martedì 28 marzo 2023

46)- SPINOZA E LA «MENTE DI CRISTO»

Nonostante Spinoza sia stato un grande critico del Cristianesimo, questi luminosi passaggi meritano di essere riletti:

<<credo che nessuno sia pervenuto a una così grande perfezione al di sopra degli altri se non Cristo, al quale i precetti di Dio che conducono gli uomini alla salvezza furono rivelati non con parole o visioni, ma immediatamente; cosicché Dio per mezzo della mente di Cristo si è manifestato agli apostoli, come una volta si era manifestato a Mosè mediante una voce aerea. E perciò la voce di Cristo, come quella udita da Mosè, si può chiamare voce di Dio. E in questo senso possiamo anche dire che la sapienza di Dio, cioè la sapienza superiore a quella umana, ha assunto in Cristo natura umana e che Cristo è stato la via di salvezza. Ma qui è necessario avvertire che io non intendo affatto parlare di quelle cose che alcune chiese stabiliscono intorno a Cristo, e nemmeno negarle, giacché confesso senza difficoltà di non capirle. Ciò che ho affermato poco fa lo traggo dalla stessa Scrittura. Infatti, non ho letto da nessuna parte che Dio sia apparso a Cristo o gli abbia parlato, ma ho letto che Dio si è rivelato agli apostoli per mezzo di Cristo, che egli è la via di salvezza, e infine che l’antica Legge fu comunicata per mezzo di un angelo, e non immediatamente da Dio ecc. Sicché, mentre Mosè parlava con Dio faccia a faccia, come un uomo è solito parlare con un compagno (cioè con la mediazione dei loro due corpi), Cristo invece comunicò con Dio da mente a mente. Affermiamo dunque che, all’infuori di Cristo, nessuno ha ricevuto le rivelazioni di Dio se non per mezzo dell’immaginazione, cioè per mezzo di parole o di immagini, e che perciò per profetizzare non è necessaria una mente più perfetta, ma un’immaginazione più vivida […]>>.

(Trattato teologico-politico I, p. 665);

<<questa sapienza si manifestò soprattutto in Gesù Cristo, i suoi discepoli la predicarono così come fu da lui rivelata, e per questo Spirito di Cristo mostrarono di potersi gloriare sopra tutti gli altri. Per il resto ho detto espressamente di ignorare che cosa significhi ciò che alcune Chiese aggiungono, che cioè Dio abbia assunto forma umana; anzi, a dire il vero, mi sembrano affermazioni assurde, come quelle di chi mi dicesse che il circolo ha assunto la natura del quadrato>>.

(Epistola 73 a Oldenburg).

 

Roberto Fiaschi

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lunedì 27 marzo 2023

45)- PLATONE (PRE)VEDE «IL VERO GIUSTO»

Si domanda Platone:

<<Se un giorno dovesse venire al mondo un uomo veramente giusto, un uomo nel quale la giustizia non è un fatto superficiale che riguarda alcuni strati del suo essere, ma veramente giusto: quale sarebbe la sorte di quest’uomo nel nostro mondo?>>

(Platone, Politeia II, 361e-362a).

E prosegue:

(1)- <<Diciamolo dunque; e se le mie parole riusciranno un po' rozze, non pensare, Socrate, che le proferisca io, bensì coloro che lodano l'ingiustizia anziché la giustizia. Essi [coloro che lodano l'ingiustizia] diranno che in queste condizioni il giusto sarà frustato, torturato, imprigionato, gli saranno bruciati gli occhi, e alla fine, dopo aver subito ogni genere di mali, verrà impalato e riconoscerà che non bisogna voler essere giusti, ma sembrarlo>>.

(Platone: La Repubblica, a cura di Giuseppe Lozza, Mondadori, Verona 1990, II, 361 e 362 a).

(2)- <<[...] un uomo semplice e nobile il quale, come dice Eschilo, non vuole sembrare, ma essere buono. Bisogna dunque togliergli l'apparenza della giustizia; giacché se apparrà esser giusto, avrà onori e doni per l'apparir egli tale, e non risulterebbe chiaro se fosse giusto per amor della giustizia o dei doni e degli onori. Perciò va spogliato di tutto fuorché della giustizia stessa: [...] abbia egli massima fama di ingiustizia, affinché sia messo alla prova [...]; vada innanzi irremovibile sino alla morte, sembrando per tutta la vita essere ingiusto ed essendo invece giusto [...]: flagellato, torturato, legato, gli saranno bruciati gli occhi, e infine, dopo aver sofferto ogni martirio, sarà crocifisso>>.  

(Platone: La Repubblica, libro II, n. 165-220, Sansoni 1970, pp. 46 - 48).

