scrive ciò, appunto perché APPARE che la sua negazione sia pur sempre la negazione effettuata DA <<"qualcuno">>, cioè dall’io-empirico Egon Key che nega che vi sia un <<"qualcuno">> quale autore del negare; quindi egli nega sé stesso, sì che Egon Key NON abbia negato niente.

Non è così? No?

Bene, ma allora occorrerà DIMOSTRARE DA PARTE DI NESSUN <<soggetto agente>> che NON vi sia alcun <<soggetto agente>>…

In attesa…

 

Roberto Fiaschi

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156)- EGON KEY: «DIMOSTRAZIONE» DELL’IO DEL DESTINO?

Riprendo, dal gruppo https://www.facebook.com/groups/filosofiaedestino, una serie di interventi di Egon Key circa la tesi severiniana dell’inesistenza (o l’illusorietà) dell’io-empirico, da lui riassunta in questi termini:

<<non c'è un "qualcuno", inteso come soggetto agente>>.

Non posso che partir dal presupposto di esser io-empirico-Roberto, qui ed ora, a scrivere ciò che voi-io-empirici state leggendo, così come non potrete che esser voi-io-empirici a leggere ciò che ho scritto. QUESTO è il mio nonché COMUNE/UNIVERSALE presupposto di partenza.

Adesso, invece, andremo a cercare nei vari passaggi di Egon Key la DIMOSTRAZIONE (filosofica) dell’esistenza dell’Io trascendentale e, quindi, della contigua NEGAZIONE di tale presupposto ossia dell’io-empirico, la cui esistenza viene normalmente tacciata di INGENUITÀ pre-filosofica. La filosofia ha la vocazione di sottoporre tutto a critica (altrimenti cosa ci starebbe a fare?), per cui essa non si accontenta del senso comune e di ciò che comunemente/universalmente appare.

Nell’eventuale ASSENZA di esse (DIMOSTRAZIONE/NEGAZIONE), continuerò a tenermi ben stretto il mio 'presupposto'.

Se non altro perché non posso, io-empirico, DIMOSTRARE questo mio presupposto di base, perché, per farlo, sarei pur sempre io-empirico (o qualcun altro: e CHI, se no?) a dover DIMOSTRARE in via non-presuppositiva di essere il consapevole lettore/autore dei miei post (od un qualunque altro io: e CHI, se no?), trovandomi perciò nella bizzarra situazione ove io, in quanto PRESUPPOSTO INDIMOSTRATO, dovrei DIMOSTRARE non-presuppositivamente di esser davvero io quel <<"qualcuno", inteso come soggetto>> che effettua consapevolmente una (o che è l’autore della) DIMOSTRAZIONE!

Cominciamo perciò la ricerca di quella DIMOSTRAZIONE/NEGAZIONE, portandoci sul seguente brano di Severino che Egon Key riporta:

<<si potrebbe affermare con verità l'esistenza di "qualcuno" "a" cui l'apparire apparisse e che si costituisse come qualcosa di diverso dall'apparire stesso (ad esempio come "individuo umano", "persona", "corpo", "cervello", "mente", ecc), solo se tale esistenza fosse qualcosa che appare "nel" cerchio dell'apparire del destino della verità; ma allora il "qualcuno" non sarebbe qualcosa di diverso dall'apparire, qualcosa "a" cui l'apparire dovrebbe apparire, ma sarebbe, appunto, un contenuto dell'apparire>> - ("La Gloria", Adelphi, p. 213).

Altrove, subito dopo questo brano di Severino, Egon Key fa seguire questa ulteriore precisazione:

<<Ad abundantiam: l'apparire appare a sé stesso; se apparisse "a qualcuno", questo qualcuno sarebbe, daccapo, "coscienza", ossia apparire; e se si volesse affermare che anche quest'ultimo apparire apparisse "a qualcuno" si incorrerebbe in un regressus in indefinitum con la conseguente impossibilità della posizione dell'apparire, sicché nulla mai potrebbe apparire>>.

