Scrive Marco
Cavaioni, allievo del filosofo Giovanni Romano Bacchin:
<<Mi sono sempre chiesto come, dopo Gentile e sulla
scorta di una conoscenza approfondita dell'Attualismo, abbia potuto prendere
corpo un "naturalismo anomalo" (definizione che attingo da Stella,
che parafrasa Davidson) quale effettivamente è il Severinismo. Mi sono spesso
chiesto e mi chiedo ancora, cioè, come possa essersi riproposto – ed in modo
estremo e con ambizioni giustamente smisurate di epistemicità – una posizione
già radicalmente dissolta sul piano teoretico. Per dire rozzamente, la risposta
che mi sono dato è la seguente: Severino ha appiattito il pensiero (pensante)
sul pensiero pensato – "pensiero pensato" che, a rigore, è già una
contraddizione in termini –, pretendendo, tuttavia, di conservare
l'innegabilità che spetta solo al pensiero autentico, appunto sempre pensante e
mai pensato. […] La logica determinativa (identità e differenza, insomma
il principio di non contraddizione) è la struttura del dire e della sua
presunzione di tener ferme le differenze, le
distinzioni (intellettualismo, che negherà sempre la propria inconsistenza,
perché non la può vedere). Da ciò – da questo FATTO che è il dire – si
inferisce, illogicamente, che ciò che viene detto, poi-ché (dopo che, dopo il
fatto che) viene detto, sia per ciò stesso anche pensabile: infatti, si
considera pensabile anche l'impensabile, per il FATTO che lo posso ben dire,
come lo abbiamo testè detto. Illogicamente, perché si inverte l'implicazione
autenticamente logica, che dovrebbe essere questa: se e solo se è pensabile,
allora sarà sensatamente dicibile. Ma un siffatto "pensiero" (che non
c'è, avendo reso totalizzante lo "essere pensato" o
"apparire") è un "pensiero" totalmente succube della logica
del FATTO (pensato), ne è, anzi, la inerte (passiva) assolutizzazione. È un
"pensiero" inferiore a se stesso, longa manus del presupposto.
Il fatto potrebbe essere assoluto ad una solo condizione (per fortuna
impossibile): che non si pensi, anzi peggio: che, pensando, si sia espunto dal
pensare l'atto di pensiero, riducendolo a pensato ("pensato" non si
sa da chi, da quale soggetto trascendentalmente inteso). Ma non è difficile
capire che, laddove tutto fosse oggetto ed oggettivato (pensato), nemmeno
oggetto ed oggettivazione vi potrebbe essere, nonostante le pretese di verità
che tale impostazione rivendica. O, meglio, ciò accade proprio per tale assurda
PRETESA e pretesa di DIRE (determinare, significare, semantizzare, oggettivare)
la verità assoluta, ergo innegabile, ergo indeterminabile, inoggettivabile>>.
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Comincio
domandando(mi):
DIRE (cioè <<determinare, significare, semantizzare,
oggettivare>>)
è PENSARE?
O meglio:
il DIRE implica
il PENSARE?
Ancor meglio:
posso DIRE qualcosa senza prima (o al contempo) averlo PENSATO?
DIREI/PENSO di no…
Infatti, allorché Marco
Cavaioni afferma (DICE) <<che ciò che viene detto, poi-ché (dopo che,
dopo il fatto che) viene detto,
sia per ciò stesso anche pensabile: infatti, si considera pensabile anche
l'impensabile, per il FATTO che lo posso ben dire>>, avrà pur dovuto PENSARE a quanto
ha DETTO, perché, se così non fosse, non avrebbe DETTO (PENSATO) niente di intelligibile.
Per lui, <<l'implicazione autenticamente logica>>
<<dovrebbe essere questa: se e solo se è pensabile, allora sarà
sensatamente dicibile>>.
Senonché, dopo aver ridotto la <<logica determinativa
(identità e differenza, insomma il principio di non contraddizione)>>
alla <<struttura del dire>>
affètta dalla <<presunzione di tener ferme
le
differenze, le distinzioni>>, egli ricorre a quella stessa logica dell’identità-differenza
che, invece, DICE (quindi PENSA) di criticare e/o almeno ridimensionare!
Infatti, tale logica dell’identità-differenza è pienamente
all’opera dove egli riconosce che il DIRE: <<se e solo se è pensabile,
allora sarà sensatamente dicibile>>
DIFFERISCE dal
DIRE: <<che ciò che viene detto, poi-ché (dopo che, dopo il fatto che) viene detto, sia per ciò stesso
anche pensabile>>, e quindi accetta il primo DIRE e rifiuta (nega) il
secondo, conformemente alla logica dell’identità-differenza.
Ciò vuol dire (appunto!) che la logica dell’identità-differenza
TIENE FERME <<le
differenze, le distinzioni>> vigenti tra il primo DIRE, che Marco
Cavaioni accetta, ed il secondo DIRE, che invece nega.
Per cui egli si ritrova suo malgrado a NEGARE che la logica
dell’identità-differenza abbia la <<presunzione di tener FERME
le
differenze, le distinzioni>>!
Se non le tenesse FERME, egli non potrebbe accettare il primo
DIRE e rifiutare come ILLOGICO
il secondo!
Evidentemente, tale suo DIRE è tutt’uno con il suo PENSARE, per cui anche
il DIRE <<che ciò che viene detto, poi-ché (dopo che, dopo il fatto
che) viene detto, sia per ciò stesso anche pensabile>>, è accettabile
nella misura in cui il DIRE NON è disgiungibile dal pensare.
Infatti, allorquando Marco
Cavaioni DICE l’impensabilità dell’<<atto di pensiero>>,
non sta forse già pensandoLO?
Se così non fosse, NESSUNO RIUSCIREBBE A COMPRENDERE di che
cosa egli stia parlando, riferendosi a (DICENDO) l’<<atto di pensiero>>.
Al che, egli osserva:
<<Ma non è difficile capire che, laddove tutto fosse
oggetto ed oggettivato
(pensato), nemmeno
oggetto ed oggettivazione vi potrebbe essere, nonostante le pretese di verità
che tale impostazione rivendica. O, meglio, ciò accade proprio per tale assurda
PRETESA e pretesa di DIRE (determinare, significare, semantizzare, oggettivare)
la verità assoluta, ergo innegabile, ergo indeterminabile, inoggettivabile>>.
Ma tali APORIE/INCONGRUENZE nascono proprio dalla PRETESA filosofica
di NON poter
<<DIRE
(determinare, significare, semantizzare, oggettivare) la verità assoluta>>
nel momento stesso in cui si PRETENDE di parlare DELLA <<verità assoluta>>
che, perciò, comporta il suo DIRLA, determinarLA, significarLA, semantizzarLA,
oggettivarLA in qualche modo.
La contraddittoria pretesa impossibilità di OGGETTIVARE l’inoggettivabile
<<atto di pensiero>> NON è una PROVA che esso sia l’ASSOLUTO (Dio),
al contrario: è la PROVA della contraddittorietà di voler evitare l’oggettivazione
di ciò che viene PENSATO/DETTO.
Per tale ragione OGNI filosofia che tenti speculativamente
di avventurarsi nei pressi dell’assoluto (o di Dio), non potrà che fallire
miseramente, avvolgendosi in infinite contraddizioni e, perciò, a mio
avviso Dio è ‘avvicinabile’ soltanto per FEDE, ché, se si tenta la via
speculativo-filosofica, è inevitabile imbattersi poi nelle aporie non
solo del DIRE ma, insieme, del PENSARE…
Roberto Fiaschi
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