(3)- <<[] ma quelli che lodano l’ingiustizia invece della giustizia, dicono che l'uomo giusto sarà frustato, torturato, imprigionato, abbacinato; e dopo tutte queste sofferenze, sarà messo sul palo e allora comprenderà che non bisogna volere essere giusto, ma sembrarlo>>.

 

Roberto Fiaschi

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venerdì 24 marzo 2023

44)- M. BIGLINO: «ELOHÎM’ NON VUOL DIRE ‘DIO’»?

Riporto dalla pagina del dott. Giuseppe M. Cùscito (https://cuscito.it/2019/07/13/faq/) una sua risposta estratta dalle <<obiezioni frequenti>> avanzate dai seguaci di Mauro Biglino.

Il titolo è:

<<“Ma ‘‘olam’ non significa ‘eternità’, ‘elohîm’ non vuol dire ‘dio’”, ecc.">>.

(https://cuscito.it/2021/01/30/faq-21/; sottolineature in giallo mie: RF).

***

<<È un dato di fatto che i dizionari dicono il contrario. Non sono mie opinioni.

 

elem sul Brown – Driver – Briggs, Hebrew and English Lexicon.

Dal dizionario Jastrow. La sigla “b.h.” sta per “Biblical Hebrew”.

 

Dal Clines Dictionary of Classical Hebrew

L’assurdità di questa obiezione sta nel fatto che per ben due video ho più volte ripetuto che soffermarsi sui singoli termini lascia il tempo che trova e che quello che conta è sottolineare la mancanza di metodo.

Eppure, nonostante l’abbia detto e ripetuto, mi si continua a fare obiezioni sui termini quali ‘olam, ignorando il fatto che esiste anche il suo sinonimo nea, che vuol dire pure “eternità”. Curiosamente, su questo tutti, a partire da Biglino, finora hanno sempre glissato.

Ho anche spiegato più e più volte che è una questione di metodologia e di coerenza: non si può allo stesso tempo dire che l’ebraico è così polisemico da far diventare rua come “mezzo volante” e poi negare in modo categorico che “lungo tempo indefinito” possa significare anche “eternità”. Che serietà è quella di usare la polisemia solo quando fa comodo? Non è questione di vocabolari, è questione di coerenzaè questione di metodo, e per capire ciò non ci vuole una laurea.

Quindi che non esista il concetto di eternità nella Bibbia è falso.

Inoltre, non è affatto vero che elohim (אֱלֹהִים) non significhi “dio”, perché la radice ‘l col significato di “divinità” è attestata anche in altre lingue semitiche, di cui alcune sono molto più antiche dell’ebraico. Come ha dimostrato uno studio sistematico sulle lingue semitiche, vi sono numerosi testi scritti in lingue quali il fenicio e l’accadico, in cui l’equivalente di elohim, cioè ilanu, indica il plurale di “divinità”, è attestato anche per divinità singole (Joel S. Burnett, A Reassessment of Biblical Elohim, Atlanta 1999) già nel XIV secolo a.C., cioè quasi un millennio prima della redazione della Bibbia! Era quindi usato anche in un contesto evidentemente politeista, per cui cade l’ipotesi di una lettura al singolare fatta apposta per forzare una lettura monoteista.

Quindi l’ipotesi per cui il plurale elohim indicherebbe sempre una pluralità di individui e che dei fantomatici teologi ebrei avrebbero maldestramente cambiato i verbi al singolare, dimenticandosi sbadatamente di cambiare elohim al singolare, si mostra in tutta la sua assurdità. Così come il sostenere che il significato di “divinità” sarebbe stato inventato dai presunti teologi ebrei per nascondere l’esistenza di presunti alieni vuol dire ignorare (forse volutamente) dei dati di fatto incontrovertibili che in realtà mostrano l’esatto contrario, cioè che la radice da cui derivano ilanuel e da cui deriva anche l’arabo Allah, è ben attestata col significato di “divinità”, come ho già detto. Che nessuno sa cosa significhi elohim è quindi semplicemente una falsità, secondo me creata ad arte in modo da legittimare la propria interpretazione di quel termine come “alieni”.



Ora chi lo dice agli autori del dizionario, F. Brown, S. Driver e C. Briggs, che si sbagliano e che ha ragione uno che di ebraico ha preso solo 20-25 lezioni e poi ha proseguito da autodidatta e che in due versetti (peraltro copiati!) fa una media di un errore ogni quattro parole, scrivendo più volte una lettera per un’altra e sbagliando persino a scrivere “Genesi” ed “Esodo”?>>

Giuseppe M. Cùscito

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mercoledì 22 marzo 2023

43)- «FACCIO FINTA» CHE MAURO BIGLINO SIA VERO…

Da parte mia, poche parole su Mauro Biglino, che ritengo esser un 'ottimo' catalizzatore d’odio nei confronti del Cristianesimo e della Chiesa.