Sempre in altro post, ma strettamente connesso al tema in oggetto, Egon Key scrive:

<<Il "qualcuno" a cui l'apparire apparirebbe, appare esso stesso nel cerchio dell'apparire, come un contenuto tra i tanti che appaiono. Ossia: è un contenuto del cerchio dell'apparire anche il (creduto) "mio" atto coscienziale: «l'attuale apparire [di qualcosa] non è 'mio', ma sono io stesso» [in quanto cioè "Io del destino"] ("La terra e l'essenza dell'uomo", p. 215). Scrive ancora Severino: «l'apparire della verità non è un atto individuale, ma è il mostrarsi di ciò che appare [...] Il mostrarsi ['questo' stesso mostrarsi] non è il mio atto di coscienza, perché il 'mio' atto di coscienza è esso stesso una delle cose che si mostrano. Perché diciamo: "Io esisto"? Perché appaio (perché appare l'errore in cui io consisto). Se non apparissi insieme alla libreria, al lampadario, alle stelle, non potrei dire che io esisto. Si può affermare che "io esisto", perché appaio. E mi mostro in quale luogo? In quel luogo dove è tutto ciò che si mostra. E allora io non sono il lanternaio che fa' luce sui luoghi: la luce è luce che illumina i luoghi e io appartengo a uno di questi luoghi [uno degli infiniti cerchi finiti dell'apparire] . L'apparire della verità non è la coscienza che "uno" ha della verità» ("La legna e la cenere"). D'altra parte, la dimostrazione offerta qui sopra è limpida e di facile comprensione: l'apparire appare a sé stesso, il destino appare a sé stesso; se apparisse "a qualcuno", questo qualcuno sarebbe, daccapo, "coscienza", ossia apparire; e se si volesse affermare che anche quest'ultimo apparire apparisse "a qualcuno" si incorrerebbe nel regressus in indefinitum con la conseguente impossibilità della posizione dell'apparire, sicché nulla mai potrebbe apparire>>.

Ecco, qui sopra Egon Key parla di <<dimostrazione>>.

A quale dimostrazione si riferisce?

A questa; rileggiamola:

<<Il mostrarsi ['questo' stesso mostrarsi] non è il mio atto di coscienza, perché il 'mio' atto di coscienza è esso stesso una delle cose che si mostrano. Perché diciamo: "Io esisto"? Perché appaio (perché appare l'errore in cui io consisto). Se non apparissi insieme alla libreria, al lampadario, alle stelle, non potrei dire che io esisto. Si può affermare che "io esisto", perché appaio. E mi mostro in quale luogo? In quel luogo dove è tutto ciò che si mostra. E allora io non sono il lanternaio che fa' luce sui luoghi: la luce è luce che illumina i luoghi e io appartengo a uno di questi luoghi>>.

Come egli ha osservato, essa <<è limpida e di facile comprensione>>, ma NON è una DIMOSTRAZIONE o, se intende esserla, a mio parere NON coglie nel segno.

Vediamo.

La DIMOSTRAZIONE, secondo Egon Key, consisterebbe nel comprendere che, SICCOME <<il 'mio' atto di coscienza è esso stesso una delle cose che si mostrano>>, cioè <<Il "qualcuno" a cui l'apparire apparirebbe, appare esso stesso nel cerchio dell'apparire, come un contenuto tra i tanti che appaiono>>, ALLORA, con ciò, sarebbe DIMOSTRATO che <<io non sono il lanternaio che fa' luce sui luoghi>>, appunto perché io-empirico <<appartengo a uno di questi luoghi>>. 

Ma, ripeterei, questa NON è una DIMOSTRAZIONE bensì è soltanto l’ESPLICITAZIONE di una tesi o, al meglio, è la PARVENZA di una DIMOSTRAZIONE, giacché l’essere <<un contenuto tra i tanti che appaiono>> NON esaurisce le alternative alla conclusione secondo la quale, ALLORA, <<io non sono il lanternaio che fa' luce sui luoghi>>. 

Infatti, il MIO essere <<un contenuto tra i tanti che appaiono>> NON TOGLIE affatto che quei <<tanti che appaiono>> siano illuminati da ME nel mentre che io-empirico illumino ANCHE ME STESSO, cioè nel momento in cui sono AUTO-cosciente del mio illuminarMI, oltre che cosciente di illuminare anche i contenuti di cui sono cosciente (tra i quali, appunto, vi sono io).

Dunque, io-empirico sono <<il lanternaio che fa' luce sui luoghi>> facendo luce anche su me stesso (cioè AUTO-illuminandomi) come <<un contenuto>> tra i tanti che MI appaiono, così come una lampada illumina ciò che le sta intorno illuminando ANCHE SÉ STESSA come uno dei molti oggetti illuminati. 

Io-empirico, perciò, sono illuminante ( = cosciente de) gli oggetti, illuminante ME STESSO ( = AUTO-cosciente) nel mentre che so ( = cosciente di essere AUTO-cosciente) di illuminare i tanti oggetti.