Nei prossimi post dedicati a lui, lascerò parlare (riportando i testi di) persone più competenti di me, come ad esempio il Dott. Giuseppe M. Cùscito.

Biglino pare abbia escogitato un metodo grandioso al fine di spremere la verità dai testi biblici, a suo dire occultata da tempo immemore dalla Chiesa:

<<[…] Io ho ripetutamente detto e continuo a dire che “non so chi siano gli Elohim perché la Bibbia non lo dice” ma quando mi si pone la domanda precisa io non mi sottraggo e dico sempre che “faccio finta” che gli antichi abbiano detto il vero e i popoli di tutti i continenti della Terra definiscono “quelli là” come “figli delle stelle”, per cui io applico il mio metodo e “faccio finta” che sia vero>>. (Facciamo finta che la bibbia..., su maurobiglino.it, 22 dicembre 2012).

Ora, che ilfare fintaassurga a dignità di <<metodo>> scientifico, significa voler rendere le cose a propria immagine e somiglianza, è il caso di dire.

Col pretesto del suo <<faccio finta” che sia vero>> cioè di una verità LETTERALE, egli può concedersi di ignorare bellamente i numerosi generi letterari da cui è composta la Bibbia.

<<Nell'Antico Testamento si può trovare poesia popolare (canti del lavoro, dell'amore, del custode o della vittoria, satire, enigmi...), prosa ufficiale (patti, simboli della fede, leggi, istruzioni, esortazioni, cataloghi, lettere...), narrazioni (miti, saghe, racconti eziologici, fiabe, memorie, informazioni, autobiografie...), letteratura profetica (oracoli, visioni, sogni, apocalissi...), generi sapienziali (proverbi, sentenze...), ecc. Quanto al Nuovo Testamento, nei Vangeli sinottici troviamo detti profetici e sapienziali, paradigmi, parabole, dispute, sentenze, racconti di miracoli, storie della passione, ecc.; nelle lettere si incontrano inni, confessioni di fede, cataloghi di vizi e virtù, precetti per la famiglia, formule di fede, dossologie, ecc.; negli Atti abbiamo discorsi, sommari, preghiere, lettere, racconti di missione, racconti di viaggi, ecc. Avere coscienza della peculiarità dei generi è molto importante per il nostro accostarci alla Bibbia, proprio perché siamo tentati di livellare i suoi diversi modi di esprimersi. Questo vale soprattutto per le narrazioni, che si tende sempre a leggere come fossero cronache dei fatti, senza sapere poi come affrontare gli inevitabili problemi di storicità di testi che non sono resoconti storici o lo sono in modo assai diverso dal nostro scrivere storia>>. (https://www.monasterovirtuale.it/i-generi-letterari-della-bibbia.html).

Biglino ammette di non sapere <<chi siano gli Elohim>>, ed in un suo video ha altresì dichiarato di non saper neppure cosa o chi sia Dio, pretendendo, però, con impeccabile rigore e consequenzialità tipica del coerente studioso, che gli Elohim non siano (o non sia) il <<Dio spirituale>>.

Per lui, <<L’esistenza di “quelli là” è inoltre sicuramente più credibile e statisticamente più probabile che non quella di quel Dio che i teologi hanno inventato partendo da Elohim>>. - (Idem).

Ma, nuovamente:

essendo egli all’oscuro su chi sia Elohim e su chi sia Dio, come può, allora, SAPERE con tanta disinvolta sicumera che Dio sia stato <<inventato partendo da Elohim>>?

Giacché è chiaro:

per poter sensatamente ESCLUDERE qualsiasi identificazione tra Elohim e Dio, è palese come Biglino debba già aver contezza su chi/cosa sia Elohim e su chi/cosa sia Dio, altrimenti non potrebbe affatto escluderne la reciproca coincidenza.

Ma capisco che a forza di “fare finta”, Biglino abbia fatto finta di esporre una tesi sensata…

Nel passaggio di cui sopra, il Nostro esperto del “fare finta” si rivela, oltre che abile esegeta biblico, anche sagace filosofo.

Infatti egli ritiene <<più credibile e statisticamente più probabile>> l’esistenza di “quelli là” rispetto a <<quella di quel Dio inventato>>…

Insomma, Biglino dice di non sapere chi/cosa Dio sia, ed al contempo sa così tanto bene chi/cosa sia da poterLo sottoporre a statistica!

Infine, con malcelata finta umiltà annuncia:

<<Se si scoprirà che “quelli là” erano E.T. io dirò “bene”. Se si scoprirà che “quelli là” non erano E.T. io dirò “bene”. L’importante è capire l’inganno colossale che si cela dietro l’affermazione “Elohim uguale Dio spirituale”>>. - (Idem).