Quindi, se <<l'apparire appare a stesso>>, questo <<a stesso>> è il MEDESIMO <<"a qualcuno">> _ è l’io-empirico _ a cui l’apparire appare apparendo, appunto, <<a stesso>>.

Per cui è tolto il <<regressus in indefinitum>> _, se a sua volta <<quest'ultimo apparire apparisse "a qualcuno">>…

L’io-empirico è lo stesso cerchio dell’apparire FINITO, poiché tale <<"qualcuno">> non è <<qualcosa di diverso dall'apparire>>, essendo, tale <<"qualcuno">>, lo stesso io-empirico il quale, in quanto AUTO-cosciente ( = cosciente di sé), appare-a-sé nelle vesti del ME, cioè appare a sé (anche) come CONTENUTO riflessivo di sé stesso…

Egon Key precisa che <<l'Io è il trascendentale di cui tutto ciò che appare è un contenuto; e il contenuto include il proprio apparire, diversamente il contenuto medesimo non potrebbe apparire: è presente (all'apparire trascendentale) la presenza (apparire empirico) del qualcosa, vale a dire apparire dell'apparire, che è saputo come tale in quanto Io (coscienza dell’autocoscienza). In tal senso, dunque, un qualsiasi contenuto che appare NON è "mio", ma SONO IO STESSO, in quanto Io del destino). Pertanto: all'apparire trascendentale che "io" sono (in quanto, in verità, esser Io del destino, ossia uno degli infiniti cerchi finiti dell'apparire) appare l'apparire empirico (l'apparire di un albero), cioè tale contenuto coscienzale>>.

Ma che nell’Io trascendentale <<il contenuto includ[a] il proprio apparire>> perché <<diversamente il contenuto medesimo non potrebbe apparire>>, è asserzione che può benissimo essere ascritta all’io-empirico.

Infatti, come già visto, l’io-empirico è una lampada che, illuminando l’ambiente circostante (gli oggetti), ILLUMINA ANCHE SÉ STESSA, il che vuol dire, fuor di metafora, che <<il contenuto include il proprio apparire>> in quanto è AUTO-coscienza, coscienza di sé.

Infatti, è presente all’io-empirico la presenza <<del qualcosa, vale a dire apparire dell'apparire, che è saputo come tale in quanto Io (coscienza dell’autocoscienza)>>; cioè all’io-empirico <<la presenza (apparire empirico) del qualcosa>> è presente, è saputa, giacché tale io è <<coscienza dell’autocoscienza>>, cioè cosciente di SAPERE-di-SÉ, di essere AUTO-COSCIENTE.

Per Severino <<Solamente il presupposto dell'inobiettivabilità del pensare porta a ritenere che, pensando, si formi sì, all'interno del pensiero, uno spettacolo, ma che l'apparire dello spettacolo non faccia parte dello spettacolo stesso, ma che se ne stia dietro le spalle, come una sorgente luminosa che illumina le altre cose, restando essa all'oscuro>> - (“Essenza del nichilismo”).

Senonché, il pensare è OBIETTIVABILE nella misura in cui sono conscio del (mio) pensare.

l’io-empirico, proprio in quanto AUTO-cosciente, NON può essere paragonato a quella <<sorgente luminosa che illumina le altre cose, restando essa all'oscuro>>, appunto perché l’AUTO-coscienza è precisamente quello stare alla luce DI SÉ da parte di sé cioè dell’io, AUTO-coscienza che invece Severino vorrebbe riferire soltanto ad un RIDONDANTE Io trascendentale.

L’<<apparire dello spettacolo>> fa parte <<dello spettacolo stesso>>, ed in ciò consiste l’AUTO-coscienza dell’io-empirico, altrimenti saremmo soltanto coscienti, non AUTO-coscienti.

Giunto al termine, dopo aver setacciato tutti i vari brani di Egon Key, nessuna DIMOSTRAZIONE è stata rintracciata; soltanto il suo tono ASSEVERATIVO ha potuto dare la falsa impressione di avere dinanzi un post che DIMOSTRASSE la tesi da lui sostenuta.

 

Roberto Fiaschi

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mercoledì 19 febbraio 2025

155)- FRANCO BERTOSSA: HEIDEGGER, DIO E IL NIENTE

Vorrei commentare il seguente post di Franco Bertossa (psoerdStnoa1i0831fat 551lc0caiaamh72hf7f1g9tacllhlmh3u64m304), maestro di Aikido nonché Buddhista Zen:

<<Per questa ragione [nel pensiero biblico e metafisico classico] non preoccupa neppure la difficoltà [nel dover assumere] che, se Dio crea dal niente, bisogna che proprio lui debba sapersi rapportare al niente. Ma se Dio è Dio [onnisciente, onnipotente.. e senza altri limiti in sé], e dunque se «l'assoluto» esclude da sé ogni nientità [limitazione],

allora

Dio non può conoscere il niente.

......

Che cos'è metafisica? - Martin Heidegger

......

Questo chiarissimo e cogente pensiero di Heidegger mostra incontrovertibilmente che l'idea della creazione porta in sé una decisiva contraddizione. Essa contraddizione può mettere in grossa crisi chi, muovendo onestamente da posizioni ebraico-cristiane (anche islamiche), cerca la verità. Ma se la si sfonda, ci si offre finalmente la possibilità del pensiero dell'essere - da parte dell'essere circa l'essere. Ciò è evento rarissimo mentre dovrebbe incarnare la imprescindibile consapevolezza di ogni adulto. Ed essere base del Buddhismo europeo.

......

Franco Bertossa

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Comincio da quanto ha scritto Heidegger.

A questo tema ci si può avvicinare da diverse prospettive.

Qui, mi limito a considerare soltanto la prospettiva più comune, ovvero quella che intende il NIENTE come l’assolutamente inesistente.

Sulla base di questa accezione, dire che Dio crea <<dal niente>>, vuol dire che Dio NON crea da qualcosa di pre-esistente (men che meno il NIENTE pre-esiste a Dio), bensì che Egli trae gli enti esclusivamente ed unicamente DA SÉ STESSO, giacché Egli è lo stesso Essere o Ipsum esse subsistens.

Certo, prima di essere creati, gli enti NON SONO, cioè sono ancora NIENTE. Ma questo è un altro modo per dire che il loro NON-ESSERE (che la productio ex nihilo sui) coincide con il loro ESSERE in potenza.

Quindi, Dio ha in sé quel NIENTE (o NON-ESSERE) il quale, però, non è un àmbito o un luogo che sussista come NIENTE e che perciò LIMITI Dio, appunto perché ci stiamo ponendo dalla prospettiva secondo la quale conveniamo che il NIENTE sia l’inesistente per eccellenza e che perciò NON possa fungere da LIMITE alcuno.

Per cui NON <<preoccupa neppure la difficoltà [nel dover assumere] che, se Dio crea dal niente, bisogna che proprio lui debba sapersi rapportare al niente>>, proprio perché quest’ultimo non è un ente con il quale ci si possa rapportare, essendo, invece, l’ESSERE in potenza, la cui NIENTITÀ dell’atto (cioè dell’ente creato), daccapo, non si costituisce come un ente con il quale rapportarsi, essendo infatti potenza-di-ESSERE, inesauribile possibilità latente non ancora attuata, ossia creata come un qualcosa che possa stare dinanzi a Dio pur senza essergli ESTERNO.

Chiaramente, questo discorso ci conduce ad una ‘logica’ che NON rientra più nel dominio del principio di non-contraddizione (pur rientrandovi! Ma questo è un altro discorso che ci condurrebbe lontano).

Concludo con Heidegger osservando che, quand’anche assecondassimo la sua asserzione secondo la quale <<se «l'assoluto» esclude da sé ogni nientità [limitazione], allora Dio non può conoscere il niente>>, tale esclusione PRESUPPONE la conoscenza di quel NIENTE che è stato escluso, cosicché Dio, comunque, CONOSCA il NIENTE, seppur come negato.

Per quanto riguarda il commento di Franco Bertossa, NON concordo sul fatto che Heidegger abbia mostrato <<incontrovertibilmente che l'idea della creazione porta in sé una decisiva contraddizione>>.

E qui si aprirebbe un’altra prospettiva rispetto a quella poc’anzi esposta; altra ed al contempo NON-altra, ma proprio per questo essa è davvero altra.

Infatti, potremmo scorgere in Dio <<una decisiva contraddizione>> SOLTANTO a patto che il Lui viga la logica vigente nel nostro mondo, dominato dal già menzionato principio di non-contraddizione.

Ciò però ridurrebbe Dio ad un ente o ad un oggetto (limitato) tra i tanti.

Ma, anche qui, si aprirebbe un amplissimo discorso… Per cui, per ora, mi sembra sufficiente fermarmi qui.