Purtroppo, anche in questo passaggio, Biglino esibisce nuovamente l’inconsequenzialità dei propri discorsi, perché se egli ritiene di aver già capito <<l’inganno colossale che si cela dietro l’affermazione “Elohim uguale Dio spirituale>>, allora egli sottintende che sia già stato scoperto (da lui) che <<“quelli là”>> sono <<E.T.>>, o quanto meno che (gli) Elohim non sia(no) il <<Dio spirituale”>>.

Quindi, non: <<Se si scoprirà che “quelli là” erano E.T. […]>>,

bensì, fuor di ogni ipocrisia:

io (Biglino) ho già scoperto che “quelli là” sono E.T., o comunque non sono il <<Dio spirituale”>>!

D’altronde, è noto come <<Per Biglino gli Elohim o “quelli li”, come a volte ama chiamarli, tutto erano fuorché “esseri umani”, più volte ha spiegato nei suoi libri e conferenze che gli uomini sono un esperimento genetico contenete solo un “pezzo” (Tselem) degli Elohim, ergo non sono esseri umani, sarebbe come se l’uomo utilizzasse il genoma dei gorilla immettendoci un pezzo del proprio DNA, quello che ipoteticamente ne uscirebbe non sarebbe certo un uomo>>. (https://guardopensoedico.wordpress.com/2019/07/02/sanchuniathon-la-verita-nascosta-da-mauro-biglino/: 18 Repliche).

Roberto Fiaschi

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giovedì 16 marzo 2023

42)- IL PRESENTE DIVENTA ALTRO DA SÉ-PASSATO

Scrive A.V. nel gruppo Facebook Officina di filosofia teoretica (dretspSoona9c5:e5fl66l 430u5r1z35a0255 63oi 2um1tg0042o51r e):

<<LO SO. Che il prima diventi il poi. Che l'essere stato diventi l'esser ora. Che il prima non sia più prima. Che l'essere stato non è più l'esser stato. Perché sono divenuti l'esser poi e l'essere ora. È la follia che a tutti sembra l'evidenza assoluta. Nessuno è disposto a dire che il prima è il poi. E nessuno è disposto a dire che l'essere stato è l'essere ora. Ma poi si dimentica che per diventarlo il prima non è stato ma è (divenutolo) il poi. Strani i sostenitori di un processo in cui definiscono che il prima non SIA il poi ma insieme che lo SIA divenendolo. In actu exercito affermano la differenza tra prima e poi o tra esser stato e esser ora ma in actu signatu la negano. Affermare e negare insieme le differenze o affermare che i differenti sono identici è negazione del primo principio assoluto di non contraddizione e inviolabile per la vera conoscenza. Si decidano. Non vi sembra una follia quella affermazione che si nega da sé e pretende pure di essere il reale che appare? Una CONTRADDIZIONE APPUNTO. Per sostenere che il prima diventi il poi si deve sostenere che il prima non è il poi e sostenere insieme che il prima è il poi. Sostenere l'impossibile divenire>>.

(NOTA: per agevolare la lettura onde evitar di ‘perdersi’, evidenzio coi seguenti tre colori i termini di passato, presente e futuro).

Il tema di questo post (ma vedasi anche il post n° 21) è il DIVENIRE degli ETERNI il quale, secondo Severino, con comporterebbe affatto il <<diventare altro>> da parte di nessun eterno ( = ente), quindi, neppure di quell’ente (qualsiasi esso sia) circa il quale siamo soliti dire che è stato futuro, che è ora presente e che sarà passato, perché nell’ottica severiniana e come ha ben esemplificato A.V. nel suo scritto su riportato, ciascun ente è e resta immutabilmente ciò che da sempre, eternamente è, cosicché severinianamente abbiamo:

(1) x-presente mai diverrà quell’altro da sé che è x-passato;

(2) x-presente mai è stato quell’altro da sé cui è x-futuro;

(3) x-futuro mai diverrà quell’altro da sé cui è x-presente;

(4) x-passato mai è stato quell’altro da sé che è x-presente.

***

In questo post tratterò soltanto del punto (1):

x-presente mai diverrà quell’altro da sé che è x-passato.

Scrive Severino: <<il presente non diventa un passato, non diventa altro da sé: ciò che incomincia ad apparire come passato è l’incominciare ad apparire di ciò che eternamente è un passato e che permane nel  presente, nel senso che ha in comune col presente quei tratti che è necessario che appaiano affinché il presente possa apparire come sopraggiungente>> - (E. Severino: Oltrepassare, Adelphi, pag. 340).

Come evitare, dunque, la (presunta) contraddizione secondo la quale x-presente sia divenuto quell’altro da sé cui è x-passato?