 

Roberto Fiaschi

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mercoledì 12 febbraio 2025

154)- SE LA RAGIONE PRE-FILOSOFICA È PIÙ RAGIONEVOLE DELLA RAGIONE FILOSOFICA…


Restiamo terra-terra, nel piano della RAGIONE comune, con sommo dispiacere per quei filosofi che, non senza un certo disprezzo, ritengono essere il piano del PRE-FILOSOFICO, e diciamo che normalmente (a parte patologiche eccezioni), accade:

1- che ciascuno di noi abbia fame;

2- che ognuno di noi, perciò, mangi, mastichi il cibo per poi inviarlo nello stomaco;

3- che ciascuno di noi assimili il bolo ingerito;

4- infine, accade che ciascuno di noi espella le feci derivanti dal cibo non assimilato.

Eppure, anche la RAGIONEVOLEZZA del rapporto consequenziale mostrato in questa sequenza, da certa filosofia è sovente ritenuta una RAGIONEVOLEZZA infondata in quanto pre-critica, luogo comune, ingenuità, fede, opinione, convenzione, apparenza

Ad esempio, il filosofo Emanuele Severino avrebbe molto da eccepire a che la RAGIONEVOLEZZA/LOGICITÀ intrinseca alla suddetta sequenza fisiologico-fenomenologica possa fungere da criterio di verità filosofico. Per lui, la LOGICITÀ di quelle quattro fasi non sarebbe altro che la contraddittoria LOGICITÀ del nichilismo che le interpreterebbe erroneamente come TRASFORMAZIONE.

Assumiamo, tuttavia, che la tale sequenza sia LOGICA e SENSATA ( = abbia una sua cogente ragionevolezza ed esperibilità), ossia:

ha senso ( = è logico) 1 se e soltanto se sono logico/sensati 2, 3 e 4;

ha senso ( = è logico) 2 se e soltanto se sono logico/sensati 3 e 4;

ha senso ( = è logico) 3, se e soltanto se è logico/sensato 4;

ha senso ( = è logico) 4, se e soltanto se sono logico/sensati 1, 2 e 3.

Infatti, senza 1, non avremmo ( = NON avrebbero senso = NON sarebbero logici) i passaggi da 2 a 4.

Senza 2, NON avrebbero senso (NON sarebbero logici) né 1 né i passaggi/le fasi 3-4.

Senza 3, NON avrebbero senso (NON sarebbero logici) né 1 né 2 e né 4.

Senza 4, NON avrebbero senso (NON sarebbero logici) i passaggi/le fasi 1-3.

Domando:

cosa succede se applichiamo alle suddette quattro fasi la tesi severiniana dell’eternità di ogni ente (quindi, dell’eternità/indivenienza di ciascuna di esse)?

Succede che alla luce della concezione severiniana/eternista _ ove ciascuna delle quattro fasi è eternamente identica a sé e quindi NON DIVENTA ( = NON SI TRASFORMA MAI ne) la successiva, né questa DIVENTA tale (TRASFORMANDOSI) dalla precedente (pur restando fermo, per Severino, che ogni fase sia inscindibilmente relata alla precedente nonché alla successiva) _, le nostre quattro fasi si rivelano del tutto ILLOGICHE/INSENSATE.

Perché?

Si consideri.

(A)- Nel nostro mondo, per come ‘funzioniamo’ noi viventi, se 1 NON ha fame, se 2 NON mangia/mastica il cibo e se 3 NON lo assimila ( = NON lo TRASFORMA), allora 4 NON avrà alcunché da espellere:

tutto ciò è (pre-filosoficamente) LOGICO/RAGIONEVOLE.

(B)- Se 1 ha fame, se 2 mangia/mastica il cibo e se 3 lo assimila ( = lo TRASFORMA), allora 4 dovrà espellere gli scarti di 3:

tutto ciò è (pre-filosoficamente) LOGICO/RAGIONEVOLE.

Invece:

(C)- se 1 NON ha fame, se 2 NON mangia/mastica il cibo e se 3 NON lo assimila ( = NON lo TRASFORMA) e se ciò nonostante pretendessimo che 4 espella materiale di scarto, ebbene:

ciò sarebbe (pre-filosoficamente) ILLOGICO/IRRAGIONEVOLE. 

(D)- Nel caso dell’eternità degli enti;

se 1 NON si TRASFORMA in 2 2 in 3 e, nonostante ciò, Severino pretende che 4 esista eternamente al pari di 1, di 2 e di 3, allora:

ciò è (pre-filosoficamente) ILLOGICO/IRRAGIONEVOLE. 