La soluzione di Severino l’abbiamo appena letta.

Funziona?

Temo di no.

L’<<incominciare ad apparire di ciò [x-passato] che eternamente è un passato>>, sopraggiunge su ciò (su x-presente) che non può mai diventare quell’altro da sé cui è x-passato.

Quindi, l’<<incominciare ad apparire di ciò [x-passato] che eternamente è un passato>>, sopraggiungendo, NON trasforma x-presente facendolo diventare x-passato e insieme (simul) LO TRASFORMA in x-passato, perché adesso, essendo sopraggiunto x-passato, x-presente NON è più presente.

Certo, l’<<incominciare ad apparire di ciò che eternamente è un passato>> <<permane nel presente>>, ossia x-presente continua ad apparire come x-presente, altrimenti non potremmo indicare il passare di x senza riferirlo a ciò (x-presente) che non passa.

Ma adesso domandiamoci:

cominciando ad apparire x-passato come <<ciò che eternamente è un passato e che permane nel presente>>, x-presente continua forse a restar IDENTICO a lo x-presente COME ERA PRIMA che cominciasse ad apparire x-passato?

No: l’allieva di Severino, la prof.ssa Nicoletta Cusano, scrive:

<<è necessario affermare che ciò [x-presente] che non appare più [poiché è ormai passato e quindi adesso appare x-passato] continua ad apparire, seppure diversamente da come appariva [quando appariva come x-presente], ed è presente in ciò [in x-passato] che sopraggiunge proprio in quanto sopraggiunge: è, per così dire, la natura del sopraggiungere a portare con sé la necessità di quel permanere [di x-presente], di quel continuare a essere presente [da parte di x-presente]. Il sopraggiungere [di x-passato], proprio in quanto tale, non può che includere l’apparire di ciò [di x-presente] che non appare più [poiché adesso è apparso/è sopraggiunto x-passato]. Ciò [x-presente] che non appare più smette di essere presente [smette di esser x-presentecome era prima [che sopraggiungesse x-passato], ma continua a essere presente [continua ad esser x-presente] come contenuto incluso o implicato in ciò [in x-passato] che sopraggiunge: ciò [x-presente] che non appare più [poiché è passato] continua ad apparire [ad esser presente], ossia permane presente], nel sopraggiungente [in x-passato]>>.

(N. Cusano: Emanuele Severino. Oltre il nichilismo. Morcelliana; pag. 327).

X-presente, che continua <<a essere presente come contenuto incluso o implicato in ciò [in x-passato] che sopraggiunge>> DIFFERISCE da x-presente <<che non appare più>> (nonostante il permanere degli elementi tra loro identici o comuni) il quale, perciò, <<smette di essere presente come era prima [cioè prima che sopraggiungesse x-passato]>>.

Questo cessar <<di essere presente come era prima>> indica l’esser ormai DIVENTATO un passato da parte di x-presente-come-era-prima, ove il come-era-prima è appunto lo x-presente come era prima che sopraggiungesse x-passato.

Dunque, x-presente deve TRASFORMARSI DIVENTANDO x-passato, giacché se mai x-presente diventasse altro da sé (cioè x-passato), allora mai potremmo ritener che x-presente <<smetta di essere presente come era prima>> che sopraggiungesse x-passato, appunto perché x-presente sarebbe rimasto nella sua eterna ed indivenibile permanenza come x-presente, quindi non avrebbe potuto cessare <<di essere presente come era prima>>. 

Secondo la Cusano, abbiamo x-presente il quale <<continua a essere presente come contenuto incluso o implicato in ciò [in x-passato] che sopraggiunge>> e che <<continua [x-presente] ad apparire, ossia permane, nel sopraggiungente [cioè in x-passato]>>.

Per cui, attenzione:

x-presente <<continua ad apparire>> (continua ad essere x-presente) sì, ma NON come era prima!

Cosa vuol dire?

Vuol dire che l’esser presente da parte di x come era prima che sopraggiungesse x-passato può essere oramai un passato soltanto nel senso che è DIVENUTO altro da sé, appunto perché il suo (di x-presente) continuare <<a essere presente come contenuto incluso o implicato in ciò [in x-passato] che sopraggiunge>> di modo che x-presente continui <<ad apparire, ossia permane, nel sopraggiungente [in x-passato]>>, costituisce l’esser passato di x-presente nell’accezione severiniana (a suo dire non-nichilistica),

ma in tal caso quel residuo di x-presente che invece <<smette di essere presente come era prima [cioè quando era x-presente]>> non potrà che esser DIVENUTO ormai un passato nel senso nichilistico o non-severiniano, altrimenti x-presente-come-era-prima continuerebbe ad apparire precisamente e letteralmente <<come era prima>>, e non come <<contenuto incluso o implicato in ciò [in x-passato] che sopraggiunge>>.

Pertanto, è proprio in virtù del loro innegabile differenziarsi, che x-presente DIVENTA x-passato ANCHE nel divenire severiniano inteso, cioè, come l’apparire e lo scomparire degli eterni…

 

Roberto Fiaschi

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martedì 14 marzo 2023

41)- CARO PROFESSORE, CHI È «INTELLETTUALMENTE ZOPPO»?

Traggo da Facebook alcuni passaggi scritti (il 14 gennaio 2015) da un professore di lettere, estimatore del filosofo Emanuele Severino:

<<La religione, nel migliore dei casi, sta alla filosofia come una gamba di legno sta a una gamba vera; ma siccome la gente è intellettualmente zoppa, per non dire sciancata, la gamba di legno prende molto spesso il posto di quella vera. E fin qui non ci sarebbe nulla di male, dato che ognuno cammina come può. In mancanza di cavalli, dice il proverbio, si corre con gli asini. Se però quella gamba di legno pretende di essere essa la gamba vera, e chi la usa minaccia di azzoppare anche quelli che zoppi non sono, allora bisogna reagire energicamente, e senza masticare le parole. Questo è quello che ciascuno di noi dovrebbe fare affidandosi criticamente a chi ci può aiutare>>.

E ancora:

<<Provare a vivere nel tempo del terrorismo islamico è difficilissimo perchè una marea di omuncoli fonda la propria fede su Dio che non c'è e in nome di questo Dio che è nulla, con inusitata violenza compiono ogni genere di delitti su se stessi e sugli altri senza soste, implacabilmente. Che fare? Occorre porre fine a questi scempi, costi quel che costi. Alla violenza si risponde con la violenza. Non c'è altra strada se non quella delle favole. Ma le favole sono inutili invenzioni umane, piacevoli se ben orientate, micidiali se impregnate di divino>>.

Dunque, il professore ci comunica che una persona che appartenga ad una religione sia <<intellettualmente zoppa>>.

Ho sempre trovato alquanto curiose queste violente esternazioni da parte di non pochi sostenitori del filosofo bresciano.

Infatti, il severiniano, propriamente, non dovrebbe innanzitutto inveire contro i suddetti aspetti:

<<la religione>>, la gente <<intellettualmente zoppa, per non dire sciancata>>, gli <<omuncoli>>, il <<Dio che non c'è>>, l’<<inusitata violenza>>, <<ogni genere di delitti su se stessi e sugli altri>> etc.,

bensì dovrebbe rivolgere le proprie invettive al destino (severiniano) quale unico responsabile e del quale, peraltro, non cessa di tesserne le lodi (vedasi post n° 15), giacché essi sono tutti essenti _ per utilizzare la terminologia di Severino _ inviati nell’apparire finito dal destino stesso, e per giunta sono tutti eterni!

Leggendo quest’altro suo passaggio, forse anche il professore cavalca <<asini>> anziché <<cavalli>>, sebbene egli si ritenga verosimilmente estraneo alla gente <<intellettualmente zoppa>>.

Forse anche lui si avvale di <<quella gamba di legno>> pretendendo che sia <<la gamba vera>> (entrambe eterne ed inviate dal destino severiniano).

Infatti, leggiamo:

<<Non si tratta di cambiare la follia, che è eterna come ogni altro è essente. Né di vestire i panni dell'umilta' e poi sparare sentenze! Ma a spararle è il tuo io empirico [<<qualsiasi altro "io dell'individuo, a cominciare dal mio o da quello di Emanuele Severino>>] che non può che errare, non può che dire un sacco di sciocchezze, come quelle che hai scritto. Mi limito a ricordarti che ciascuno di noi, oltre ad essere un "io individuale, empirico", è anche e soprattutto, un "Io del destino", l'Eterno apparire della verità del destino, che dunque può dare testimonianza della verità. Si tratta poi di rendersi conto che la verità è contraddizione>>.

Chiedo:

(1)- negli scritti testimonianti la verità, quale dei due “io” sarebbe a capo <<della testimonianza della verità>>?

In base a quanto scritto dal prof., a rigor di logica dovremmo rispondere:

è l’Io del destino cioè è <<l'Eterno apparire della verità del destino>> a darci testimonianza della verità, visto che l’io empirico dice <<un sacco di sciocchezze>>.

Domando ancora:

(2)- in tale testimonianza, quale dei due “io” incappa negli errori teoretici (e conseguenti <<revisioni>>; vedasi post n° 39) riguardo ad alcune tesi presenti negli scritti testimonianti la verità?

Non certo l’Io del destino, giacché esso è la <<verità del destino>> e come tale è al di fuori dell’errare.