Infatti, come è ILLOGICO/IRRAGIONEVOLE che (C), NON mangiando, possa ugualmente produrre ( = TRASFORMARE) materiale di scarto da espellere, è parimente ILLOGICO/IRRAGIONEVOLE che (D), NON TRASFORMANDO mai 2 in 3 3 in 4, possieda eternamente le inutili feci in 4, esattamente come è IRRAGIONEVOLE che a possederle e ad espellerle sia (C).

Che senso ha (quanto RAGIONEVOLE è) l’apparire/la presenza di 4 (ma anche di 1, di 2 e di 3), dal momento che esso NON possiede una RAGIONE che nel contesto severiniano ne legittimi la presenza, visto che 4 NON è il LOGICO/RAGIONEVOLE prodotto della TRASFORMAZIONE della fase 3?

Nessun senso, nessuna ragionevolezza.

Poiché, per Severino, niente si TRASFORMA in altro, la comparsa della fase 4 è ILLOGICA, IRRAGIONEVOLE, senza senso, superflua, ingiustificata, così come severinianamente ingiustificabili sono le fasi precedenti.

Se niente DIVIENE il proprio altro, cioè se niente si TRASFORMA, allora non si capisce affatto la RAGIONE per la quale all’eterno 1 seguirebbero sempre (o per lo più) gli eterni 3-4… 

Negando ogni TRASFORMAZIONE, 4 è (o possiede) eternamente qualcosa che severinianamente parlando NON ha nessuna RAGIONE di essere (o di possedere), se 4 NON è il prodotto di alcuna TRASFORMAZIONE…

La ragione comune (pre-filosofica) è ESPLICATIVA; quella filosofico-severiniana NO…

 

Roberto Fiaschi

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lunedì 10 febbraio 2025

153)- IL SEVERINIANO SENZA RITEGNO…

 

Se i severiniani non esistessero, bisognerebbe inventarli.

Tuttavia dubito di poter raggiungere il loro livello di fantasia.

Uno dei più divertenti è Sebastiano Dell'Albani, già noto per aver scritto una sorta di PREGHIERA indirizzata a Severino: 15)- LODI SEVERINIANE, nonché per esser prossimo ad istituire il CULTO verso di lui: 135)- IL CULTO DI SAN SEVERINO È ORMAI PROSSIMO…

Oggi, per il nostro Sebastiano Dell'Albani, Severino è già alle soglie dell’INDIAMENTO:

<<Aggiungo inoltre che Severino non può essere considerato un semplice filosofo o grande filosofo. Severino è la filosofia fatta persona e ogni discorso filosofico o anche scientifico non può assolutamente prescindere dal suo pensiero. Anche coloro che lo criticano aspramente contribuiscono,contrariamente alle loro intenzioni, ad accrescere l'importanza del suo pensiero>>…

… Quale sarà la prossima tappa?

Inoltre, c’è un punto che non mi torna, ove Sebastiano Dell'Albani sentenzia:

<<Anche coloro che lo criticano aspramente contribuiscono,contrariamente alle loro intenzioni, ad accrescere l'importanza del suo pensiero>>.

Infatti, in virtù dell’incontraddittoria identità con sé dell’essente e differenza dal proprio altro, grazie alla quale CRITICARE ASPRAMENTE significa CRITICARE ASPRAMENTE e NON: ACCRESCERE L'IMPORTANZA DEL SUO PENSIERO, Sebastiano Dell'Albani auspica una contraddittoria identità laddove essa NON può sussistere, appunto perché CRITICARE ASPRAMENTE NON significa affatto ACCRESCERE L'IMPORTANZA DEL SUO PENSIERO, bensì l’esatto contrario, cioè DIMINUIRE L'IMPORTANZA DEL SUO PENSIERO.

Ciò nonostante, l’insonne acume di Sebastiano Dell'Albani si augura speranzoso che DIMINUIRE L'IMPORTANZA DEL SUO PENSIERO equivalga al proprio contrario, appunto all’ACCRESCERE L'IMPORTANZA DEL SUO PENSIERO…

Perciò, il DIMINUIRE L'IMPORTANZA DEL SUO PENSIERO avrà tutto il diritto di protestare al cospetto della <<filosofia fatta persona>>, facendo così valere la propria identità con sé e differenza dall’ACCRESCERE L'IMPORTANZA DEL SUO PENSIERO

 

Roberto Fiaschi

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