(3)- Pertanto, NON potendo esser l’io empirico l’Io del destino, dobbiamo prendere atto dell’inesistenza di una qualsivoglia <<testimonianza della verità>>…

Inoltre domando:

(4)- chi dovrebbe <<rendersi conto che la verità è contraddizione [o <<rendersi conto>> di qualsiasi altro aspetto della verità del destino]>>?

L’Io del destino NO, giacché esso è lo stesso <<Eterno apparire della verità>> e perciò è già un eterno <<rendersi conto>>.

Non resta che l’io empirico, ossia quello <<che non può che errare, non può che dire un sacco di sciocchezze>>.

Ma, se così, l’io empirico NON potrà neppure <<rendersi conto che la verità è contraddizione [o <<rendersi conto>> di qualsiasi altro aspetto della verità del destino]>>, giacché tale <<rendersi conto>> è ontologicamente precluso all’io empirico non solo perché esso _ come dice il professore _ <<non può che errare>> e quindi NON può <<rendersi conto>> di un qualsiasi non-errare, ma anche perché ogni <<rendersi conto>> comporterebbe quel diventare altro, cioè da non-consapevole a consapevole, che da Severino è considerato impossibile.

(5)- Un’ultima domanda:

caro professore, chi è dunque <<intellettualmente zoppo>>?

 

Roberto Fiaschi

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venerdì 10 marzo 2023

40)- SEVERINO E LA SUA VIOLENZA

Scrive il filosofo Emanuele Severino:

<<La volontà che si manifesta nell’amore e nella tolleranza è violenza infinita non meno di quella presente nell’odio e nell’intolleranza. Certo, tutti noi preferiamo vivere nella tolleranza e nell’amore piuttosto che nell’odio e nell’intolleranza. Ma questa preferenza non implica che l’amore e la tolleranza siano la strada che conduce al di fuori della violenza. Per quanto profondamente diversi, amore e odio, tolleranza e intolleranza hanno la stessa anima – la violenza infinita. E la violenza, per quanto lontana dalle sue forme manifeste, non può condurre al di fuori della violenza. Né la strada che conduce al di fuori della violenza può essere un divenire, un diventare altro, prodotto da forze umane o divine. Non può essere volontà di salvezza>>. (Emanuele Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, p. 33).

Se ogni volontà è violenza, allora, tra la <<volontà che si manifesta nell’amore e nella tolleranza>> e <<quella presente nell’odio e nell’intolleranza>> possiamo inserirvi la volontà di indicare la violenza attraverso gli scritti di Severino, la quale, perciò, è anch’essa <<violenza infinita non meno di quella presente nell’odio e nell’intolleranza>>.

E poiché <<la violenza, per quanto lontana dalle sue forme manifeste, non può condurre al di fuori della violenza>>, a maggior ragione nemmeno la violenza consistente nei suoi scritti potrà mai non solo <<condurre al di fuori della violenza>>, ma neanche soltanto indicarla, giacché anche tale indicazione sarebbe pur sempre violenza ossia volontà di indicare.

La violenza della volontà di Severino ci vuol dire (tramite i suoi scritti) che il destino severiniano sia al di fuori di ogni violenza.

Tuttavia, anche il destino vuole inviare la terra che salva dal nichilismo della terra isolata, ma _ stando agli stessi presupposti severiniani _ non potrà mai riuscirvi, giacché <<la strada che conduce al di fuori della violenza [non] può essere un divenire, un diventare altro>> e, sebbene la terra isolata non diventi quell’altro da sé cui è la terra che salva, ciò nonostante dalla terra isolata si realizza il divenire che conduce alla terra che salva, e questo, ripeterei, sempre stando alle parole di Severino, <<non può condurre al di fuori della violenza>> attraverso <<un divenire, un diventare altro, prodotto da forze umane o divine>> o inviato dalla volontà del destino severiniano.  

Il destino severiniano nega ogni violenta <<volontà di salvezza>> inviando la violenza della volontà di indicare mediante gli scritti severiniani la violenza di ogni <<volontà di salvezza>>, negando così anche la propria (del destino severiniano) non-violenza:

esso vuol mostrare di essere da sempre al di fuori di ogni violenza nel mentre che la invia    

Perciò la negazione della violenza da parte del destino è l’affermazione della sua stessa violenza.

Inoltre, la negazione della <<volontà di salvezza>> da parte del destino severiniano è negazione della sua stessa <<volontà di salvezza>> allorché esso vuole inviare quell’eterno cui è la terra che salva.

 

 Roberto Fiaschi

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lunedì 6 marzo 2023

39)- LA FEDE “IN” SEVERINO


La fede in Severino è da intendere in senso oggettivo, ossia la fede che ha come oggetto Severino da parte di molti suoi estimatori.

Nel libro: Intorno al senso del nulla (Adelphi 2013), Severino, dopo aver accennato <<alla revisione, presente in queste pagine, di alcuni luoghi del mio discorso filosofico>> (pag. 191 ss.), prosegue scrivendo:

<<Nel cerchio originario [Severino] del destino – quello cioè in cui appare la terra isolata che include il “mio esser uomo” -, il linguaggio che testimonia la terra isolata precede il sopraggiungere del linguaggio che testimonia il destino […]. Il linguaggio che testimonia la terra isolata è il linguaggio dell’errare. […] Per quanto compatto tale linguaggio si presenti nel suo testimoniare il destino […], anche questo linguaggio è stato un errare. L’esempio più recente riguarda […] il modo in cui nella Morte e la terra è stata considerata l’aporia determinata dalla contraddizione del significato non è (la contraddizione Un)>>.

È da notare come alcuni suoi estimatori accolgano ed accettino le tesi di Severino per fede, giacché essi hanno innanzitutto fede in Severino.

È facile appurarlo.

Infatti, come abbiamo appena letto dalle stesse parole del filosofo bresciano, è capitato sovente che egli abbia dovuto apportare qualche correzione (che lui chiama: <<revisione>>) a non poche sue tesi via via presentate nei suoi libri, negandole, mostrando l’erroneità di quanto precedentemente aveva asserito e magari fatto passare come ‘voce’ incontrovertibile del destino.

Eppure, prima che egli ne mostrasse la fallacia, è verosimile pensare che, nel frattempo, la gran maggioranza dei suoi lettori non si fosse accorta di tali errori teoretici perché neppure sospettati, abbracciando perciò tali tesi erronee come fossero innegabili portati della sua filosofia.

Ecco, l’atteggiamento che porta alla tranquilla accoglienza di tesi rivelatesi poi erronee si chiama FEDE.

I suoi estimatori nutrono fede in Severino perché ritengono che difficilmente nel suo sistema filosofico si trovi un qualche errore, giacché esso si ergerebbe all’insegna dell’incontrovertibilità.

Due esempi tratti da suoi ferventi estimatori:

<<[…] "Noi siamo la Gioia" mi disturbava. Eppure so che Emanuele Severino non fa errori>>. (A. V.);

<<son più di 62 anni che decine di filosofi tentano inutilmente di confutare la risoluzione dell'aporetica del nulla, il gesto teorico che fonda il possente edificio teorico [di Severino]>>. (E. A.)

Dopodiché, i suoi lettori prenderanno atto di tali correzioni rinnovando ancora una volta la loro fede nella sopraggiunta <<revisione>> della tesi risultata sbagliata ma che fino ad ora da nessuno di essi intravista o anche solo sospettata come tale...

Prosegue Severino ponendo le seguenti domande:

<<Ma, allora, che cosa garantisce che anche la configurazione attuale del linguaggio che, testimoniando il destino, ha mostrato il proprio passato errare non sia a sua volta un errare? E che anche in futuro questo linguaggio, pur oltrepassando la propria attuale inadeguatezza, non porti con sé e dentro di sé altri tratti dell’isolamento [ = dell’errare] della terra e del nichilismo?>> (Parentesi quadra mia: RF).

A suo dire, lo garantirebbe (ma non è questo il tema del presente post) l’impossibilità

<<che il contenuto del sogno, e propriamente l’errare della testimonianza del destino, possa mettere in questione il destino, ossia ciò soltanto sul cui fondamento l’esistenza del sogno può essere incontrovertibilmente affermata e può apparire – dove quel mettere in questione è appunto il supporre, all’interno del sogno, che l’attuale testimonianza del destino possa essere a sua volta un errare, come lo è stata in passato>>.

Ma, se così:

- o tale garanzia non è <<incontrovertibilmente affermata>> dal fondamento sulla cui base Severino ritiene di escludere <<che l’attuale testimonianza del destino possa essere a sua volta un errare, come lo è stata in passato>>;

- oppure, tale garanzia avrebbe dovuto escludere anche in passato che il linguaggio testimoniante il destino fosse <<stato un errare>>, il che non è accaduto.

Perciò, non essendo accaduto, allora essa non è <<incontrovertibilmente affermata>> e perciò non sussiste alcuna garanzia che escluda <<che l’attuale testimonianza del destino possa essere a sua volta un errare>>,

sussiste garanzia che escluda <<che anche in futuro questo linguaggio, pur oltrepassando la propria attuale inadeguatezza, non porti con sé e dentro di sé altri tratti dell’isolamento [ = dell’errare]>>.

Curiosa, l’incontrovertibilità severiniana, la quale vige e funziona fintantoché lo stesso Severino non ne riconosce l’erroneità; dopo, pare non funzionare più…

 

Roberto Fiaschi

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